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“Impression d’Afrique”: l’arte combinatoria del movimento da Roussel a Mk

Non esiste uomo più eccentrico di Raymond Roussel nella letteratura di inizio Novecento: dandy squisito e malato, erede di una fortuna colossale, con una madre completamente pazza che amava viaggiare con bara al seguito, viveva in un albergo di Parigi, circondato da opere d’arte straordinarie, isolato alla vista di estranei e domestici, trascorrendo le giornate tra farmaci, iniezioni, droghe, eccitanti e tranquillanti in dosi massicce. Abile calembourista e testardo cesellatore di parole e frasi, infarcì le sue “Impressions d’Afrique” (1910) di tutto quell’universo di esotismi, preziosità e delicate empietà che la generazione decadente riconduceva fumosamente all’Oriente mistico o all’Africa selvaggia, popolata di creature ambigue e bizzarre come certe figure di Aubrey Beardsley. Prendendo parole a caso e distorcendole per trarne immagini come in un rebus, Roussel plasmò quadri verbo-visivi di un’Africa irreale, trasfigurata, parallela, che servivano unicamente da sfondo ai suoi giochi combinatori, basati sull’omofonia delle frasi e sullo sdoppiamento semantico della parola a tutto vantaggio del nonsense. Inutile far rientrare nella cornice pacificatrice di una storia i suoi dialoghi scoppiettanti, sincopati, arguti, nervosissimi. Nelle “Impressions” l’azione consisteva puramente nelle conseguenze del naufragio di una nave europea in terra africana: fatti prigionieri dal tirannello locale Talou VII, che vive sui trampoli, i naufraghi si salvano allestendo il “gala degli incomparabili”, sconcertante successione di esibizioni, una più delirante dell’altra. Beckett prima di Beckett, potrebbe osservare qualcuno. E a ragione, visto che le trappole utopistiche del cerebralismo dell’autore francese assomigliano così tanto alle situazioni fuori dall’ordinario dell’irlandese, apparentemente senza significato e legate fra loro solo da una labile ed effimera traccia. Ma la sorte che toccò a Roussel fu meno benevola, la riduzione teatrale delle “Impressions” – come di tutti i suoi drammi – fu subito un fiasco completo e scomparve dalle scene finché non se ne appropriarono il teatro musicale e la ricerca coreografica post-moderna. Arti performative – la musica e la danza – certamente più appropriate a lavorare col suono e il gesto in modo analogo a quello di Roussel, ovvero applicando la matematica al linguaggio, nel rispetto di una forma sgomberata da ogni definizione di significato. Ci ha provato Giorgio Battistelli con la sua opera omonima presentata dal Maggio Musicale Fiorentino al Teatro Goldoni nel 2000 e, più recentemente (nel 2013), la compagnia romana Mk, nata nel 1999 per volontà di Michele Di Stefano, coreografo e performer (Leone d’Argento per la Danza nel 2014), che, dopo aver attraversato la scena musicale punk e new wave negli anni Ottanta, ha intrapreso - insieme a Biagio Caravano – un progetto autodidatta di studio e ricerca sul movimento che ha portato il gruppo a esibirsi nei più importanti festival della scena italiana e internazionale.
La creazione d’ensemble “Impression d’Afrique” (con Philippe Barbut, Biagio Caravano, Marta Ciappina, Andrea Dionisi, Laura Scarpini), portata in scena al Teatro India lo scorso 20 giugno all’interno della rassegna “Il teatro che danza” – la vetrina sulla coreografia contemporanea ideata dal Teatro di Roma per accogliere le novità di giovani autori e nomi d’eccellenza italiani e stranieri – perlustra l’esotico atipico di Roussel come un enigma del movimento, giocato per continui spunti dinamici e contaminazioni di mondi differenti, che poggia su basi hip hop afro e canti tribali guraghé (BIGG, Riff Raff, Geir Jenssen, Mahmoud Ahmed). Dopo “Il Giro del mondo in 80 giorni” e “Quattro danze coloniali viste da vicino” (2011), si ha ancora una volta, nel lavoro del gruppo, la sensazione di venire catapultati nelle pieghe di un romanzo d’avventura, dove storie di lotte indigene, guerrieri esperti in tecniche di ipnosi, esploratori occidentali in avanscoperta, rituali tribali minacciosi e vittime sacrificali prendono vita in forme collocate in successione, appena abbozzate e disperse nell’oscurità di una scena tagliata da rapidi fendenti di luce. Figure vibratili in tute sportive e pantaloncini disegnano geometrie passeggere, quadri di corpi mobili, fitte ragnatele di gesti, eseguiti anche fra conturbazioni, respiri, esitazioni, ma che non possono essere fermati per essere giudicati, né svuotati per essere compresi. Devono essere lasciati fluire, come i procedimenti combinatori della lingua di Roussel, che producono reazioni a catena ma non sanno più che farsene di storie già narrate. Per chi vi assiste, la loro missione corrisponde a quella di un riscatto poetico dove non importa la leggibilità del gesto singolo, ma la scrittura d’insieme, l’evocazione comunitaria di un paesaggio della foresta astratto e misterioso, in cui la paura del diverso si insinua con sembianze di “negro” selvaggio. Così, per Di Stefano e Mk, il gesto si dà soprattutto nel transito, nel disequilibrio delle linee, e si lascia cristallizzare solo in qualche figurazione plastica – una giraffa richiamata da una torsione di braccia, un uccello variopinto da uno sbatter d’ali. Perché ciò che conta è smascherare l’esotismo “turistico” della cultura occidentale provando a decostruire lo spazio coloniale dello sguardo mediante incursioni capaci di orientare la configurazione coreografica verso mondi nuovi, differenti, lontani da qualsiasi intenzione mimetica.
In fondo, anche Roussel, nelle sue pagine, aveva partorito, comodamente da casa, col solo ausilio della fantasia, viaggi fantastici e avventurosi ai confini della realtà. Ne riportiamo uno, ai nostri fini, emblematico. Un giorno, Roussel decise di visitare l’India e affittò un lussuoso yacht per sé e per gli amici; quasi giunti a destinazione, il capitano gli fece riferire che le coste erano in vista ma, accorso alla prua col binocolo in mano, Roussel sbottò: «Sono quelle le Indie? Dietrofront, si torna a casa».

Valentina Crosetto 23/06/2016

Foto: Alex Brenner

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