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“Ago” il ritratto commovente di Ariele Vincenti per Agostino Di Bartolomei

ROMA – “Enjoy the silence”, cantavano i Depeche Mode, anche se qui, in questa storiaccia non soltanto romana, c'è poco da godere. Perché Agostino Di Bartolomei non era soltanto un giocatore e non era solo un calciatore della Roma, era un patrimonio del calcio e dell'Italia ma, ampliando lo sguardo e il respiro, un patrimonio delle brave persone, di quelle sensibili, di quelle schive e introverse, parole che oggi suonano quasi come offese perché dobbiamo essere tutti iperesposti, sovradimensionati, esageratamente, in foto, nei video, nelle pose sparate. Agostino era un Ago-Capitano-Silenzioso-Agostino-Di-Bartolomei.jpgragazzo cresciuto a Roma, un ragazzo di quartiere che però crescendo, accanto al pallone, si era appassionato di libri e di arte e che apriva bocca se aveva qualcosa di intelligente da dire, altrimenti se ne restava volentieri in silenzio. “Il silenzio è una discussione portata avanti con altri mezzi”, battagliava Che Guevara. Ecco il perno di tutto lo spettacolo di Ariele Vincenti, convincente e solido come sempre proprio perché racconta soltanto quello che gli appartiene e ciò che gli si muove attorno, accanto, dentro. Ariele (ha nel nome il germe del teatro, Ariel come il personaggio de “La Tempesta” shakespeariana), con la maglia targata Barilla dell'epoca, è uno vero, sincero, onesto con i propri valori e con il suo pubblico che è popolare e fatto non tanto di addetti ai lavori ma di gente comune che si appassiona alle sue storie e ne riconosce il marchio di genuinità, con trasporto, entusiasmo.

Questo suo “Ago. Capitano coraggioso” (visto al Teatro di Villa Lazzaroni), dedicato alla memoria e a ricordare quel numero 10 giallorosso mai scordato e dalla fine così tragica, fortunatamente non ha replicato soltanto a Roma e nel Lazio (in un verace romanesco, ma comprensibilissimo) ma delle sue, per adesso, quaranta repliche molte sono state messe in scena fuori dai confini regionali, e questo ha dato una grande ariele vincenti 1-2.jpgdignità al lavoro che non si è chiuso in steccati faziosi di colori calcistici o in stupidi recinti linguistici o dialettali o ancora in reticolati provinciali. Si racconta la storia di un uomo, non di un calciatore. Un uomo che aveva coronato il suo sogno di giocare a calcio e di farlo per quella maglia che, fin da piccolo, aveva agognato, idolatrato, sognato: la Roma, la sua Roma. La fama e i soldi non lo avevano cambiato. Il suo pregio più grande era l'umiltà, low profile si direbbe oggi. E quel “Silenzio”, che campeggia nello striscione dietro Vincenti per tutto il tempo dello spettacolo, è quella quiete che ha usato come arma Agostino nella sua vita contro le banalità ipocrite del sistema e quel silenzio che siamo stati costretti a sentire con la sua mancanza e ancora quel silenzio pudico e rispettoso che tutti hanno dovuto ad un uomo sensibile che la vita aveva compresso e schiacciato come pentola a pressione.

La sua parabola sa di discesa agli inferi: il sogno della serie A, il desiderio realizzato di giocare per la sua città, per la sua squadra del cuore, l'ambizione compiuta di farsi capitano e responsabile di quei colori. Sembra una fiaba a lieto fine, di quelle da e tutti vissero felici e contenti. Oltre dieci anni alla Roma, le Coppe Italia e addirittura uno scudetto. Dove sta la fregatura? Arriva nel momento più doloroso, dopo la finale di Coppa Campioni (si chiamava ancora così perché vi partecipavano soltanto chi aveva vinto lo scudetto in patria) persa in casa Agostino-Di-Bartolomei.jpg(ancora più luttuoso) dopo i terribili e strazianti rigori contro il Liverpool (30 maggio '84), viene ceduto al Milan, dove giocherà per tre anni. Fu proprio un suo gol, con sonora esultanza, contro la sua Roma che scatenò l'odio cittadino verso quel figlio adesso ripudiato. Dal Milan ancora un gradino sotto al Cesena e poi ancora più giù in serie C alla Salernitana. A fine carriera lasciato il calcio lascia anche Roma per stabilirsi in un paesino della Campania, il tracollo è definitivo, il viaggio verso l'abisso è compiuto, concluso. Da lì allo sparo passeranno poche stagioni (30 maggio '94, 10 anni esatti dopo quella finale!)

Esemplare e significativo che giocasse con il numero del trequartista, il dieci, ma facesse il libero, giocasse in difesa, una contraddizione in quegli anni di numeri rigidi e di schemi fissi; e viene in mente la battuta finale, che poi darà il titolo alla pellicola, “Anche libero va bene”, di Kim Rossi Stuart, del bambino detta al padre. Ed è emblematico il suo soprannome-diminutivo, che poi dà il nome all'avvincente piece di Ariele Vincenti, “Ago” che sa di esplosione, di bucare la bolla costruita attorno alle menzogne che il calcio alimenta colpevolmente, il money facile, la gente che ti vede come un semidio, che bacia la terra che calpesti, che ti cerca, ti esalta per poi sostituirti con altri volti, altri calciatori più giovani, e ti dimentica, ti posiziona tra le figurine nostalgiche. Di Bartolomei in definitiva era un uomo deluso da come era andato il suo percorso, calcistico e vitale, maxresdefault.jpgdepresso proprio perché emarginato dal mondo del pallone, che era, fin da piccolo, tutto il suo mondo. Lui che, in maniera romantica (anche scomponibile in Roma-antica), voleva soltanto giocare a calcio come aveva fatto in strada fin da ragazzo. E i calciatori, si sa, rimangono sempre un po' eterni bambini e la chiusura della carriera è sempre drammatica. Totti, con il microfono in mano in uno stadio Olimpico piangente nel suo addio al calcio, disse: “Concedetemi un po’ di paura e stavolta sono io che ho bisogno del vostro aiuto e del vostro calore”. Ecco forse quell'aiuto e quel calore dei quali aveva tremendamente bisogno anche Ago che si è sentito abbandonato ma che non ha saputo chiedere se non con quel gesto finale.

Questo monologo dovrebbero vederlo i suoi ex compagni di squadra, Conti, Pruzzo, Graziani, e tutti i romanisti e tutti gli appassionati di calcio e gli appassionati di sport e anche quelli che in uno stadio non ci sono mai entrati e quelli che Di Bartolomei non sanno neanche chi sia. Le parole dolorose di questo straordinario affabulatore (andate a cercarvi nei teatri anche altri suoi lavori come “Le Marocchinate” o “La tovaglia di Trilussa”) vanno assaporate fino in fondo, fino all'amaro che ti lasciano, insieme alle lacrime, uscendo. Era un calcio diverso, meno muscolare e meno fisico, con meno tatuaggi e meno simulazioni, con meno pose ad uso delle telecamere e meno meches e brand e sponsor. Agostino ci insegnava con il suo calcio pulito l'attaccamento alla maglia, il rispetto delle regole e dell'avversario. E adesso rimane solo quel gigantesco, divorante assordante silenzio che è un'occasione per ascoltare perché “è nel silenzio che accadono le cose”. Se siete pronti a commuovervi questo è il vostro spettacolo. E oggi, come ieri, c'è sempre bisogno di commuoversi per riequilibrarsi internamente, per ripulirsi da tante inutili parole, per cercare un respiro e una pace nuova.

Tommaso Chimenti 20/11/2022

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