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“'A cirimonia”: Vetrano/Randisi, alla ricerca del ricordo della felicità

CATANIA – Quando il mare tempestoso, tumultuoso e irruento dalle onde che spezzano velieri (la scrittura di Rosario Palazzolo) incontra una corrente placida e calma (la grazia e la raffinatezza del duo storico Vetrano/Randisi: a proposito, Rosario_.jpgnon sarebbe l'ora, dopo cinquant'anni di carriera, di assegnargli un Premio Ubu alla Carriera?) quello che si forma sono schiuma e flutti in un incastro imprevedibile e dai colori e risvolti inaspettati. Due mondi che nascono dallo stesso ceppo antropologico, la Sicilia, che hanno le radici nelle stesse fondamenta, Palermo, ma che, per anagrafe, impostazione ed esperienze dissimili, li hanno portati su strade differenti ma non antitetiche. Palazzolo, drammaturgo (con questa “'A cirimonia” ha vinto il premio A.N.C.T.), scrittore (lo scorso anno nella cinquantina finale del Premio Strega) in questi anni ha affinato la sua penna, ha trovato nuove sporgenze, ha tagliato, affilato, appuntito le sue tematiche: l'infanzia, la frizione tra sacro e profano, questo mondo fatto di ultimi, di miseria materiale e umana, di superstiziosi. Abbiamo visto i suoi “Letizia Forever” e la trilogia “Santa Samantha”, carnali, densi, certamente non lasciano indifferenti, mettono le mani nel fango delle piccolezze umane, esaltando quel grottesco, che non si fa mai ridicolo, per espiare debolezze e grettezze dell'animo.

Vetrano-Randisi-1024x683.jpg“'A cirimonia” (prod. Biondo di Palermo e Stabile di Catania; inserito nella stagione estiva “Evasioni” al Teatro Verga, fortemente voluto dalla direttrice del Teatro Stabile di Catania Laura Sicignano; durante la sua pur breve esperienza i milioni di euro di debito accumulati dalle precedenti dirigenze risulta quasi appianato) è un testo del 2009 e non possiamo certo dire che sia “datato” però, proprio perché in queste ultime stagioni abbiamo avuto la possibilità di seguire il percorso artistico dell'autore palermitano, possiamo dire che si sente una scrittura più acerba, meno consapevole, ancora alla ricerca, ancora in divenire. Le ripetizioni, i rafforzativi e una forma ondulatoria e a vortice con le vicende che si sommano ritornando senza fine in loop a creare un mantra, per condurre ad una trance estatica dove anche le parole restano prive di senso e soltanto i gesti tornano a rievocare misteriosi processi e riti ancestrali. Di Vetrano/Randisi conosciamo la gentilezza, in senso lato che mettono dentro la scena e fuori dal palco, il rigore, la precisione nell'affrontare nuove sfide. Come questo incontro fruttuoso che è stato possibile grazie all'intuizione della giornalista e critica teatrale siciliana Filippa Ilardo che ha messo in comunicazione autore e il duo che da oltre trent'anni risiede ad Imola.

Come una filastrocca, che porta nenia ed inquietudine, assuefazione, dondolio ma anche allerta, ci fanno dolcemente entrare in questo microcosmo cupo e oscuro, all'interno di questa liturgia. Un mondo accatastato di un'oggettistica in disuso e mal funzionante (un parallelo tra le cose attorno e loro due), rifiuti non gettati, ricordi di una vita che non hanno avuto il coraggio né di buttare né di cambiare. Come in un garage (abbiamo pensato al programma tv “Sepolti in casa”), immersi nelle loro stesse cose quasi come ne “L'ultimo nastro di KrappFOTO07.jpga rievocare qualcosa di perduto per sempre cercando di rianimare un tempo andato, facendo la respirazione bocca a bocca ad eventi che ormai si sono sbriciolati e polverizzati nell'ammasso dei granelli della clessidra che ha raggiunto il fondo. Ci vuole sensibilità da vendere per rendere e riportare questo sottobosco senza scivolare nel patetismo, senza cadere irrimediabilmente nel lacrimevole o, all'opposto, nel giudizio che mette distanze. Vetrano/Randisi invece hanno il potere della catarsi da una parte e di far immedesimare la platea dentro meccanismi e vicende, dentro dinamiche lontane, arcaiche, dai suoni profondi e gutturali, spaventose e tenui allo stesso tempo di questi personaggi che in definitiva non sono altro che animali feriti e impauriti dalla vita, autoreclusi gomito a gomito con i loro attrezzi e arnesi feticcio (da sottolineare che tutti gli oggetti in scena provengono realmente dall'abitazione dei due, un altro punto di verità) in disuso, la cui visione quotidiana è consolatoria, autoemarginati da un fuori che, se c'è, ha smesso di bussare alla loro porta e del quale neanche l'eco se ne sente più. Sono nel loro buco, affetti da una sorta di barbonismo domestico, nel loro rifugio scrostato e ormai spento cercando di ricreare un'atmosfera, un sapore che si è dissolto nell'aria e che non sono più riusciti a recuperare nella memoria che ormai FOTO011.jpgscarseggia, si inceppa, frigge. Immaginatevi la ruvidezza di Scaldati mantecata con la rarefazione beckettiana in un italiano sicilianizzato onomatopeico che riluce e abbaglia. Tutt'attorno, a semicerchio, quasi fosse passato un tornado a spazzare, pezzi di una vita che ha perso i suoi contorni di veridicità diventando mitica e mistica: ombrelloni da spiaggia e cornici ma senza quadro, valige però svuotate di viaggi, una ruota senza bicicletta per poter andare, partire. Tutto ci indica una staticità che ci fa male. Uno è vestito da sposa, l'altro è cieco, uno somiglia ad Amanda Lear, l'altro a De Gregori: ma tutto è intercambiabile, labile, fluido, liquido, trasognante, onirico.

Ogni anno (ma forse ogni giorno tanta è la ciclicità del ricominciare all'infinito) mettono in scena questa cerimonia, la “festa nostra”, quasi a voler trovare il germe della felicità, quel piccolo barlume lontano e sfocato che si avvicinava ad un senso di vicinanza, di famiglia, di unione, di trasporto sentimentale. La mettono in atto per combattere una solitudine spessa che morde. E il testo non lascia passiva né tranquilla la platea, la sobilla, usa fioretto e sciabola, la prende, la sconquassa, adesso sembra che la lasci quieta per poi ripartire ed affondare i denti nella carne della materia. Al centro davanti a loro una torta, ma sembra più un pane da comunione cristiana, con infilzato un coltello: da lontano sembra un seno con un capezzolo che emerge, la madre che tutto genera, la madre che accudisce, che dà la vita e il nutrimento, la madre che è placenta sicura e liquido amniotico che protegge, tutto ciò che adesso manca ad entrambi. Come fosse una seduta spiritica o una psicoanalitica, come puntine su dischi rotti e dai solchi troppo inesorabilmente consunti, hanno sprazzi di lucidità per poi incartarsi, incepparsi, inciampare, bloccarsi alla ricerca del Paradiso perduto. “Non lo toccare, si può rompere”, dice uno all'altro. “E' già rotto”, gli risponde. “La fine del giorno sta tutta qua”, esalerebbe Pietro Savastano.

Tommaso Chimenti 28/05/2021