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Il teatro e la danza non sono solo «disimpegno». Le riflessioni di Massimo Ongaro, direttore dello Stabile del Veneto.

Architetto milanese, ma veneziano d'adozione, Massimo Ongaro è il direttore del Teatro Stabile del Veneto. Lo abbiamo incontrato nella redazione del nostro blog La danza nella città in una mattinata in cui finalmente, anche nella laguna, si respira aria d'estate.

Dopo la riforma del 1° luglio 2014, lo stabile è rientrato nel novero dei  sette teatri nazionali.

Con il nuovo decreto ministeriale sono stati destinati a questa realtà i sussidi per la produzione di spettacoli di prosa distribuiti tra il Teatro Goldoni di Venezia, il Verdi di Padova e il Teatro Nuovo di Verona. Per Ongaro misurarsi con un territorio dalle tradizioni culturali tanto radicate è stata una bella sfida ma la programmazione prevista per il suo triennio di direzione ha già avuto esiti molto positivi. Il dialogo con l'intero circuito regionale, per esempio, ha permesso allo Stabile di arrivare anche nelle sale teatrali più piccole moltiplicando così le proposte da inserire in cartellone.

Più sale significano più pubblico. Più pubblico significa più interesse a prendere parte non solo agli spettacoli ma a tutte le iniziative loro proposte. Tra tutti i fruitori cui l'Ente si rivolge, quelli di Venezia sono i più “anomali”, questo perché agli abitanti (pochissimi in relazione al territorio), si aggiungono i turisti che ogni giorno, a centinaia, vengono in visita della Serenissima. E allora  le sale si riempiono anche di un pubblico-di-viaggiatori cui vengono offerte le commedie della grande drammaturgia veneta sottotitolate nelle diverse lingue (come l' Arlecchino servitore di due padroni con riadattamento di Giorgio Sangati). Un modo questo per moltiplicare le possibilità oltre le utenze usuali, per convincere le persone che teatro non è solo «disimpegno» ma qualcosa che può e deve arrivare a tutti coloro che vivono e rendono vivo un certo territorio.

Ma che tipo e soprattutto quante esperienze si producono in questa istituzione? Tantissime. Dai seminari ai concorsi dedicati alle compagnie emergenti, alla scuola di teatro, l'Accademia Palcoscenico fino ai premi come Rete critica che Padova ospiterà quest'anno per la prima volta.

I cartelloni delle diverse stagioni propongono soprattutto prosa, immancabile quel Goldoni dei «timori dopo gli affanni e degli amori contenti». Ma le stagioni sono ricche anche d'altro. Di danza per esempio. E questo, si sa, al giorno d'oggi, non è cosa scontata. In un periodo in cui le compagnie italiane di balletto sono solo tre, in cui si tagliano fondi per il corpo artistico mentre si edificano nuovi teatri d'opera, c'è ancora qualcuno che sente di dover scommettere su ciò che ha fatto la nostra tradizione culturale. Non a caso il direttore ce ne parla qui a Venezia, nella torre dell'Arsenale da cui si scorgono i danzatori che si preparano all'inizio del 10.Festival internazionale di Danza Contemporanea.

Ongaro tiene molto alla questione danza, a come questa viene prodotta ma soprattutto distribuita.

Sono disastrose le condizioni in cui il settore versa a causa dei «sottofinanziamenti». In Veneto si sono potuti organizzare soprattutto festival ma allo Stabile sono stati concessi solo 30mila euro in più rispetto alla sua dote per introdurre una rassegna di danza con in tutto undici titoli di danza (cinque a Venezia, tre a Padova e altri tre a Verona). Dal Fus arrivano i finanziamenti per la produzione di danza, mentre è stata tagliata la voce dedicata all'ospitalità.

Lo mette nella tanto cara forma di un auspicio Ongaro: «perché le sale non si mettono a programmare danza? Perché non si costruisce una rete tra i teatri che hanno grandi spazi, per produrre e far circuitare spettacoli? Bisognerebbe meglio distribuire i finanziamenti ma sulla base di obiettivi chiari».

La realtà della Biennale dimostra però che abbiamo ancora desiderio, oltre il bisogno, di prendere parte a un certo tipo di esperienze.

All'Italia non mancano i grandi coreografi, neanche i talenti o gli spazi nei quali la danza può “rivelarsi”. Dovremmo preservare questo patrimonio senza lasciare che si dissolva, dovremmo quantomeno fare dei tentativi per non avere rimorsi davanti alla definitiva perdita di qualcosa che da sempre ci appartiene. «Il mondo è un bel libro, ma poco serve a chi non lo sa leggere» diceva Goldoni ne La Pamela . Non perdiamo ancora l'occasione di “imparare a leggerla” questa storia.

Laura Sciortino e Giulia Zanichelli

(articolo realizzato in collaborazione con il blog "La danza nella città")

Ph. Francesco Trombetti

17/06/2016   

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