Burattini e burattinaio disvelano insieme la povertà del mezzo che li diffonde. Una messa in scena che parte come denuncia e finisce per essere ingurgitata dal suo stesso "j'accuse". "Telemomò", in scena al Fringe Festival nella retrospettiva delle eccellenze romane, mira a descrivere la pochezza della tv odierna con l'ironia tragicomica e dissacrante che contraddistingue il suo autore, Andrea Cosentino, ma il risultato provoca solo qualche risata forzata.
"Telemomò" vuole raccontare il tramonto di un elettrodomestico, il declino culturale di un medium causa ed effetto della società contemporanea. E lo fa costruendo una tv "ecologica e interattiva", che utilizza gli stessi strumenti della gemella reale per renderne una caricatura spietata e tristemente veritiera.
L'accento abruzzese emerge chiaramente dai monologhi di Cosentino, comico di narrazione, certo, ma anche – e forse troppo, in questo caso – cabarettista. Uno spettacolo non spettacolo il suo, in cui si beve acqua rompendo il patto di finzione col pubblico, al quale si chiede che ore sono per capire se tagliare o meno le battute finali (che vengono tagliate, in effetti). L'attore-autore intende smascherare la tv, eliminando gli orpelli del suo linguaggio e trasferendone il contenuto banale allo spettatore, ma il suo stesso tentativo si trasforma in finzione della finzione, poco credibile e a tratti snervante e demenziale. Un cane che si morde la coda dall'inizio alla fine dello show, il cui picco emotivo avviene solo in presenza di un topo che si inoltra tra il pubblico scatenando grida isteriche e risate nervose.
Tra noiosi talk show "di sinistra" in parrucca e soap opera di plastica, tra tg condotti da mezzi busti e improbabili servizi enogastronomici, il cabaret di Cosentino rimane ingabbiato nel posticcio mezzo televisivo che vuole denunciare, tradendo una vis comica debole rispetto al messaggio che intende diffondere.
Daniele Sidonio 04/07/2015