Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 749

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 736

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 739

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 691

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 699

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 703

Entrare a Cinecittà è un’esperienza avvolgente: una creatura gigante che ci accoglie per guidarci in un’atmosfera da sempre rimasta sospesa.
Il nuovo Museo Italiano dell’Audiovisivo e del Cinema (MIAC) contribuisce a tenere viva l’anima di questo luogo speciale e alla sua riqualificazione, iniziata due anni fa, con il ritorno alla sfera pubblica degli Studios. Il percorso in terra di colore giallo ci guida fino all’entrata del MIAC, inaugurato lo scorso 18 dicembre 2019.

Tra le insegne dei cinema celebri, neon che si accendono e si spengono e suoni familiari, lo spettatore inizia il suo viaggio nel primo vero punto di aggregazione e di sentimento comune, il foyer, la sala di attesa prima dello spettacolo: questa è l’“Anteprima”

Da qui siamo pronti per rompere la quarta parete e superare un ideale schermo atto a catapultarci nello spazio delle “Emozioni”. Un ambiente dove interagiscono MIACSalaEmozionedellImmaginarioAndreaMartellatutti gli elementi presenti nelle viventi opere d’arte contemporanea, questa è la forza dell’intero concetto espositivo.
Lo schermo appena infranto vede i pezzi di vetro, sospesi in aria, partecipare ai giochi di luce con un linguaggio che segue il tracciato dall’attenta ricerca musicale: la metafora fisica ci permette di vedere in modo estrinseco gli istanti emotivi delle proiezioni. Abbandoniamo il luogo pensato per sviscerare le emozioni e proseguire il cammino delle altre otto sale. Siamo in un lungo corridoio, ecco la spina dorsale della mostra. La “Timeline” prende vita dagli inizi dell’audiovisivo sino a giungere ai giorni nostri, si interseca la storia a partire dal pre-cinema coinvolgendo le date storiche della televisione. È una mappa sotto forma di graffito luminoso, un ipertesto utile a rendere partecipi per ogni passo della visita. Il MIAC rappresenta un lavoro di creatività e filologia a disposizione dell’approfondimento e della curiosità del pubblico. Nel corridoio temporale fanno capolino i rumori e le luci dei restanti ambienti, quella degli “Attori e attrici”, la “Storia”, la “Lingua” e il “Potere”. In ognuno scorrono le sequenze delle pellicole più significative, in riferimento ai temi e ai volti storici. I film coinvolti esprimono e definiscono i contorni di una società che si è lasciata raccontare dalla macchina da presa.
Proseguendo, prepotentemente, si accede ad un’installazione percorribile: è lo spazio dedicato a “Paesaggio, eros, commedia e merce”. L’Asfalto sotto ai piedi, luci ed immagini impattanti rimbalzano sui tre schemi dall’enorme formato. Anche qui l’esperienza è massima, tutto è costruito per consegnarci una coerenza fra i sensi.
In sottofondo la voce dei grandi “Maestri” ci richiama nel luogo che li racconta con le confessioni, i sentimenti e le personali visioni del cinema. Ora siamo coccolati da un’architettura brillante di luci e maglie metalliche, come se entrassimo nell’intima visione dell’autore, qui passano i volti dei più grandi nomi di ieri e di oggi.
Quasi al termine del tunnel arriviamo ad un altro significante della cultura italiana: la “Musica”. La sala accoglie i grandi compositori che hanno incorniciato i lungometraggi cult, divenuti tali anche grazie al significativo apporto del sonoro.

Il percorso si conclude alla fine della timeline con l’ultima tenda da aprire e con una domanda che incarna il senso dell’ultimo passo, siamo nel “Caledoscopio”. Un’estrema installazione e narrazione visiva tesa ad interpretare il cinema del domani e pronta a domandarci quale sarà il suo futuro. Uno spazio interamente dedicato agli specchi che trasmette incertezza, correlativo oggettivo della prossimità ignota, in totale contrapposizione al teatro di posa

Ogni angolo del museo è metaforico proprio in rappresentanza del cinema, si snodano 120 anni di contenuti che hanno attraversato la nascita e la mutazione del nostro paese tra i vizi, i vezzi e le virtù.
Nel MIAC cinema, tv, radio e digitale, si mescolano ad un nuovo linguaggio in un nuovo genere: il tutto declinato all’arte della visione, e all’arte di chi vede.
La mostra si articola in maniera tematica, cronologica ed emotiva per richiamare i sentimenti dei visitatori. Come un archivio di emozioni che vengono tirate fuori per acquisire un valore diverso e aggiunto: i classici si fondono alle nuove pellicole per creare un continuum e sottolineare il peso sociale di ogni stanza a tema.
Un progetto voluto e finanziato dal Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, il MIAC è realizzato da Istituto Luce-Cinecittà, in partnership con Rai Teche e CSC – Centro Sperimentale di Cinematografia, in collaborazione con Cineteca di Bologna, AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Museo Nazionale del Cinema di Torino, Fondazione Cineteca Italiana, Cineteca del Friuli, Mediaset, con il Patrocinio di SIAE.
Un excursus nel patrimonio italiano dell’audiovisivo curato da Gianni Canova, storico del cinema, Gabriele D’Autilia, storico della fotografia, Enrico Menduni, storico dei mass media e Roland Sejko regista. L’allestimento è ideato, progettato e curato da NONE collective. Il progetto edilizio è dall’architetto Francesco Karrer.
Qui sotto tutte le informazioni necessarie per visitare il MIAC, primo museo multimediale, interattivo e immersivo!

MIAC - Museo Italiano Audiovisivo e Cinema
Aperto tutti i giorni, tranne il martedì, dalle ore 9.30 alle ore 18.30
Via Tuscolana, 1055 - Studi Cinecittà, Roma
Contatti - Biglietteria
Tel. +39 06 72293269
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.  
www.museomiac.it 
www.cinecitta.com 

Foto credits "Sala Emozione dell'Immaginario" Andrea Martella

Arianna Sacchinelli 
28-02-2020

«Il giardino deve esistere, deve essere qualcosa che si vede e si sente quasi (arrivo a pensare persino all’odore, o solo all’odore, per gioco) ma non può essere un tutto. Perché lì tutto si concentra». La complessità della messa in scena di un grande classico del teatro russo, “Il giardino dei ciliegi” di Anton Čechov, è rappresentato da queste parole di Giorgio Strehler, negli appunti per la sua regia. Al Teatro Argentina di Roma, in scena dal 25 febbraio all’8 marzo, Alessandro Serra propone la sua personalissima visione di quel giardino, filtrata da una poesia che è già insita nel testo. Una scenografia minimalista, con pochi oggetti in scena, lascia spazio ai corpi distesi dei personaggi, veri e propri oggetti di scena, che si attivano, alzandosi, uno alla volta, per entrare “davvero” in scena. Un grande lavoro sui corpi è il primo elemento stilistico del regista della compagnia Teatropersona. Nessuno è insignificante, ognuno prende posto nel ritratto sociale e familiare disegnato da Čechov e che Serra esprime attraverso le pose immobili dei gruppi non partecipi, in ogni momento definito, al drama, come se fossero in attesa di una foto. Nessun attore o personaggio è più importante dell’altro. Ognuno resta, o non resta, nella memoria dello spettatore in un suo personalissimo modo: la forza comica del maggiordomo anziano e tremolante Firs e dello sciocco possidente Simeonov- Piscik, interpretati rispettivamente dagli abili Bruno Stori e Massimiliano Poli; l’ inettitudine di Ljubov e del fratello Gaiev (Valentina Sperlì e Fabio Monti) che li ha portati a perdere le proprietà e l’amato giardino dei ciliegi; la brama di denaro del mercante in ascesa Lopachin, ruolo ricoperto da Leonardo Capuano, compatibile al suo personaggio sia nella presenza scenica che nelle proprietà vocali, aventi tratti tonali del laido senza scrupoli disposto a rinunciare a tutto, persino all’amore. L’apparente semplicità caratteriale dei personaggi viene fin dall’inizio smascherata da un uso mirato e simbolico delle luci proiettate sugli sfondi che creano un gioco di ombre in cui si esalta la dualità che convive in ognuno di loro, così proprio come in quelli di Čechov.

BRUNO STORI IL GIARDINO DEI CILIEGI regia Alessandro Serra

Eppure del giardino si sente parlare poco: se ne fa cenno nelle battute prestabilite dal testo dell’autore russo. Ma si sente poco. I personaggi lo osservano guardando in platea. Sembra che non ci sia, fisicamente. Passa poi in secondo piano quando iLeonardo Capuano Arianna Aloi IL GIARDINO DEI CILIEGI regia Alessandro Serra corpi degli attori cercano con maggiore frequenza il movimento danzante, esaltato soprattutto dal personaggio ambiguo di Charlotta (Chiara Michelini), spirito che entra in scena per muovere e agire sui personaggi nelle loro azioni, ingranaggio centrale della poesia espressa nella messinscena di Serra. In alcuni momenti inizia a diventare evidente una citazione quasi esplicita al Tanzatheater di Pina Bausch nell’uso scenografico e drammaturgico delle sedie, marca stilistica della coreografa tedesca, e soprattutto nella scena in cui Trofimov, sopra una sedia, conversando con Anja, passa da una sedia all’altra, con la ragazza che, in agitazione, gliene aggiunge una sul percorso immaginario che sta seguendo, per non farlo cadere a terra, ricordandoci una versione rivisitata di “Café Müller”. Le sedie sono oggetti preponderanti per tutta la durata dello spettacolo, elementi sfruttati con avidità dagli attori. Nel gioco delle sedie - ma non solo - si inserisce frequentemente la musica, che oscilla tra l’allegro e il malinconico marcando vari momenti della partitura testuale, di cui fanno parte anche le continue risate emesse dal “coro” dei personaggi e che finiscono per enfatizzare particolarmente l’indolenza della famiglia che sta per perdere tutto e che sembra non curarsene. Sì, sembra non importargliene realmente di quel giardino. Ma la verità è che ci ricordiamo delle cose importanti solo quando le perdiamo. È solo alla perdita definitiva, all’asta, del giardino dei ciliegi, che esso esiste, drammaticamente: Liuba resta, disperata, seduta su una sedia con luce che proietta la sua ombra. Con un gioco di luci formidabile, la donna si alzerà dalla sedia lasciando la sua ombra lì, muovendosi indipendentemente. Da una scena fortemente emotiva a una sensoriale, quella in cui Lopachin, versando la terra, vera, sul palco e lanciandola dietro di sé sul fondale, inonderà la platea di odore terreo. Ecco, si sente pure l’odore del giardino. Il giardino dei ciliegi esiste, è in scena, ed è andato perduto, insieme ai ricordi e all’amore delle parti in gioco.

Alla fine del quarto atto, i personaggi chiudono le loro azioni ritornando nella posizione supina da cui erano partiti, accanto alla terra, come se fossero piantine che si sotterrano. Sono loro il giardino dei ciliegi.

Funziona questa rappresentazione del regista: il giardino è stato rappresentato, i personaggi non sono stati banalizzati e c’è stato un lavoro importante sul lato comico di ciò che solo Čechov, inizialmente,considerava una commedia. Una comicità che risiede anche nella parte contestuale della rappresentazione in questione: per fare una versione soddisfacente de “il giardino dei ciliegi” serviva un regista di nome Alessandro Serra.

Giuseppe Cambria  26/02/2020

Una porta divide idealmente lo spazio vitale di due amici fraterni, diversi ma profondamente dominati dalle stesse ansie e nevrosi. Ci rammentano che «La signora del piano di sopra sta partendo», questo il titolo dello spettacolo, ma è domenica mattina e quel baccano, che sta creando la donna appena un piano più sù, non li fa riposare entrambi.
La versione definitiva del testo ha debuttato all’Altrove Teatro Studio il 21 e 22 febbraio: con la regia e la drammaturgia firmata da Tommaso Paolucci e Francesco Pietrella, accompagnati in scena da Matteo Berardinelli e Daniele Pinzi.Fotodiscena 3Troppo tempo libero e la stanchezza degli snervanti turni di notte danno vita alla tragicomica tensione che ci accompagnerà per tutta la messinscena.
Cosa sta accadendo nel palazzo? Perché tutto questo via vai? Chi è quella gente e, soprattutto, cosa succede lì fuori? Gli interrogativi in cerca di risposta sono fagocitati dalla gabbia astratta che trattiene i due: la loro testa. La drammaturgia di Paolucci-Pietrella è un crescendo, un’amalgama che pian piano prende vita sino al momento in cui i protagonisti, faccia a faccia, si dichiarano le stesse paure. 
L’uso sapiente dello spazio aiuta la narrazione scenica alla suddivisione degli snodi chiave, antiteticamente prende il sopravvento una parte della psiche umana, poi un’altra. Mai banalmente entriamo nei passaggi emotivo-cerebrali dell’essere umano che di fronte ad una realtà di incertezza e ignoranza si muove, arranca e cerca di divincolarsi più o meno bene.

Fotodiscena 1Prima assistiamo all’istinto illogico, che si traduce nella perdita della lucidità e di qualsiasi sistema di riferimento, dopo subentra il momento razionale figlio dalle regole che gestiscono ogni circostanza. I protagonisti conducono la costante dicotomia verso un’ isterica ricerca di un senso. 

Da lontano, rimanendo perennemente in “finestra”, gli interpreti tentano di trovare un ordine traducendo ogni nuovo elemento, inserito in questa aliena giornata, con una connotazione negativa.
L’assenza della parola, la gestualità e la prossemica raccontano un momento che viene narrato solo attraverso l’uso del corpo rivelando quello che di più intimo c’è nella mente: ora la confusione, le paranoie e le paure sono palesate in modo più consistente.
Tommaso Paolucci si impone inizialmente come la parte più remissiva e problematica della dinamica: paradossalmente compie un’evoluzione, in numerosi passaggi riesce a domare la sua sensibilità e reagire.
Francesco Pietrella, sicuro di sé e schematico, ribalterà il suo essere risultando meno incisivo di quello che sembra. L’involuzione emotiva del suo personaggio rappresenta lo specchio di una società predominante, celata dietro personalità apparentemente indistruttibili.
Un’ora di botta e risposta tra due emisferi che ogni tanto si sfiorano, si toccano e poi collidono.
“La signora del piano di sopra sta partendo” sintetizza con l’artificio dei due amici, diversi ma in fin dei conti uguali, un tema cardine della psicologia umana: fino a che punto il mio sguardo sul mondo è fedele alla realtà se mosso da precisi schemi mentali?
E, in ultima analisi, fino a che punto queste visioni condizionano l’atto pratico poi? Una riflessione consapevole che riesce ad alleggerirsi da sola, quando necessario, e consegnare allo spettatore la giusta dose di risate.

Arianna Sacchinelli 

22-02-2020

Chi è un ammiratore delle inchieste giornalistiche degli anni ‘90 di Cristopher Hitchens sulle missioni umanitarie, discutibili, di Madre Teresa di Calcutta rischia, inevitabilmente, di sedersi con pregiudizi davanti allo schermo del cinema Farnese, in Roma, prima della proiezione di “Mother Fortress”. Davanti a elementi lessicali come "Monastero", "Religione", "Crisi Umanitaria" e "Povertà" si inizia a storcere il naso, nonostante cambi in maniera evidente il contesto storico e geografico. Sin dall'inizio del docufilm di Maria Luisa Forenza questa ipotetica predisposizione ostile si dissolve gradualmente, perché qui la religione non assume alcuna valenza politica e la struttura monastica si rivela invece salvifica e aggregatrice, con buona pace di Hitchens. Luogo di umanità salvata, ma gravemente ferita. Anche la “posizione della missionaria” Madre Agnes assume sfumature totalmente diverse: da giovane dissoluta si converte alla religione e diventa un punto di riferimento per migliaia di innocenti, vittime di una guerra fratricida che chiama  in causa diverse parti legate al mondo arabo. E a Qarah sorge il suo monastero, in un punto desolato, a nord di Damasco, schiacciato sia a est che a ovest dall’ISIS e dalle sue armi violente.

P1030533

Attraverso le inquadrature iniziali dell’edificio sacro si rappresenta una solidità del monastero che si trasforma, ai nostri occhi, in una vera e propria fortezza. Ogni parete, ogni dettaglio architettonico si rinforza con le interviste e le riprese delle e dei protagonisti e vittime delle guerre, i quali, in una coesione comune, creano in quel sito uno spazio di tregua e forza. Poi arrivano anche i campi lunghi e lunghissimi, accompagnati dal silenzio, e si evoca la fragilità del luogo all’interno dello spazio ignoto minacciato dalla guerra e dall’odio. Il senso infinito dell'attesa per la fine del dramma. Scene inziali che sono a tutti gli effetti da “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati, come dice la stessa regista durante il dibattito successivo alla proiezione, condotto dallo storico cinematografico Maurizio Di Rienzo e con l'intervento del Professore Paolo Matthiae, archeologo scopritore dell'antica città di Ebla .

Dopo questo attacco iniziale, la forza delle immagini è sostenuta da un sonoro audio che sentiamo come filmico e fittizio, ma che è tragicamente vero. Le orecchie e il cuore sobbalzano sotto i frastuoni delle bombe esplose in lontananza e dei proiettili delle mitraglie che turbano l'aria. Nello spostamento documentato lungo i luoghi cardine di una Siria devastata, da Aleppo a Dei Ez-Zor, si osserva anche una umanità che sta anche lì, dietro le macchine da presa, e che fa rovesciare la videocamera al suono orribile di una raffica di spari. La stessa Maria Luisa Forenza è lì a vivere quel pericolo, attraversando le macerie delle città e le folle che richiedono cibo, gentilmente fornito dall’occidente. Eh già, quell’Occidente che velatamente è, a suo modo, concausa di tutto questo, tramite quella fornitura di armi che sarà la stessa madre Agnes a denunciare, a Ginevra, nella sede dell’ONU. Nel dramma resiste un po’ di umanità, veicolato dalla monaca, ma le colpe appartengono a troppi e tutte le posizioni sono saltate.

Mother fortless” riesce così, attraverso queste scelte di regia e di montaggio, a essere un documentario forte e coraggioso, nonostante l’omissione dello sparagmòs da tragedia greca, componente terribilmente vera e presente in questa situazione storica, che la regista stessa ha ammesso di non aver voluto inserire per non intaccare una poetica che comunque funziona e porta tutti noi a non sottrarci più da una realtà che dovremmo sentire più vicina. Perché siamo umani.

Giuseppe Cambria

La difficile impresa di stare al mondo quando si è inconsapevoli delle manovre profonde, sotterranee, striscianti del Potere che s'insinua di soppiatto e all'improvviso prende il controllo di una piccola realtà o di una rete di relazioni. Una fatica che, seppure nella moltitudine, si porta avanti in solitaria perché la comunicazione non funziona più, è di continuo interrotta, frantumata e ostacolata da ipocrisia e interessi particolari che causano incomprensioni e inganni. La verità non ha più cittadinanza, se non in un di fuori separato dal resto. È su questi temi che cerca di gettare un fascio di luce rivelatrice “I pretendenti”, testo del 1989 del drammaturgo francese Jean-Luc Lagarce portato in scena dagli allievi del III anno di recitazione all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica “Silvio d'Amico”, con la regia di Valentino Villa, dal 4 al 9 febbraio al Teatro Studio “Eleonora Duse”. Ne abbiamo parlato con l'attrice Ilaria Martinelli, vincitrice del premio Siae 2019 insieme a Elena Orsini Baroni con "Esperimento n.1", interprete della determinata Solange Poitiers.

È la prima volta che interpreti un'opera di Jean Luc Lagarce?
"Come classe sì. Io già conoscevo questo autore perché lo scorso anno ho preparato la parte del personaggio di Suzanne di “È solo la fine del mondo” quando ho concorso al premio Hystrio 2019. L'opera l'ha scelta il regista, Valentino Villa, e già alla prima lettura ci è sembra un testo interessante, oltretutto di un drammaturgo poco conosciuto in Italia. Una decisione, da parte sua, che mi è sembrata un grande segnale di fiducia e di stima nei nostri confronti e ci ha molto stimolato. È stato un percorso didattico e formativo interessante, d'altro canto lo è sempre lavorare sulle drammaturgie contemporanee."

Credi che “I pretendenti” sia ancora attuale?
"Sì, perché questo testo ha un riferimento concreto all'attualità. Il più lampante è la questione - nata prima in Francia che da noi - della privatizzazione della cultura. È una metafora dell'oggi in cui la cultura deve essere sempre assoggettata al profitto, tutto deve essere spendibile nel minor tempo possibile, e dominata dall'efficienza. L'associazione culturale viene messa dentro una gabbia e tutto deve diventare sempre più efficiente. Più in generale, ci parla di come nella vita quotidiana ti promettono che le cose andranno in un certo modo, poi vanno in un altro ma te non ne sei messo al corrente. O quando ci sono delle prese di potere improvvise, dei 'colpi di stato', senza nessun consenso che poi vengono normalizzate."

Un dialogo in "I pretendenti"

Nella rappresentazione i personaggi dialogano ma sembrano non capirsi. La piece vuole sottolineare che c'è un problema di comunicazione?
"L'opera evidenzia che la parola, nella vita di tutti i giorni, è costantemente sotto scacco. La volontà di dire si scontra con tutta una serie di cose che esulano da quello che volevi esprimere. Queste contaminano la comunicazione che esce sempre piena di contrasti e ostacoli. Ci spinge a una riflessione su quanto, nella quotidianità, la comunicazione sia alterata. Inoltre mette in crisi anche l'attore, perché il personaggio che interpreti non è pienamente consapevole di quello che sta dicendo."

Che tipo di lavoro avete fatto per mettere in scena questo testo?
"Lagarce usa un eloquio pieno di avverbi ed è molto frammentato, pieno di ripetizioni. Questa lingua 'anormale' è già difficile da leggere, ma ancora di più da recitare. Abbiamo seguito le rugosità e le pieghe del testo, si è trattato di un'occasione per scoprire cose che altrimenti avremmo perso. Il mio personaggio, Solange Poitier, usa molti tormentoni quindi c'è qualcosa di anormale nella sua comunicazione. Non è possibile ricorrere a nessun escamotage , si deve seguire una linea di lavoro per non addomesticare, addestrare il linguaggio bensì soffermarsi su tutte le cose che ci suonano strane."

Cosa hai capito da questo lavoro?
"Come attori a volte non leggiamo i testi con la dovuta attenzione e perdiamo delle sfumature. Il lavoro con Villa fa vacillare un po' le tue certezze ma è un procedimento costruttivo. Problematizzare sempre serve a sviluppare un pensiero critico. Personalmente ho capito che nella nostra vita ci sono situazioni del genere, giochi di potere a livelli anche molto meschini come può essere un'associazione culturale di una città di provincia francese...proprio in questi ambienti piccoli queste dinamiche così alterate sono ancora più evidenti."

Parlaci del tuo personaggio.
"Solange Poitiers è una donna molto ambiziosa che lavora nell'amministrazione dell'associazione, sa distinguere molto bene la dimensione pubblica da quella privata e ne fa strumento di potere. Lei padroneggia molto bene la retorica, sa parlare e stare in mezzo alla gente. Ma nemmeno lei può controllare tutto e qualcosa di importante può sfuggirle di mano. Solo alla fine comprende che l'ingerenza dello Stato nell'associazione, soprattutto sul piano finanziario, sarà molto forte."

Perché andare a vedere “I pretendenti”?
"Perché la mia classe è composta di attori e attrici molto bravi, Valentino Villa è un regista straordinario e si può conoscere un autore ancora molto poco noto. Ieri una signora mi ha detto di aver visto nel mio personaggio una sua collega d'ufficio. “I pretendenti” racconta un dimensione molto vicina alla realtà che viviamo quotidianamente, è uno spaccato di vita di tutti i giorni che riflette dinamiche che per noi sono normalizzate anche se non dovrebbero esserlo."

Lorenzo Cipolla

Venerdì, 24 Gennaio 2020 14:55

"Rusina": storia di donne calabresi di tempra

ROMA – Negli ultimi decenni c'è stata una riscoperta delle lingue del Sud Italia. Non chiamiamole semplicemente dialetti. Il Napoletano da Eduardo e Scarpetta passando per Ruccello e recentemente Mimmo Borrelli, il Siciliano con Emma Dante, Scimone e Sframeli, Vincenzo Pirrotta, Rosario Palazzolo e Davide Enia. Mancava all'appello la Calabria. Grazie a Primavera dei Teatri, festival ventennale di Castrovillari, da una parte, che ha fatto fiorire una generazione in loco, ed ai Krypton dei Fratelli Cauteruccio, cosentini ma di base a Firenze (memorabile il loro “Finale di partita” tradotto), molti artisti calabresi sono saliti alla ribalta e ci hanno mostrato questa lingua affascinante e misteriosa, appuntita e acuminata, difficile e incantatrice: ecco appunto Scena Verticale, Angelo Colosimo, Rosario Mastrota, Ernesto Orrico. Ecco che in questo elenco spunta anche Rossella Pugliese, tosta e intensa interprete, oltre che autrice, del monologo “Rusina” (prod. Teatro Segreto e Deneb) dove alla dolcezza 960X960.jpgdell'argomento trattato, sua nonna, fanno da contraltare le sue parole acide, sanguigne, acute, quasi acerbe. Ci vuole un po' per entrare dentro le parole ruvide del suo mondo, quel mondo che la Pugliese riesce a tratteggiare e delineare nel passaggio-sdoppiamento autobiografico con l'ava in un cortocircuito nel quale Rossella presta corpo e voce all'anziana parente e interloquisce, nella finzione scenica, con la se stessa bambina. Certamente non è una lingua che al primo ascolto ti accoglie, non ti coccola, non è melliflua né accomodante, ma anzi è diretta, colpisce sfrontata senza carezze inutili.

Un inciso: “Rusina” è andato in scena all'interno della rassegna “Lo spazio del racconto” al Teatro Brancaccino, il ridotto del Brancaccio. Qui, da ottobre a maggio, si alterneranno ben ventuno spettacoli per una proposta di monologhi o per due attori, che vede nomi importanti come Ninni Bruschetta o Anna Della Rosa, Galatea Ranzi, Rossana Casale.

La DSF7528.jpgPugliese (vista ultimamente nell'“Edipo a Colono” per la regia di Tuminas e in “Patrizio vs Oliva” affiancando il grande ex campione di boxe in scena) ci apre le porte della sua memoria in una confessione che trova nella struttura che l'accompagna un altro personaggio, flessibile e alchemicamente malleabile, che con pochi tocchi e aggiustamenti dona, insieme all'uso sapiente delle luci (di Nadia Baldi), nuove atmosfere e situazioni ai quadri affrontati. E' una sorta di teca dove l'attrice si appoggia, si arrampica plastica circense, quasi cabina telefonica londinese dalla quale far uscire, come in uno show di burlesque, sinuosamente ed eroticamente le gambe, diventa armadio delle meraviglie (ricorda quello della pellicola “Le Cronache di Narnia”) e sipario di marionette, porta, casa e finestra, mansarda, cella, adesso tirando fuori la testa alla maniera di Antonio Rezza, ora è televisione dove poter guardare le storie patinate di “Beautiful”, diventa bagno e spogliatoio, alcova fino ad impersonare suo marito e ballarci insieme volteggiando. E la lingua ora si fa musica, con inserti ilari, adesso è baionetta tragica e battaglia, ora è armonia ora è un corpo a corpo senza esclusione di colpi, senza fare prigionieri: qui le parole sono materia e carne, fortemente legate a doppio filo alla realtà, alle cose, parole concrete, consistenti, dense, sillabe solide, compatte, resistenti, robuste, inscalfibili, pesanti.RUSINA7.jpg

Ci racconta una famiglia del Sud di quelle matriarcali, i valori saldi, quel Piccolo Mondo antico arcaico che non c'è più, vite dure, difficoltose. Ed anche la RUSINA88.jpgsomiglianza, con l'uso del trucco, in qualche modo a Frida Kahlo, metaforicamente ci porta verso quelle figure, certamente lontane dal poter essere considerate “femministe”, che però hanno lottato perché le loro esistenze non fossero schiacciate dalle consuetudini, dalla famiglia di provenienza, dai maschi, dalla religione: una lotta continua, strenua, senza mai poter abbassare la guardia, sfiancante. Donne che hanno combattuto per quel briciolo di libertà che si sono faticosamente ritagliate. Già dal nome, non Rosa che sa di candido e delicato ma “Rusina” (spettacolo vincitore di “Martelive” e selezionato per il prossimo Torino Fringe) che gratta sul palato come un coltello arrugginito, che graffia, che stride, che punge onomatopeico. “Rusina” è il passaggio, naturale e familiare, di testimone tra una nonna che ci lascia e se ne va, e una nipote che parte dalla Calabria per inseguire i suoi sogni: in definitiva Rossella è il prolungamento di Rusina e in questo spettacolo vivono e convivono insieme.

Tommaso Chimenti 24/01/2020

FIRENZE – Precursore malizioso, innovatore licenzioso, pioniere esuberante, sperimentatore esagerato, riformatore aggressivo, rottamatore ante litteram. La comicità, italiana e non, deve molto all'opera, alle invenzioni, alla faccia, alle parole di Ettore Petrolini, nato a fine '800, calcatore di scene a cavallo tra le due Grandi Guerre, il Ventennio del Fascismo. Cabarettista, mattatore, one man show, ogni definizione gli stava stretta, sta di fatto che ha inventato un linguaggio, un modo di stare in scena, di portare i suoi “tormentoni”, personaggi stralunati. Tutti i comici, come detto, gli devono qualcosa. E la storia di Dario Ballantini (qui accompagnato alla fisarmonica dalle atmosfere retro' di Marcello Fiorini), abile trasformista conosciuto al grande pubblico per le sue infinite imitazioni a Striscia la Notizia (da Valentino a Valentino Rossi, da Vespa a Morandi, da Maroni a Renzi, solo per citarne alcuni nella sua carrellata variopinta), si intreccia, per caso, per racconti familiari, per storia, per volontà e passione a quella dell'attore romano.Ballantini&Petrolini 2470 ®Pino Le Pera.jpg

L'omaggio “Ballantini & Petrolini” è una lectio, con tanto di leggio sul boccascena inframezzata con le figure e le macchiette che hanno animato e caratterizzato la carriera di Petrolini (scomparso a poco più di cinquant'anni per problemi cardiaci): l'artista livornese, con cambio a vista in una sorta di camerino con specchio e luci da varietà, con pochi tocchi d'abito e di cerone, interpreta e si cala ora in “Giggi er Bullo” adesso nella “Sonnambula abruzzese”, poi in “Salamini” fino a “Nerone” (nel quale molti ci videro Benito Mussolini), passando per “Amleto” con la sua parodia del teatro classico, cantando “Tanto pe' cantà” (portata al successo molti anni dopo da Nino Manfredi), arrivando a “Fortunello”, sfociando nell'iconico “Gastone”, quasi Penguin di Batman, dove regna l'autoironia, e esaltandosi nel “Pagliaccio del circo”. Un grande ventaglio, utile, per non dimenticare da dove arriva la comicità attuale: a Petrolini infatti, ci spiega l'attore livornese (anche grande pittore, fino al 31 gennaio la sua mostra è aperta alla Galleria d'arte La Fonderia con l'esposizione “Esistenze Inafferrabili”) nel suo fare bilanciata tra un'autobiografia tutta graffiante labronica e pagine di critica e giornali dell'epoca, tra la sua soggettività e ricordi dell'epoca, devono molti generazioni e generazioni dei creatori della risata nostrana: da Gigi Proietti a Enrico Montesano, da Pino Caruso ad appunto Manfredi fino a Carlo Verdone (l'astrologa) e Alberto Sordi.

Non solo Roma però, il suo repertorio e la sua arte anticipatrice ed ancora contemporanea è stata “saccheggiata” a piene mani. E' stato uno sdoganatore rivoluzionario e sotto la scorza del “Teatro demenziale” c'era una critica al sistema, al Palazzo, al Potere, al Teatro ufficiale, polveroso e formale. Aveva inventato quel mix tra teatro e falsa magia (che portano in scena oggi il Mago Forrest o Raul Cremona), quella demenzialità fatta di slogan e freddure non-sense e frasi ripetute alla Franco e Ciccio, l'atemporalità delle ambientazioni delle sue maschere (alla Mel Brooks), sforando nella canzone, così nello stornello. Sfuggiva ad ogni categoria, era fuori, era oltre, era altro, fuori classifica: campione di surrealismo, avanguardista del grottesco, anticipatore del futurismo.

Battute folgoranti, Ballantini&Petrolini 2192 ®Pino Le Pera.jpgbrucianti, al fulmicotone, roventi, urticanti, affilate, raffinate o gravi, ciniche, stilettate cattive, senza riguardi, tanto che all'ennesimo premio fascista, ritirandolo dal palco disse: “Me ne fregio” incosciente e sfrontato. Vite vissute come un'eterna avventura, cariche di aneddoti come quella di Ballantini comunicatore ed “erede” artistico del genio Petrolini, riconosciuto anche dalla famiglia del grande attore romano come suo tramandatore accertato.

Rime, slanci, barzellette con quel gusto acido, insolente, testardo come deve essere l'ironia, il sarcasmo, la risata scorretta, che altrimenti non vale: “C'era scritto formaggio da grattare e io me lo so fregato”; la maga che confessa: “Posso leggere l'Avvenire e pure il Corriere della Sera”. Serafico, appuntito, ficcante: “Un tizio mi indica una cancellata ma come fa ad esserci se l'hanno cancellata?”, “Mio figlio cammina già da due mesi” “A quest'ora sarà arrivato a Torino”. Battute senza tempo, fresche, non datate: “Mi sono accorto che Ballantini&Petrolini 2437 ®Pino Le Pera.jpgl'Italia non ama i suoi uomini più patriottici: per le strade ho letto Via Cavour, Via Mazzini, Via Garibaldi”; “Ho fatto uno scherzetto alle Ferrovie dello Stato: ho fatto un biglietto andata e ritorno per Roma ma non sono tornato”. Caustico, cinico nel suo linguaggio destrutturato che in qualche modo aveva anticipato il rap o quanto meno assimilabile al punk rock elettronico di Alberto Camerini.

“Mi chiamo Gastone ma mia mamma mi chiama Tone per risparmiare il Gas”; “Mi dia nome e cognome” “Ah bella se lo do a lei io domani come mi chiamo?”. Contemporaneo: “Non si vive di solo pane, ci vuole anche la cocaina”. “Fine dicitore”, “Fantasista”, ogni definizione è una limitazione. Se Petrolini è stato il Dio della comicità, Ballantini ne è certamente il suo Profeta. W Petrolini, W Ballantini.

Tommaso Chimenti 17/01/2020

Foto: Pino Le Pera

Non c’è forse luogo più adatto ad accogliere il “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare del Globe Theatre di Roma. La più nota delle commedie del Bardo, infatti, prende vita al confine tra la città – Atene – e il bosco, in cui il sovrannaturale incontra l’umano, dove la notte sbiadisce il confine netto tra realtà e irrealtà tanto da consentire l’apparizione di fate, folletti e delle innumerevoli creature che popolano il bosco. Gli elementi di fondo dell’opera, poi, sono già elencati nel titolo della stessa: alla notte e al sogno, si aggiunge il solstizio d’estate, il momento di passaggio dalla stagione primaverile a quella estiva, contrassegnata in varie culture e Paesi da riti e feste connesse alla fertilità. Tre, come è noto, sono i mondi – e almeno altrettanti i livelli di lettura – che caratterizzano l’opera shakespeariana: quello reale del duca di Atene Teseo e della futura sposa Ippolita, quello incantato del bosco popolato da ogni sorta di creatura, e quello degli attori popolani che, nell’amata tradizione elisabettiana del play within the play, provano nel bosco la Lamentevolissima commedia e la crudelissima morte di Piramo e Tisbe, tutta da ridere. 

Sogno 1

Il Sogno in scena al Globe è di provato successo e si ripete ormai da tredici anni. La regia di Riccardo Cavallo, oggi scomparso, accompagna ancora lo spettacolo. Grande spazio qui, forse troppo, viene dato al versante comico vero e proprio: la strampalata e inesperta compagnia di attori che prova la commedia di Piramo e Tisbe compie numerose incursioni sulla scena e il quintetto di attori dalla parlata partenopea, capitanati dal bravo Marco Simeoli, diverte e conquista il pubblico. Ad unire il mondo naturale e quello fantastico è il succo di viola del pensiero che Puck, interpretato da Fabio Grossi, stilla sulle ciglia di Lisandro attivando la serie di malintesi tra i quattro amanti ateniesi che sarà lo stesso folletto a dover risolvere, su ordine di Oberon. Lo stesso succo, poi, consente a Titania di innamorarsi di Bottom, che ha subito intanto una metamorfosi asinina. La sua passione per l’uomo-bestia è il lato più oscuro dell’eros rappresentato nel dramma. Buona la prova dei quattro amanti ateniesi, così come quella di Titania e Oberon, interpretato da Carlo Ragone che sorprende il pubblico anche cantando. La musica, infatti, gioca un ruolo fondamentale nella messinscena: la luna che osserva quieta la fuga nel bosco e segue dall’altro gli intrecci del dramma prende vita attraverso la Casta Diva di Bellini, più volte accennata con buona pace dei puristi. Sogno 2


Scarna la scenografia – come d’altra parte lo era nel teatro elisabettiano – ma d’effetto, allestita da Silvia Caringi e Omar Toni e buoni i costumi confezionati da Manola Romagnoli. In Sogno, che non prevede parti singole da protagonista, è la buona prova corale a fare la differenza. Qui è il riso, o meglio il sorriso, a vincere sul pianto e lo stesso Shakespeare sorride della sua storia nel finale tramite Bottom, che riprese le sue sembianze umane non è in grado di spiegare cosa gli sia successo e fornisce una chiave di lettura dell’opera affermando: «Ho avuto una visione incredibile…un sogno tale che nessun essere umano può dire che razza di sogno era». La stessa idea che fornisce la voce di Oberon fuori campo, quando riprendendo le parole dello spiritello Ariel della Tempesta afferma: «Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e la nostra breve vita è circondata da un sonno».

Pasquale Pota 15-07-2019

Il Mattatoio di Testaccio riapre i cancelli ai fumetti. Dal 24 al 26 maggio torna per la sua quinta edizione l’ARF!, il festival del fumetto romano, contraltare più raccolto e introspettivo all’orgia di colori, folla e incursioni crossmediali del Romics. E si allarga anche lui ma per dare più spazio al fumetto indipendente, che fin dalla prima edizione è stato il Nord della sua bussola: lo spazio della Pelanda si ristruttura per dare più spazio ai talk, conversazioni che vanno a sviscerare l’essenza della vignetta con professionisti del settore, al Job ARF!, la sezione dedicata agli incontri professionali fra editori e aspiranti autori, e soprattutto alla Self ARF!. IMG 20190524 100125

Gli editori sono stati spostati nei due padiglioni, dove sono ospitate anche le mostre di Attilio Micheluzzi (“La nostalgia dei luoghi mai visti”), Giuseppe Palumbo (“Palumb-o-rama”) e Frank Quitely (“All Star Quitely”). I veri protagonisti della fiera sono loro, gli autori indipendenti che si auto-producono e si prendono non più il cortile ma tutto lo spazio all’ombra della Pelanda – una grazia non da poco, mentre il sole ricomincia a picchiare più forte alla fine di un maggio tutt’altro che primaverile. Loro e le tavole di fumettisti magari meno conosciuti al grande pubblico ma con tutte le carte in regola per farsi apprezzare anche dai non addetti ai lavori.

L’ARF! si riconferma un viaggio nello spazio profondo del fumetto, che si tuffa oltre la superficie della pagina bianca e accompagna il visitatore nei segreti che si nascondono fra i confini instabili della vignetta. Non è solo il caso delle Masterclass – le prime tre ore del venerdì mattina se le prenderà Yoshiyasu Tamura, autore di “Fudegami”, per approfondire l’uso delle vignette e dei balloon nel rendere scorrevole il movimento e coinvolgere il lettore nell’azione disegnata. E non c’è solo la possibilità di trovarsi davvero a tu per tu, nella ARFist Alley, con i professionisti del fumetto internazionale, da Giacomo Bevilacqua a Frank Quitely, da Arianna Rea a LRNZ.

Ci sono anche i talk, appunto, come quello dedicato alla sottile linea di confine fra animazione e fumetto. “L’eternità della vignetta o la sequenza animata?” è l’eloquente titolo dell’incontro con tre professionisti che hanno lavorato a cavallo fra i due mondi della sequenza animata e della vignetta immobile: Yoshiko Watanabe (animatrice giapponese che ha lavorato sia agli albori della Mushi Production di Tezuka che negli italianissimi progetti de “La freccia azzurra” e “La gabbianella e il gatto”), Bertrand Gatignol (che si è dedicato al matte paiting per “Reinassance” e ha poi virato verso il fumetto con “Gli Orchi-Dei”) e Davide Toffolo (frontman dei Tre Allegri Ragazzi Morti).

IMG 20190524 104457A moderare l’incontro Giovanni Masi, che sostituisce prontamente Mauro Uzzeo, bloccato da un mal di gola, e si fa forte della sua passata collaborazione da sceneggiatore proprio con Yoshiko Watanabe. L’animatrice e fumettista giapponese è una veterana di lungo corso. Ha lavorato alle animazioni quando Osamu Tezuka in Giappone cominciava appena a inventare le regole di questo nuovo modo di raccontare storie sullo schermo. “Tezuka era un grandissimo artista ma un disastro come amministratore”, ricorda, motivando così anche la sua scelta di lasciare la terra del Sol Levante per l’Italia alla metà degli anni Settanta. È qui che comincia a fare la fumettista, abbandonando anche i ritmi di lavoro proibitivi a cui gli animatori giapponesi sono sempre stati sottoposti. “Diciotto, venti ore al giorno,” esclama, spiegando poi, “non tornavamo nemmeno a casa, dormivamo sotto le scrivanie”.

Bertrand Gatignol viene da un altro mondo e un’altra generazione. Classe 1977, vuole fare animazione ma ci arriva tangenzialmente, dopo aver fatto un corso di grafica che lo ha preparato, invece, al mondo della comunicazione. Si dedica al matte painting, il disegno di fondali per le scene animate, più che all’animazione dei movimenti in sé per sé e approda al fumetto perché gli dà “più libertà”. Ogni sceneggiatura è una sfida a capire come trasformare in immagini le scene più azzardate e immaginifiche ed è quella la spinta di cui ha bisogno, soprattutto contando quanto poco viene pagato per il lavoro di disegnatore.

E poi c’è Davide Toffolo, che si muove addirittura fra tre mondi, quello della musica, quello del fumetto e quello dell’animazione. La sua sfida più grande? Convincere i produttori che coniugare musica e animazione fosse un progetto sensato, ben prima che i Gorillaz mostrassero al resto del mondo che, sì, una band può avere successo anche se i volti dei suoi membri sono quelli dei personaggi di un cartone animato. Arriva in ritardo all’incontro, Toffolo, a casa di un contrattempo ma le sue parole sono in perfetta armonia con quello che i suoi colleghi hanno raccontato poco prima. Immaginare una scena prima come sequenza e poi scomporla mentalmente, fotogramma per fotogramma, prima di estrarne quelli più significativi da comporre in una tavola è un processo creativo che li accomuna. IMG 20190524 124405

Così come li accomuna la percezione che quello del disegnatore sia un lavoro che costa fatica e non sempre dia adeguate soddisfazioni economiche. Eppure, spesso proprio la staticità della vignetta permette di ragionare ancora meglio sul modo di mostrare certe sfumature dell’animo umano, senza l’ausilio dei suoni, della musica, delle voci e del movimento. Ma la pagina bianca li spaventa, più dei limiti in qualche maniera rassicuranti che l’animazione impone? Yoshiko Watanabe è sicura di no, ha sempre avuto un approccio molto spontaneo al modo di riempire la gabbia delle vignette. A spaventare Gatignol, invece, è il pensiero della mole di lavoro che lo attende, ogni volta che una nuova sceneggiatura siede sul suo tavolo e gli impone un grande sforzo di immaginare come sistemare tutte quelle scene.

Davide Toffolo ha paura della pagina bianca, sì, ma il fumetto gli permette di sperimentare al punto da smontare la sequenza lineare degli eventi e giocare a creare storie che si chiudono nei quattro angoli della pagina bianca, che diventa l’unità prima della narrazione. Sta poi al lettore assemblarle anche in un ordine diverso da quello in cui le pagine vengono messe in fila, fruendo della storia in maniera totalmente nuova e personale. Insomma, c’è poco da fare: quella del disegnatore di fumetti è tutt’altro che una vita facile ma le soddisfazioni creative che dona ai suoi autori ripagano almeno in parte l’ingrata fatica.

Di Ilaria Vigorito, 24/05/2019

Una schiera di spose, disposte su un lato della sala e rigorosamente vestite di bianco, accolgono il pubblico del teatro Marconi di Roma per la prima di "Tu non mi farai del male", spettacolo scritto da Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi e dedicato a Pippa Bacca, la giovane artista performativa tragicamente scomparsa il 31 marzo 2008.

Tra le braccia le spose stringono dei cartelli con sopra riportati una serie di valori – fratellanza, condivisione, solidarietà – che esprimono il senso di quel progetto, Spose in viaggio, intrapreso insieme a una compagna l’8 marzo 2008, giornata internazionale della donna, e mai portato a termine. La performance prevedeva un tragitto interamente in autostop da Milano a Gerusalemme attraverso undici paesi toccati dalla guerra, undici come i veli degli abiti nuziali indossati per tutto il tempo dalle due; lo scopo fondamentale del viaggio doveva essere quello di lanciare un messaggio universale di pace e fiducia nell’umanità con la scelta simbolica di affidarsi a degli sconosciuti per i vari spostamenti. Ma purtroppo, dopo essersi separata dall’amica a Istanbul con l’obiettivo di ricongiungersi poi a Beirut, Pippa fu violentata e uccisa da un uomo che le aveva dato un passaggio nei pressi della cittadina di Gebze.Pippa Bacca 02
Lo spettacolo ha inizio proprio dall’ultima stazione, in «una strada deserta dove tutto sembra surreale», e rievoca a ritroso le tappe e le ragioni profonde di questo cammino, oltre a mettere in luce gli aspetti, a volte sorprendenti e altre volte contraddittori, della straordinaria personalità di Pippa. In uno scenario quasi beckettiano, seduta ai margini di una strada su un ceppo rovesciato, la protagonista – un’intensa Caterina Gramaglia – attende il suo Godot, un’utopica conciliazione tra arte e vita che sappia redimere l’umanità. Nel corso di questa attesa entrano ed escono di scena una serie di figure sospese tra passato e presente e tra l’innato idealismo di Pippa e la cruda realtà del mondo circostante: il confronto che ne scaturisce lascia emergere al massimo grado la natura eterea e naïf della protagonista, proiettata con un candido e coraggioso ottimismo verso un altrove che trascenda la malvagità dell’uomo. Una delle componenti più efficaci della drammaturgia risulta essere proprio il contrasto della ragazza con quelle presenze che faticano a intendere il senso del suo viaggio e che cercano di riportarla coi piedi su una terra per lei sin troppo arida: presenze come la cinica e pragmatica “fata” vestita di verde o come l’unica figura maschile dell’intero spettacolo, un viaggiatore che si mostra gentile, disponibile e interessato alle sorti di Pippa ma che appare incapace di condividerne fino in fondo il destino. Tutta giocata sui flashback è poi la peculiare dialettica tra la protagonista e la sua partner, il cui rapporto ondeggia ambiguamente tra complicità affettiva e conflittualità artistica e che rispecchia in parte le sensazioni contrastanti dello spettatore di fronte alla radicalità del disegno etico ed estetico di Pippa.Pippa Bacca 03
La regia di Tiziana Sensi si mantiene in perfetto equilibrio tra l’oggettività della cronaca e le astrazioni soggettive operate dalla fantasia e dalla memoria della protagonista. In quest’ottica risulta estremamente funzionale il pregevole lavoro di mescolanza tra luci fredde e calde e, ancora di più, l’uso poetico di un separé trasparente come elemento scenico per restituire la simultaneità dei differenti piani temporali. Infine, in questa congerie di simbolismi, appare centrale il colore verde, segno cromatico ricorrente e delicata metafora della creatività della performer.
Lo spettacolo si rivela come un sincero, toccante e coinvolto omaggio all’arte e alla persona di Pippa, solo a tratti indebolito dal didascalismo di alcune battute, presenti in particolare nei dialoghi con la sopracitata figura maschile. Tali sbavature sono comunque irrilevanti dinnanzi all’efficacia con cui vengono risolti i momenti di maggior tensione drammatica: su tutti spicca il tragico epilogo dove viene scelto di non dare un volto all’assassino, trasformandolo in un’autentica allegoria del Male, e di non rappresentare in scena il martirio della protagonista, evitando così qualsiasi facile sensazionalismo.
Opera di forte impegno civile, Tu non mi farai del male può essere riassunta nel suo senso più profondo e nella sua urgenza poetica e politica con una delle frasi più emblematiche pronunciate da Pippa: «L’arte per me, per gli altri, è un modo per diventare persone migliori».

Piero Baiamonte
Francesco Biselli
Emanuele Bucci
Maria Vittoria Guaraldi

10/05/2019

Pagina 3 di 12

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM