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"Alkestis 2.1": genio e sregolatezza

Le velleità aiutano a dormire”, canta una delle band indie romane per eccellenza, i Cani. Si potrebbe replicare “non sempre”, perché a volte feriscono. È il caso di “Alkestis 2.1”, del regista Johannes Bramante.

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L’Alcesti di Euripide è un pretesto per rendere soggetto il senso di abnegazione estrema per un ideale e farvi un dramma della contemporaneità. Il pubblico si siede da ogni lato della scena, ne partecipa secondo una prospettiva diversa, come se lo studio fotografico, che è l’ambiente costruito per la pièce, coinvolgesse tutto lo spazio teatrale delle Carrozzerie n.o.t., una factory di creatività in cui questa finzione si mischia alla realtà del luogo.
Ma al centro ci sono loro, i protagonisti: il fotografo (Alessandro Lussiana) in cerca dello scatto perfetto, quello della “consacrazione”, e poi Alcesti, la musa ispiratrice (Lucia Bianchi), modella per “pura vanità”. Il momento creativo, lo “shooting” si trasforma in una tortura che si reitera, secondo la finzione scenica, per più di un anno: lei si plasma alle “visioni” - sadiche, intime, brutali - di Pigmalione (questo è il nome, ispirato da Ovidio).

Euripide e Ovidio, sono un lontano richiamo che torna; il processo creativo e l’equilibrio precario, a cui fa fronte una vita d’artista, diventano fulcro dell’azione scenica, che Bramante affronta con soluzioni feroci, senza mai risparmiare il dramma. Alcesti si sottopone a vessazioni con la cecità di chi vive per il successo, quando non ci si ama abbastanza per affidarsi al solo sguardo dei propri occhi, pretendendo quello di rimando di migliaia di altra gente. Pigmalione la “violenta”, a ogni istantanea, sottomesso dall’ossessione del “ritratto assoluto”.
Una voce fuori dal campo visivo (quella di Francesca Accardi) lo tortura sollecitando una coscienza corrotta da scelleratezze, necessarie all’unica fotografia di cui valga la pena. Da solo, illuminato al centro di una scena buia, si batte contro una sorta di super-io malvagio che scardina i ricordi su un vecchio scatto con cui incontrò il successo, per la prima volta.
Si crea come un parallelismo che raddoppia la violenza: “la prima volta” del successo e “la prima volta” – sessuale – di Alcesti che Pigmalione riporta in vita, per ritrarla mentre rivive ancora una volta i suoi segni sulla pelle, nelle sue movenze.

Alkestis01Inghiottiti da un racconto atroce da cui forse vorremmo trovare una fuga, attanagliati dalle ossessioni dei personaggi, ci ritroviamo protagonisti noi stessi di un processo creativo che si è svolto e si sta svolgendo di fronte ai nostri occhi. L’ego dell’artista-fotografo, la sua insicurezza, il bisogno di emergere per sopravvivere e un’irrinunciabile inclinazione caratteriale, lo fissano in una forma di vita precaria, al vertice di un castello di cristallo pronto a frantumarsi da un momento all’altro. È una lama sottile e terribile, quella della vanità, che può meritare una trasposizione cruenta, senza sconti, come quella di “Alkestis 2.1”.
Ma cosa cela una spasmodica attenzione all’apparenza? Il nulla. Pigmalione sa di avere creato qualcosa quando si rende conto di aver ritratto “il niente”, l’unico soggetto possibile della sua folle ricerca. È una lucidità disgraziata: si cava gli occhi e la scena, insieme ai corpi, si macchiano di sangue. Un meta-teatro - perché anche il teatro è un luogo per eccellenza di creatività, successi e insuccessi - che non perdona, non lascia respiro tra un’efferatezza e l’altra, azioni ardite a cui siamo avvezzi dalla cronaca nera, riproposte per parlarci di un ambiente apparentemente “fatuo”, che mette in gioco peccati Veniali umani caricaturandoli, trasformandoli in Capitali. È un dramma all’eccesso, quello scritto e diretto da Bramante. Come vogliono gli “eccessi”, per assimilarlo ci vuole del tempo e la pazienza di riconsiderarlo nelle componenti, oltre che concettuali, estetiche, che interpella: il buio, il sangue che ricopre la carne semi-nuda di Alcesti, la carnalità e il sesso, Pigmalione che si sradica prima un occhio e poi l’altro, la voce fuori campo, la musica techno roboante che inghiotte le scene della narrazione. Un’eccedenza semioticamente ricca ma che, probabilmente, deve ancora trovare un suo equilibrio. Citando una delle più importanti scrittrici erotiche del ‘900, Anaïs Nin: “Tutto nasce sempre da un eccesso: la grande arte è nata da grandi terrori, grandi solitudini, grandi inibizioni, instabilità, e ogni volta le ha sapute equilibrare” (da "Diari 1944-1947")

Agnese Comelli 19/03/2017

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