Si dice che «il lavoro nobilita l’uomo» e questa citazione, nonostante la sua realisticità, potrebbe in parte giustificare la sopraffazione morale spesso subita e accettata da chiunque possegga un impiego. Perché avere un’occupazione corrisponde a soddisfazione, indipendenza, crescita. Tale questione si complica quando sono le donne a subire delle angherie in ambito lavorativo. Ma qual è il momento giusto per rinunciare alla stabilità economica affinché si favorisca una lotta ai diritti? E quando è invece giustificabile il disinteresse verso questioni di tal genere? Questo confine liminale è discusso nello spettacolo teatrale 7 minuti, attualmente in scena presso il Teatro Vittoria di Roma, su testo di Stefano Massini e con la regia di Claudio Boccaccini. Non è la prima messa-in-scena teatrale di questo testo e ha anche una trasposizione cinematografica diretta da Michele Placido (2016).
La pièce, che trae spunto da una vicenda reale avvenuta dodici anni fa in Francia, ha come protagonista un gruppo di undici donne che fanno parte della rappresentanza sindacale di una fabbrica tessile. Sono tra loro molto diverse: ci sono le più anziane, le più giovani, le “straniere”, le impiegate, le operaie, ecc. Esse si trovano a dover votare per una richiesta da parte dei loro capi, o “cravatte” (soprannome che designa la preponderanza maschile nella cerchia del comando): accettare o meno che la loro pausa venga ridotta di sette minuti. Questo dà vita a un movimentato dibattito di un’ora e mezza in cui tutte esprimono il proprio punto di vista a riguardo. La prima a mostrarsi in disaccordo, dunque colei che invita le altre a riflettere, è Bianca (Viviana Toniolo), la donna più anziana e anche portavoce del gruppo sindacale. Quei “banali” sette minuti corrisponderebbero, se considerate anche le loro trecento colleghe, a novecento ore di lavoro non pagate…
La pièce potrebbe esser definita corale (nonostante alcune figure femminili si esprimano più o meno di altre): ognuna di loro è un “pezzo” di puzzle ideale e necessario per discutere di violazione dei diritti, lavoro gratuito ottenuto subdolamente (come cita il testo stesso, si parla di “assunzione senza assunzione”) et similia.
Il dibattito messo in scena da 7 minuti si svolge in un ambiente scenografico semi-spoglio. Esso si accorda perfettamente con i toni e il testo della performance: al centro del palco, è posto un grande orologio nero e bianco; ai lati, quattro tavoli neri con sopra delle brocche con acqua e alcuni bicchieri. A completare questa semplicità, alcune sedie sparse per il palco. Questa essenzialità designa un ambiente di lavoro freddo, poco accogliente. Tale semplicità la ritroviamo anche nei costumi: le attrici indossano dei camici da lavoro azzurri e sotto quasi tutte hanno magliette e pantaloni neri. Dunque lo spettatore viene immerso nel racconto non solo narrativamente, ma anche visivamente.
L’attenzione ai dettagli visivi finora citata è tra le cose che rende la connessione empatica lenta, ma sicura. Inizialmente, infatti, i dialoghi confidenziali tra le donne rendono faticosa l’immersione emotiva da parte dello spettatore e ci vuole tempo prima che egli si senta completamente abbracciato dalla vicenda. Ma forse è proprio questa gradualità a rendere possibile un legame genuino tra audience e personaggi. L’ora e mezza che le “cravatte” impongono alle loro dipendenti per giungere alla risposta definitiva è non solo la durata dello spettacolo, ma anche la tempistica di cui necessita lo spettatore per riflettere e scegliere da che parte stare. Una componente emozionale “prepotente” sin dall’inizio avrebbe reso la performance fin troppo lacrimosa e guastato l’intento politico della pièce.
L’aspetto più interessante di 7 minuti è che i punti di vista si modellano indissolubilmente sul retroterra social-culturale di ognuna, così come anche sull’età e sui loro legami personali all’interno del contesto lavorativo. Tra le considerazioni più interessanti abbiamo quelle che provengono dalle tre giovani “straniere”: esse riflettono su quanto si considerino fortunate ad aver finalmente trovato stabilità in un paese che non è il loro. Il discorso qui maggiormente significativo è sicuramente quello di Matab (Ashai Lombardo Arop) che, dopo un grande silenzio intensamente riflessivo, interviene sottolineando quanto nel suo paese d’origine sia tipico provare paura, quindi per lei avere un lavoro vuol dire allontanarsi da tal sentimento a lei familiare e avvicinarsi alla stabilità. Abbiamo poi le dipendenti più giovani, che riflettono perlopiù sulla necessità di riuscire ad emanciparsi dalle famiglie. Ma attaccano anche le più anziane (lo sfogo di Loredana, interpretata da Francesca di Meglio, è particolarmente esemplare e toccante in questo senso). C’è poi la collega-amica di Bianca, Odette (Daniela Moccia), che sembra avere il ruolo di mediatrice tra le diverse parti e questo la fa percepire quasi incapace di giungere ad un’effettiva e lucida decisione. E poi vi è il resto della “combriccola” di più anziane, l’impiegata Sofia (Chiara David) che (apparentemente) lega la sua opinione a mere statistiche numeriche, ecc.
Ognuna di loro è dunque fondamentale perché veniamo in questo modo portati ad ascoltare punti di vista che inevitabilmente possono opporsi ai nostri. Nasce così un complicato gioco di specchi e/o di allontanamento. Il pubblico deciderà inevitabilmente a chi dar ragione: il finale aperto, incarnato dall’astensione al voto da parte della matematica Sofia, invita lo spettatore a “votare” con le undici donne.
Scegliere da che parte stare diventa una piccola azione politica, per ognuno di noi. C’è tempo fino al 24 marzo per farlo.
21/03/2024 - Ilaria Petroni