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“Sahara”: il racconto del mondo sulle pietre e sui volti fotografati da Häberlin

Sahara”, visitabile fino al 12 marzo presso il Museo di Roma in Trastevere, è una mostra (im)mediata, dove le emozioni sono veicolate unicamente dalla potente carica espressiva delle immagini e dall’impulso al viaggio e alla conoscenza. Le fotografie sono quelle scattate tra il 1949 e il 1952 dal fotografo svizzero Peter Werner Häberlin attraverso l’Africa Centrale e Settentrionale, alla scoperta di scenari inediti e affascinanti. Quattro temi tracciano delle direttrici sulle quali potersi muovere: l’assoluto, il quotidiano, le geometrie e la memoria. Quattro sezioni che si compenetrano, alla scoperta di luoghi arcani e intrisi di vita.Sahara2
Gli elementi che colpiscono subito sono gli spazi sconfinati, in cui la prospettiva gioca un ruolo dominante nel suggestionare l’osservatore, che percepisce i propri limiti al cospetto di un paesaggio senza inizio, né fine o punti di riferimento. Per mezzo di un obiettivo, Peter Werner Häberlin mette a nudo il rapporto dialettico che si instaura tra uomo e natura e, in numerose foto, l’elemento antropico si mescola con quello naturale: un albero frondoso accoglie i mercanti nel fresco della sua ombra, un bambino e un asino volgono lo sguardo in direzioni opposte, le mura di cinta della città di Melika si innestano, tinteggiate di un bianco accecante, sulle rocce scure e levigate. Tutte queste immagini, apparentemente dissonanti, in realtà trasmettono armonia, un senso di serenità e pacifica coesistenza.
Orientarsi è possibile, a patto di seguire i volti ritratti, le rughe e le cicatrici, su cui è possibile percorrere l'intensità dell'esistenza umana. Un atipico atlante che documenta come i luoghi non siano così dissimili dalle persone: segnati dalle sofferenze, dalle esperienze e, soprattutto, dallo scorrere del tempo. Lo sguardo del fotografo decide di posarsi Sahara4sull’umanità per coglierne il suo valore assoluto: a partire dai rapporti gerarchici, mostra una solennità quasi parodistica fatta di cavalieri, guardie del corpo e capi villaggio ritratti con le proprie armi. Fa da contraltare a questa raffigurazione la profonda spiritualità degli imponenti monumenti funerari che rimanda all'eternità e a una percezione più profonda, in grado di travalicare il potere temporale. Le società vengono immortalate nei loro aspetti più quotidiani e, allo stesso tempo, misteriosi: lo sguardo di un occidentale si posa su mercanti di spezie, bambini pastori, lavoratori impegnati nell’estrazione del sale e studenti che trascrivono il Corano. Nel morbido fluire di spazio e tempo, particolare rilevanza assumono le immagini del femminile, manifestazioni di pura bellezza matrilineare: dalle donne del Ciad adornate con vistosi monili, alle anziane intente a tessere o a preparare i piatti tradizionali per giungere, infine, alle due ragazze algerine che posano con la grazia di mannequins all’ingresso di un caffè arabo.
In questo vivacissimo mosaico, i berberi si mescolano con le tribù montane e religioni tra loro molto distanti si ritrovano l’una accanto all’altra, immortalate in un incessante dialogo. E proprio l’integrazione è il messaggio e l’invito che emerge da questi scatti fortemente evocativi. Sensazioni primitive come la solitudine, la gioia, il senso del sacro o del materno investono l’osservatore per ricordargli che l’altro non è la minaccia, ma la vera fonte di ricchezza.

Letizia Dabramo 05/02/2017

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