Luce, buio. Dentro, fuori. Moto, stasi.
La voce e il silenzio, le parole e il nulla, l’angoscia e il sollievo, la speranza e la coscienza.
Essere, divenire, creare, demolire, vivere e morire.
Sono netti i contrasti in “Brodsky/Baryshnikov”, lo spettacolo presentato al Teatro del Maggio in occasione del LXXXI Festival del Maggio Musicale Fiorentino. Con la regia di Alvis Hermanis, lo spettacolo arriva dopo la proclamazione ad honorem al ballerino nato a Riga ma adottato dal continente americano «per la sua lunga e ancora attiva carriera creativa […] che fanno di lui uno dei più completi protagonisti nella storia della scena contemporanea». Il ballerino tra i più grandi della storia nostri tempi, è arrivato a incantare il palcoscenico del teatro di Desideri - il luogo dove effettivamente certi sogni possono davvero realizzarsi - con un opera che attraverso cui porta in scena la sua poliedricità.
Lontano dai repertori classici che l’hanno reso celebre nei maggiori tempi sacri del balletto, Mikhail Baryshnikov si esibisce in una pièce che mescola l’arte del narrare poesie a quella della performance come una serie di atti che vengono compiuti a supporto e a completamento della parola. Le poesie del premio nobel per la letteratura e la narrazione-danzante di “Misha” (che in questo caso sarebbe più opportuno chiamare “Mysh” ovvero topo come lo aveva ribattezzato lo stesso Brodsky) ci permettono di sentire un’esperienza, nel senso transitivo del provare una sensazione fisica, un turbamento, attraverso ciò che viene visto e letto, ma anche attraverso il significato intransitivo della parola, ovvero il sentirci come facoltà uditiva perché ascoltiamo la voce e il suono che insieme definiscono il narrare. Il senso di questo ascolto è da rintracciarsi anche nel valore riflessivo del termine, ovvero di quel personaggio che sente ciò che sta per accadergli, che sente la sua esistenza e l’assenza di essa.
Sul palco Baryshnikov recita le poesie di uno dei poeti più autorevoli del XX secolo: entrambi esuli a New York dopo la fuga dall’Unione Sovietica, si erano conosciuti nel 1974 nella terra promessa e in poco tempo la sola ammirazione dell’uno nei confronti dell’altro si era trasformata in profonda amicizia. Il rappresentante della nuova generazione di ballerini del secolo scorso, infatti, recita a memorie le poesie dell’amico poeta, affidando ad esse i linguaggi che gli appartengono, quelli di un danzatore poliedrico che non si è mai cristallizzato in un’unica forma. Il movimento, infatti, se preso da solo non è che un insieme di atti sterili: ma se il corpo è consapevole di essere in un luogo e in dialogo con esso, se esso stesso diventa un territorio da esplorare attraverso la guida delle parole, si carica di significato e, allo stesso tempo, di quel lirismo che appartiene ad un racconto in versi.
Come la poesia, infatti, anche il corpo può caricarsi di figure retoriche, essere la metafora di se stesso, affermazione di un opposto o imitazione della natura, esso può avere schemi ritmici e stilistici e una sua metrica fatta di accelerazioni o silenzi talmente lunghi che diventano pause, interminabili attese.
Lo spettacolo inizia con questo senso di sospensione, si ha la percezione di un’attesa appunto, ma cosa si sta aspettando davvero? Il tempo, nel suo scorrere inesorabile, viene ad essere rappresentato dalle pause nei movimenti, dall’assenza di essi, quindi dal silenzio e, ancora, dall’assenza delle parole. Non mancano dei simboli materiali a richiamare questo aspetto come l’orologio che indica lo scorrere dei minuti e delle ore, la bottiglia di alcol a cui il personaggio sembra attaccarsi come per riempire un momento di apparente vuoto, il libro come “luogo” in cui il tempo invece resta immutato.
In scena una sola struttura con i vetri nella quale il danzatore entra e esce in un gioco di veri e propri chiaroscuri. La traduzione delle poesie che vengono lette da Baryshnikov alternate alla voce narrante fuoricampo, viene proiettata sul lato lungo della struttura, e questo porta lo spettatore a compiere dei movimenti, seppur impercettibili come quelli degli occhi richiamati all’attenzione da danza e dalla lettura dei titoli che riportano la traduzione del testo dal russo. Sono poesie cariche di significati legati alla vita, alla sua caducità, al mondo annebbiato- come quei vetri- dal senso di dominio e potere che porta con sé la paura, la solitudine, la tragedia; ma il poeta, così come il danzatore, è consapevole del fatto che è impossibile frenare i sentimenti, e se non possiamo, da soli, avere la forza di contrastare un inevitabile destino e le angosce di un’esistenza dominata dall’alto, dobbiamo almeno recepire l’essenza delle cose anche se cogliamo «l’orizzonte solo come un segno meno» e se ci riteniamo come il cerchio che ha una forma « ma il nulla dentro».
Laura Sciortino 4/07/2017