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Al Teatro Carcano di Milano grande curiosità per “Arancia meccanica” di Gabriele Russo con le musiche di Morgan

La Produzione Fondazione Teatro Napoli in collaborazione con il Teatro Bellini mette in scena al Teatro Carcano di Milano “Arancia Meccanica”, a circa mezzo secolo dalla pubblicazione del romanzo. Quello che balza evidente fin dall’inizio di questa riduzione teatrale diretta da Gabriele Russo, è la musica di Morgan, congeniale alla storia e rispettosa nel ricreare le atmosfere del film di Kubrick. Tentativo ben riuscito quello di Russo di confrontarsi con un film cult degli anni ’70 e soprattutto con il romanzo scritto nel 1962 da Anthony Burgess. 90 minuti per raccontare una società votata a un’esasperata violenza giovanile e ad un condizionamento del pensiero, attraverso uno stile fantascientifico, sociologico e politico.
Uno spettacolo in chiave visionaria ed onirica, in cui il protagonista Alex, parla in prima persona di un incubo vissuto. Nei panni di Alex, che al cinema era stato interpretato da Malcolm McDowell, un convincente Daniele Russo, capace di conferire al personaggio, quella tinta schizofrenica ed alienata che lo istiga alla violenza, considerandola un atto di giustizia dovuta. Da qui una serie di ignobili atti di violenza: lo sventramento di un barbone, l’aggressione ad una vecchietta, la decapitazione, lo stupro di una donna che per la mortificazione subita si suicida. Efferati atti criminali e di barbara ferocia si susseguono agli occhi dello spettatore senza mai però risultare insopportabili alla vista come invece nel caso del film di Kubrick, ma appaiono comunque molto efficaci attraverso il crearsi di immagini a rallentatore a luci basse e con il supporto di musiche non originali, come la Nona di Beethoven.
L’idea di base di questo spettacolo, capace, di lasciare sbigottito lo spettatore per la visione di atti spietati con cui purtroppo quotidianamente oramai dobbiamo fare i conti, è la rappresentazione di una società sempre più orientata al controllo delle coscienze e all’apprendimento di un pensiero unico. Quella che è messa in scena, è la massificazione del pensiero voluta da chi ci governa perché gli individui possano essere asserviti al potere, a prescindere dal partito politico in ascesa. Se 51 anni fa, il romanzo di Burgess poteva apparire controcorrente, esagerato, oggi potremmo definirlo iperrelastico e antesignano di un’Apocalisse sociale e politica con cui Paesi come il nostro sono stati costretti a fare i conti. La violenza ha preso piede nella società e quelli che sembravano dei bulli di quartiere si sono evoluti in criminali sanguinari.
La storia di Alex e dei suoi amici Drughi altro non è se non la storia di tanti degli episodi che hanno tempestato le pagine della cronaca nera degli ultimi anni. Figli che uccidono i genitori, madri che uccidono neonati, massacri di famiglie in ville di campagna, aggressioni a pensionati. In questo senso l’opera di Russo è figlia dei giorni nostri, risulta amaramente vera ed autentica. Ne esce una fotografia del mondo terribilmente malato dove sarebbe utile sopire o meglio trovare il modo di sradicare gli impulsi violenti. In questo senso in questo spettacolo riscontriamo una critica alle nostre carceri, dove bisognerebbe fare una seria riforma sui metodi riabilitativi, in quanto spazi in cui labile diventa la linea tra bene e male, tra il colpevole ed il suo giudice. Il grande interrogativo che ci lascia il regista è “cosa succederà?”. Chi può dirlo. Bisognerebbe risvegliare le coscienze cadute nel sonno delle droghe e tirare fuori la propria coscienza critica trovando il coraggio di prendere posizioni personali invece di lasciarsi trascinare dalla generica opinione comune, assoggettata al potere.
Linguaggio originale e musica si fondono insieme per dare espressione concreta ad un vero e proprio delirio visionario.
Fondamentale l’intervento sul testo da parte di Tommaso Spinelli, che insieme a Russo ha curato la traduzione del testo rimanendo fedele il più possibile alle originarie intenzioni di Burgess. Risultato: il linguaggio adottato dai Drughi è quello di molti giovani di oggi in cui ci imbattiamo in tram, per strada, ovunque in ogni spazio pubblico, ed è un slang di cui certo non bisogna andare orgogliosi, perché riflette la povertà di contenuti e di pensiero delle ultime generazioni che un domani costituiranno la nuova classe dirigente. Uno spettacolo che ci lascia nello sconforto, perché drammatica messa in scena di un qualcosa di autentico, di vero, che accade. Sarebbe bello pensare a fine rappresentazione, che si è semplicemente trattato di una previsione futuristica. Purtroppo è la cruda verità che ci viene quotidianamente sbattuta in faccia. L’uomo deve potere e sapere scegliere altrimenti non è un uomo. La società cosa vuole dall’individuo oggi? La bontà o la scelta della bontà? Ci vorrebbe per tutti una buona dose di iniezioni di vitamine. L’uomo cos’è? L’ingranaggio meccanico di un orologio? Uno spettacolo che lancia interrogativi su questioni delicate, incline a mettere sotto accusa scuola, politica e religione.

Adele Labbate 18/04/2016

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