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Addio a Trisha Brown

Lo scorso sabato si è spenta Trisha Brown, ottant’anni, pioniera della Post Modern Dance americana. Con lei se ne va non solo un celebre capitolo della storia della danza ma anche una personalità geniale e ironica perché Trisha Brown era l’intelligenza trasfusa nel movimento.
Nata e cresciuta ad Aberdeen, Washington, si diplomò poi al Mills College e studiò con José Limòn, Louis Horst e Merce Cunningham. Fu a stretto contatto con danzatori del calibro di Yvonne Rainer, Steve Paxton, Lucinda Childs e David Gordon e compositori come Robert Dunn e John Cage. Nel 1970 fondò una sua compagnia, la “Trisha Brown Dance Company”. Dava ai suoi danzatori delle regole precise, come in un gioco, invitandoli a seguirla scrupolosamente nello studio e nelle prove di improvvisazione.
Dopo una prima fase giovanile in cui sperimentò la Violent Contact e quelle manipolazioni del corpo che lo rendevano totalmente passivo sotto l’influsso di un corpo più forte, si accostò, nelle sue performances, alla relazione tra corpo e oggetto. Da strutture semplici in cui si confrontava direttamente col pubblico, guardandolo dritto negli occhi, arrivò a sfidare le leggi della fisica con la danza dei suoi “Equipement Pieces”. Gli anni Settanta la ricordano mentre camminava sospesa sulle pareti dei grattacieli di New York, imponendo la sua leggerezza alla forza gravitazionale, equipaggiata di funi e corde.17410038 1703623222997707 872431584 n
Ancora indimenticabile in “Accumulation” (1971), uno dei suoi più suggestivi tentativi di oggettivizzare i gesti in una dimensione di purezza assoluta. Era riuscita a creare un sistema contenente un processo evolutivo esterno, quasi matematico. Attribuiva alla struttura coreografica finale la stessa importanza dei gesti singoli. Diede vita a un vocabolario ritmico i cui termini schizzavano in ogni dimensione spazio temporale, disintegrandosi per tornare alla loro essenza primaria. Ma la sua danza era così completa da bastare a se stessa. Non aveva bisogno né dello spazio né del tempo. Poteva fare a meno della musica, frusciando nel silenzio con le sue vesti morbide e leggere, quasi fosse un’entità autonoma e separata da quest’ultima. Eppure poteva e sapeva creare con essa straordinarie corrispondenze.
Riusciva a far migrare un singolo movimento da un danzatore all’altro in punti diversi del palcoscenico, tracciando una specie di itinerario per lo sguardo, assumendo una forma musicale propria. Questa era la sua singolare ricerca alla quale Trisha rispondeva con meticolosità matematica. La libertà del movimento si ergeva su una complessa e studiata architettura di frasi coreografiche. Con esse giocava, le frammentava, le imprigionava per poi liberarle all’improvviso. Poi, combinando i frammenti costituenti la frase, nasceva naturalmente una reiterazione imprevedibile del movimento. Il punto di partenza delle sue creazioni erano le improvvisazioni astratte nella sala prove, suo luogo vitale dove si recò fino all’ultimo, in cui allineava ordinatamente tempo, spazio e intensità, salvo poi scomporre di colpo questi suoi fondamentali strumenti.
Nonostante questo astrattismo coreografico la sensibilità della Brown collocava le emozioni sempre al primo posto attraverso la pienezza del gesto, anche il più semplice e quotidiano, fondendo sensazioni, psicologia, esperienze. Riusciva a rendere anche la musica fluttuante come uno spirito, pentagramma di sequenze che rispondevano ai quesiti della sua mente brillante e del suo corpo delicato. Un corpo che mai avrebbe voluto perdere il contatto col suolo. Sentire i piedi nudi sul pavimento era per lei indispensabile. Era come sprofondare pesantemente in una nuvola. Ma adesso, Trisha è una nuvola e continua a danzare nel vento.

Roberta Leo
21/03/2017

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