Don’t talk to me in my sleep, in scena al Teatro Vascello di Roma nell’ambito della rassegna internazionale di danza contemporanea “Fuori Programma”, è il racconto liberamente ispirato al rapporto tra l’inventore della pop-art Andy Warhol, e sua madre Julia, plasmato dall’inventiva e dalla genialità di Dunja Jocic, divenuto una coreografia di successo premiata al Noorderzon Festival nel 2015 e che approda per la prima volta in Italia.
Una stanza buia, nella quale galleggia la luce soffusa dei lampadari posizionati ad altezza d’uomo riflettendosi negli specchi che raccolgono le varie angolazioni di un luogo, di un rapporto, è lo scenario che accoglie il conflitto atavico tra un figlio che sogna di andar via, di vivere la propria vita lontano da una vita familiare che lo opprime e una madre che cerca di imporre il suo credo, la sua preoccupazione asfissiante chiusa nelle sue convinzioni.
Luca Cacitti e Shai Partush impersonano i due protagonisti di una storia che si consuma tra stralci di dialoghi registrati con le voci di Michael Jahoda e Sabine Kupferberg, offerti al pubblico in traduzione. Una storia che inizia il suo corso in maniera impercettibile, con movimenti lenti, calcolati, millesimali, che richiamano una routine dietro cui si nasconde il desiderio di far esplodere un io represso.
Ed è proprio ciò che avviene tra le mura immaginarie di quella casa buia, il corpo di Luca Cacitti esplode dapprima in maniera timorosa, guardinga, si sposta mantenendo il contatto con il pavimento in uno stato quasi larvale, con gli scatti delle gambe e del corpo che inarcandosi ed articolando le braccia assume le sembianze di un insetto sinuoso e istantaneo. Ma d’impatto è l’ensemble dei due danzatori che in un susseguirsi di canoni e movimenti definiti, lineari seppur scattosi, inscenano la contaminazione di una danza che prende le linea pulite del repertorio “sporcandolo” con le isolazioni del capo, degli arti superiori proprie dell’hip hop, ritornando alla modern dance, al Contact che si individua nell’attrazione con il suolo, lavagna su cui disegnare le proprie emozioni.
I movimenti della coreografia sono la risposta al registrato battibeccare tra i due, due uomini sulla scena, una madre e un figlio nella parola, due entità diverse ed uguali ad un tempo che ritrovano la loro similitudine nella parte finale dello spettacolo, quasi un tango, innestato di tensione rabbiosa, nel quale i due interpreti esauriscono i loro litigi, in uno scontrarsi e abbracciarsi continuo. Un rinnegarsi ed accogliersi, uno specchiarsi in quei vetri che delimitano lo spazio di scena e che rimandano l’immagine di due corpi che ingombrano con la loro leggera ed ipnotica presenza.
La coreografia di Dunja Jocic cattura meravigliosamente lo sguardo intento a non perdere il particolare, l’accento umoristico e psicologico di ogni gesto. Andy Wahrol rivive nello sguardo stralunato di Luca Cacitti, nella sua espressività impattante che coinvolge lo spettatore, in contrasto con la maschera severa e compita di Shai Partush donna-uomo che non nasconde, però, la sensualità dei movimenti.
Uno spettacolo, Don’t talk to me in my sleep, in cui adrenalina, visione e immaginazione si intrecciano per creare un unicum ironico e appassionante.
19/07/2018
Ilaria Costabile