Le persone diffidano delle proprie fragilità, preferiscono nasconderle o, a volte, reprimerle, convincendo se stessi di non averle mai conosciute. Jean Cocteau sosteneva che a forza di andare nel profondo delle cose, si rischia, prima o poi, di rimanerci, ma la sostanza del suo pensiero ammette la necessità di scavare nell’interiorità. La superficie è ingannevole, il nostro profondo è misteriosamente interessante. Lavorare su di sé significa ricercare la possibilità di entrare in contatto con la fragilità che appartiene all’essere umano. Si impara a conoscersi anche quando sembra difficile farlo. S’impara ad ascoltarsi, anche quando sembra di non avere gli strumenti adatti. È un lavoro, un impegno, un patto di lealtà con il sé profondo. Il percorso di consapevolezza e di costruzione della propria identità può avvenire in molti modi, uno di questi è attraverso il corpo, laddove la mente governa, libera e orienta i movimenti.
Lo spettacolo “The Vanity Monsters” è nato dal bisogno di sensibilizzare i giovani riguardo un tema molto importante, troppo spesso sottovalutato: l’accettazione di se stessi, del proprio corpo e della propria anima, spesso disorientata da stereotipi esterni stabiliti dalla società, per volontà di omologazione. La performance, prodotta dalla “Out Dance Project” e diretta da Cristina Pitrelli si è svolta al Teatro Palladium di Roma, il 7 aprile 2016, inaugurando il secondo appuntamento della rassegna “Aprile in danza”. La coreografa Pitrelli svolge un lavoro di ricerca, d’indagine conoscitiva delle “zone oscure” dei giovani. Li indirizza verso lo studio del movimento corporeo in rapporto allo spazio e al tempo e li aiuta affinché questo processo non implichi uno snaturamento della propria sensibilità o di un personale immaginario. Attraverso la danza, i corpi dei danzatori, sul palco, dialogano tra loro creando una sorta di luogo privilegiato, in cui manifestare apertamente la propria interiorità. Scelgono di comunicare attraverso il linguaggio del corpo, a volte basato sull’istinto primordiale, altre volte su un’energia vitale. Le cinque protagoniste, mediante l’utilizzo del peso e del contrappeso, della rottura dell’equilibrio e della caduta, dell’improvvisazione nel contatto e della paura della separazione dal corpo, trasformano la danza in un dialogo silenzioso con una realtà macchiata di paure. Le maschere dipinte sui loro volti, in ricordo del “Día de Muertos” (il “Giorno dei morti” nella cultura messicana), simboleggiano la liberazione dalle proprie angosce, in una sorta di rito apotropaico della modernità. Noi spettatori assistiamo a una sfilata di giovani corpi alla ricerca di un’identità precisa, assetati di una verità, eccitati e demoralizzati per la mancanza di un credo. Si muovono ascoltando le pulsioni interne, quelle primitive, aggressive, sensuali. Si cercano, si sfiorano, si osservano come se il corpo dell’altra rappresentasse il nuovo da scoprire. Disegnano linee sfalsate, disorientanti; destrutturano i loro movimenti su una scena colorata, circondata da palloncini gonfiabili. E quando, all’improvviso, una di loro correndo verso il proscenio, ci scruta, prima di scoppiarne uno con un ago, cogliamo lo smarrimento e la perdita di qualsiasi certezza.
Un tema difficile, che riguarda non soltanto il mondo dei giovani, ma anche quello degli adulti, viene trattato con leggerezza e per certi versi incoscienza. Sebbene la padronanza del corpo e l’espressività delle danzatrici non sia completamente matura in alcune di loro, è da ammirare l’intento di una giovane compagnia di portare sul palco un tema che riguarda da vicino il loro mondo e le sue criticità. “The Vanity Monsters” è una performance che vuole far riflettere, analizzando i fenomeni di costume della nostra eterogenea e contraddittoria società. Uno spettacolo sul senso della costruzione della propria identità.
Serena Antinucci 10/04/2016