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Al Vie Festival “BiT” di Maguy Marin: un’ipnosi di gesti e suoni, ripetizione della società?

Suoni stridenti, rumori elettronici, percussioni entrano nelle orecchie, pian piano crescono, si fa luce sul palcoscenico. Enormi lastre che sembrano d’acciaio, costituiscono la scenografia, su di esse i sei danzatori saliranno, si sdraieranno, si rotoleranno.
È l’inizio di “BiT”, la nuova creazione di un mostro sacro della danza contemporanea mondiale, Maguy Marin, che circa dopo vent’anni torna a Bologna per Vie Festival. All’Arena del Sole un’occasione unica, per conoscere sia il nuovo lavoro della coreografa francese, andato in scena il 17 e 18 ottobre, sia il suo ormai storico spettacolo “May B”, accolto con un lungo applauso della platea il 20 ottobre.
Il ritmo è la colonna portante della coreografia, il ritmo che deriva dai conti, dai numeri, su ogni suono un passo, uno dopo l’atro. Le composizioni coreografiche, in apparenza semplici, ma difficilissime da eseguire in sincronia, si reiterano continuamente. Ripetizione e accumulazione sono le basi che reggono la composizione: a ogni inciso si aggiunge un nuovo passo, uno per volta, per aumentare quasi all’infinito la combinazione, che poi improvvisamente ricomincia da capo. Un flusso continuo di passaggi che i danzatori, mai fermi sul palcoscenico, eseguono tenendosi per mano come in una catena, quasi come fosse una danza popolare, un rito, un ballo di corte. Gli occhi, gli sguardi e i sorrisi tra gli interpreti, a volte ammiccanti e altre cortesi, rendono evidente sia la notevole bravura dei danzatori e attori, sia un sottotesto, che la mancanza di trama non nasconde.
Il ritmo cresce continuamente in una parabola che sembra non voler mai discendere e richiama lo spettatore, lo rapisce, lo costringe a tenere gli occhi fissi sulla scena, in una sorta di stato ipnotico. Nasce quasi il desiderio di salire su quel palco e iniziare a danzare, saltellare, scatenarsi sulle note della musica puramente elettronica di Charlie Aubry.
A quest'apparente gioia inizia a opporsi qualcosa di oscuro, inquietante, una scena quasi macabra in cui i desideri dell’uomo sembrano racchiudere voglie di prevaricazione e un costante senso d'insoddisfazione o appagamento. Ai colori degli abiti si oppone il buio, in cui risalta il roseo di corpi nudi che s'intrecciano, s'inseguono, si divorano.
Cercare di dare un’interpretazione potrebbe essere riduttivo, ma la forza del teatro contemporaneo è proprio quella di racchiudere al suo interno tanti e diversi significati, di offrire allo spettatore la libertà di capire ciò che desidera, ciò che riesce a cogliere, di farsi lui stesso interprete e partecipe dell’opera.
“BiT” è la ripetizione in senso stretto, la ripetizione che costituisce la particolarità primaria della nostra moderna società, delle sue dinamiche, dei suoi schemi, che ci incanalano in una sorta di straniamento. La gioia, la cortesia, la danza giocosa sembra essere il vortice in cui siamo costretti a dimenarci, per nascondere poi la promiscuità, che non si esime dal venire fuori.
“BiT” è un lavoro folgorante, in cui sono riconoscibili senz’altro i tratti salienti di Marin, ma che a differenza di “May B” - spettacolo creato nel 1981, che consacrò la coreografa a livello mondiale e che racchiude ancora oggi una forza rivoluzionaria e una poetica uniche – sembra essere più disincantato, forse crudele. I riferimenti nei due lavori sono probabilmente gli stessi, ma il sentimento è diverso. BiT lascia quasi dubbiosi, angosciati ma anche gioiosi: ci consegna una contraddizione interna che spinge a interrogarci, sensazione che rispecchia perfettamente la quotidianità che viviamo.

https://www.youtube.com/watch?v=1Vsbky9V1KY

Silvia Mergiotti 26/10/2015

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