Abbiamo incontrato uno degli storici della danza più noti in Italia, Alessandro Pontremoli, classe 1959. Nessuno meglio di lui poteva illustrarci, nel dettaglio, le caratteristiche del decreto ministeriale del luglio 2014, la normativa che ha stabilito nuovi criteri per l’erogazione di contributi da destinarsi allo spettacolo dal vivo. Il professore è membro della commissione consultiva (settore danza) del Mibact che, su base triennale, ha dovuto stabilire la ripartizione dei finanziamenti. Ma ancora prima di parlarci del decreto, di quelle che sono le complessità oltre che le contraddizioni, Pontremoli ha voluto darci uno sguardo sulla danza di oggi e come questa può essere percepita non solo dagli artisti, ma anche dalle istituzioni preposte e soprattutto dal pubblico.
I tre paesaggi della danza
Penso che ci siano tre paesaggi della danza contemporanea italiana: il primo lo definirei “tradizionale”. Qui dentro rientrano compagnie come Aterballetto, ovvero realtà che fanno un lavoro di struttura perché hanno alle spalle una solida base accademica ma sperimentano anche danze di varia natura. Parliamo di qualcosa che è riconosciuto – a livello internazionale – e riconoscibile dalla maggior parte del pubblico. Il termine compagnia è in realtà scomparso dal decreto, infatti in Italia oggi ce ne sono pochissime.
Il secondo paesaggio lo chiamo di “terra di mezzo”, ovvero quel luogo in cui si fanno spazio esperienze di buona e solida formazione ma che non fanno danza accademica o repertorio. Qui si lavora molto sulla formazione del pubblico a partire proprio da spettacoli riconoscibili ma tendenti al superamento del primo paesaggio. Questo il caso della compagnia di Michele Merola, di Fabrizio Favale oppure dello stesso Sieni.
Il terzo è appunto quello degli sconfinamenti. Si tratta di un paesaggio veramente liquido, fluido, non ancora inquadrabile fino in fondo: qui non possiamo parlare nemmeno di artisti nel senso più stretto della parola, ma di “formati”. A inaugurare tale paesaggio è stata la Piattaforma della danza balinese presentata al festival di Santarcangelo, un’esperienza che lavora sull’erosione dei termini e che punta a una sottile rivoluzione dello sguardo. Parliamo di uno sconfinamento perché non c’è più una forma, non c’è più un tempo, ma solo uno spazio comune con un palinsesto e una dimensione di democrazia orizzontale molto forte. In questo paesaggio si presentano dei confronti che sono estremamente fruttuosi, vale a dire che lì c’è un “nuovo laboratorio del futuro”.
Il rischio che però si corre, così come diceva il mio maestro Sisto Dalla Palma, è l’essere “autoplastici”. La dimensione dell’autoplasticità può avere un senso, ma non deve essere l’unico. In una dimensione culturale ancora coloniale, gli artisti contemporanei di stampo occidentale devono concentrarsi sul recupero della domanda di danza che ha il pubblico. Il lavoro di Sieni con gli amatori intercetta per esempio un bisogno assoluto.
Cos’è, oggi, l’arte
Se volete un mio parere personale... beh, non esiste più l’arte. Torniamo a parlare di arte solo se vogliamo immaginare un processo di tipo rinascimentale. Oggi siamo siamo in presenza di un mercato molto simile a quello che c’era in quell’epoca: ovvero persone che commissionano e artisti che lavorano a queste commissioni.
Il problema è che noi abbiamo una visione ancora molto romantica. L’artista libero che propone l’idea e che dà un significato all’esistenza non può più esistere, l’artista al contrario è un uomo che mangia, dorme, si sveglia e deve mantenersi. È importante focalizzarsi su un realismo artistico, non tornare indietro. C’è un mercato, questo è fuori da ogni dubbio, e possiamo e dobbiamo cambiarlo. La nuova critica per esempio sta già rivoluzionando l’economia dell’informazione, così come sta cambiando anche l’economia dei luoghi. Si veda per esempio Virgilio Sieni, un artista in qualche misura “povero” ma che sta alimentando e arricchendo l’intero contesto attraverso varie azioni. Dobbiamo tornare all’arte come “qualcosa che si mangia” perché noi viviamo di ciò che mangiamo. In questa maniera si rende più contemporanea la danza. Attenzione, però. Tale discorso non porta a concludere che occorre andare verso i gusti del pubblico! È necessario invece fare di tutto per capire la domanda della gente. È completamente un’altra cosa. Questa è un’idea che riguarda tutti e tre i paesaggi, anche se la terra di mezzo fa un lavoro “più artigianale”.
Lo spettacolo dal vivo: la condivisione di un’esperienza
Virgilio Sieni ha capito una cosa importantissima: non ha più senso uno spettacolo se io non coinvolgo il maggior numero di persone che ha voglia di danzare, se non amplio il numero di persone che possono stare dentro la dimensione del bello. La bellezza è quella cosa che dà un senso al tuo essere dentro un’esperienza fatta di relazioni.
Credo che lo spettacolo dal vivo sia la forma che meglio rappresenta la relazione umana. Ormai siamo nello spettacolo della delega, non possiamo sottrarci da questa idea. Certo è che dobbiamo prima comprendere cos’è uno spettacolo di danza contemporanea: qualcosa che può non raccontare, che può non essere riconoscibile in un solo senso e che non deve essere per forza tradotto verbalmente. Se ci pensiamo bene, quali sono le due “richieste” di quasi ogni spettatore? Da una parte “ho capito/non ho capito”, “dall’altro mi sono emozionato/non mi sono emozionato”, due visioni tipicamente occidentali: testa e cuore. Bisognerebbe dunque trasformare la nostra idea razionale del “capire” avvicinandola alla sua accezione latina: capere, avere un otre dentro al quale fare entrare sempre più elementi.
Il decreto ministeriale 1 luglio 2014
Si parte dal concetto della multidisciplinarietà, poco efficace perché basato solo su percentuali numeriche, mentre sappiamo che negli sconfinamenti l’interdisciplinarietà è metodologica.
Sulla questione dei finanziamenti i centri di produzione sono obbligati all’ospitalità, una vera e propria maledizione per loro. In passato avevamo pochi teatri con piccole stagioni di danza. L’idea per una riforma sarebbe dovuta essere lasciare “liberi” i borderò fra prosa e danza, ma a livello ministeriale tale commistione non è stata accolta. Di danza, tendenzialmente, continua a esserne programmata molto poca.
Altro aspetto molto importante sono i circuiti. Prima erano un po’ chiusi, ora il dm ha cercato infatti di sturare un po’ l’imbuto della distribuzione. Ma il circuito però è, per la danza contemporanea, il mezzo meno indicato per “distribuire” perché lavora sulla provincia quindi funziona, se va bene, con il classico Schiaccianoci a Natale o nel migliore dei casi con esperienze come quelle alla Favale, che mettono in campo una fisicità notevole. Tuttavia alcuni circuiti stanno facendo un buon lavoro e potrebbero essere presi a modello anche per il futuro. Penso per esempio al circuito del Piemonte che si sta concentrando sulla multidisciplinarietà e sta instaurando delle relazioni con altri circuiti nel senso di un vero “collettore territoriale”.
Che cosa manca in Italia
Natalia Casorati (direttrice artistica /organizzativa di Mosaico Danza, promotrice di una diffusione capillare della danza nelle aree urbane, ndr) crede molto nell’idea del confronto. Due anni fa facemmo un incontro con gli operatori europei per capire come funziona la filiera all’estero: emerse che in Europa, tra tutte le cose, c’è si occupa unicamente di distribuzione. Tra la formazione e gli “Anticorpi”, ovvero le vetrine dei giovani emergenti, all’Italia continua a mancare qualcosa. Le residenze oggi sono pensate per artisti che hanno già una solidità distributiva, ma anche in questo caso l’aiuto per entrare davvero dentro il mercato è relativo.
In Italia c’è molto autodidattismo e questo significa che a noi manca un luogo dove s’impara, un luogo di pre-residenza dove ci sono delle figure precise: un tutor per le luci, uno per la coreografia, uno per la domanda ministeriale. Gli artisti dovrebbero poter pre-produrre ed essere guardati da sguardi diversi. Mi pare che un tentativo in una direzione simile sia in atto col percorso Anghiari Dance Hub. Andrebbe poi anche fatto un discorso sul “potere” in Italia, attualmente quasi tutto in mano ai direttori artistici, in particolare dei festival. Anche per questo sarebbe necessario puntare maggiormente sulla formazione, così che si possano sul lungo periodo evitare molte ingenuità e storture».
Laura Sciortino 22/06/2016
Da un incontro tenuto nella redazione di “La danza nella città”, social blog della Biennale Danza 2016.
Foto: Michelle Davis