Il Festival Danza Urbana di Bologna compie vent'anni. Ma che cosa significa oggi portare la danza nei tessuti urbani e in dialogo con un luogo - solo apparentemente – non deputato alle rappresentazioni? Cortili, piazze, sagrati, sono questi gli spazi aperti con cui entrano in relazione i linguaggi coreografici di giovani autori contemporanei. La città si fa palcoscenico, le vie sono come i tanti foyer di uno stesso teatro.
Sabato 3 settembre abbiamo preso parte agli eventi previsti per la seconda giornata del Festival che dal 2 andrà avanti fino all'11 settembre tra spettacoli, convegni e iniziative di vario genere sempre legate alla danza. Nel Meeting Internazionale “Città che danzano” si è parlato di come, attraverso un'esperienza di questo tipo, in Italia e nel Mondo si continui a catturare l'interesse di giovani artisti oltre che di un pubblico come quello cittadino, non solo di “appassionati”. Non sembra più esistere, ormai, l'idea di festival come semplice successione di spettacoli; rassegne così strutturate rappresentano oggi dei veri e propri momenti di incontro tra danzatori e coreografi, performer e cittadini, architetture urbane e composizioni coreografiche. Presenti al convegno, i testimoni diretti di realtà simili che sono nate in Europa e nel Mondo nel corso di questi anni. Tutti gli ospiti sono venuti a raccontare la natura e le modalità di sviluppo del proprio festival urbano. Dalle diverse testimonianze è emerso che, al di là dei contesti specifici e caratterizzanti, l'intento resta sempre lo stesso: istituire un dialogo con la città di riferimento. La Spagna, per esempio, gremisce di rassegne di questo tipo. Da Cadiz a Saragozza fino alla Galizia, i festival di danza urbana diventano un momento attraverso cui portare in scena un inedito racconto della città. Nella Sala Tassinari del Palazzo d'Accursio di Piazza Maggiore a Bologna, i direttori e i programmatori deelle principali rassegne internazionali hanno proiettato, sotto forma di video-promo, le immagini relative alle diverse esperienze per cui si sono fatti rappresentati. L'intento di questo incontro è stato soprattutto quello di far conoscere e promuovere un certo tipo di programmazione e sperimentazione contemporanea, ma non solo. È importante che realtà di questo tipo possano confrontarsi e crescere proprio misurandosi con esperienze simili. Qualcuno, citando l'articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ha anche affermato: «ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti». Il Festival urbano non vuole essere nient'altro che un momento di civica coscienza, di convivenza, condivisione e in-formazione. L'opera si fa pubblica, proprio come un monumento e tutti sono invitati a fruire di una cosa che, in quanto cittadina, appartiene a tutta la comunità.
Non a caso, quasi a dimostrazione delle parole e dei video che sono stati proiettati, è stata immediatamente data dimostrazione dell'esperienza: la città come sfondo nell'idea di una danza comunitaria. Lo spettacolo in doppia replica subito dopo il meeting ha coinvolto le ragazze della compagnia Simona Bertozzi/Nexus. Con “Prometeo: architettura Bologna”, nel cortile del Collegio d'Arte Venturoli in via Centotrecento, è stata presentato il “Quinto quadro del Prometeo” come anteprima di un progetto più ampio. Un gruppo di giovani danzatrici del territorio ha dato vita a delle vere e proprie pratiche corporee che sono andate a confrontarsi e a dialogare con un habitat specifico. Gli spettatori hanno assistito alla performance seduti per terra, all'ingresso del cortile. Vestite di bianco e nero le interpreti sono diventate letteralmente parte, coi loro movimenti, di uno stesso quadro costituito da architetture preesistenti e esercizi coreografici in continuo divenire. Bianche erano infatti anche le pareti del cortile a contrasto coi mattoni del pavimento sul quale hanno danzato e un tetto-cielo che sovrastava sia l'atto performativo che i suoi spettatori. Una coreografia, questa, fatta anche dai respiri, dal rumore delle scarpe che strusciavano per terra, dalle voci di alcune che tornavano, quasi come una scansione temporale e ritmica, a sostegno della musica di Steve Reich. Alla sola “vista” dello spettacolo si è dunque aggiunto il voler sollecitare, da parte della coreografa, anche la sfera dell'udito con questi irregolari “ornamenti” coreografici lasciati, come tracce, ai margini di un racconto fatto anche di ascolti.
«Della necessità, chi è che tiene il timone?» è il grido a bassa voce della più piccola delle interpreti. A lei sembra essere anche affidato il ruolo di “guida” all'interno di queste strutture d'azione. È difficile tentare di dare una risposta a questa domanda, ma forse è la volontà stessa della Bertozzi di lasciare la questione in sospeso. Purtroppo, per natura, non siamo fatti per le lasciare le cose “in sospeso”, incomplete. Cerchiamo troppo spesso di trovare una spiegazione anche alle domande che vanno oltre qualsiasi capacità razionale. E il corpo non può che riflettere, col suo andamento instabile, lo smarrimento che ci pervade.
Laura Sciortino 05/09/2016