Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

×

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 701

Print this page

Inquieto diletto: una lezione ontologica di Massimo Cacciari sul terrore destato dall’arte

Roma – Sabato 23 febbraio, presso l’Auditorium MACRO ASILO, si è tenuta la lectio magistralis del professor Massimo Cacciari sul tema “Arte e terrore”; un dissidio inconciliabile ma assolutamente necessario sin dalla nascita della tragedia. Proprio dal teatro greco è inevitabile che parta il focus sulla paventata partecipazione dell’uomo al fenomeno artistico. Leggendo il celebre passo della Poetica di Aristotele, Cacciari ci ricorda la definizione di tragedia: una mimesi - non intesa come semplice riproduzione passiva - di un’azione che suscita fòbos ed éleos. Un duplice e ambivalente sentimento che il filosofo analizza in primis linguisticamente per poter giungere a una concezione teoretica: la lingua come angolazione unica e irripetibile sul mondo. Da ciò l’attenzione sulla traduzione data dal filosofo illuminista Gotthold Lessing di éleos – letteralmente “misericordia” – in mitleid, un sentimento di piena con (“mit”) passione (“leid”). Una compassione intesa come partecipazione attiva dello spettatore, il théros, da cui la parola teoria, ovvero osservazione critica e analitica della realtà. Tutto ciò, tuttavia, non può prescindere dal senso violento del fòbos che – come spiegato dal filosofo veneziano – ha la stessa radice linguistica della parola feùgo, io fuggo. La fuga è dovuta al terrore, che ricorda il tremore, ma ha affinità etimologiche anche con il verbo greco trépein, il rivolgersi. Senza terrore autentico non può esserci il trepein, il rivolgersi alla scena che osserviamo. Il dramma suscita una strana dialettica: un sentimento di repulsione e di attrazione misericordiosa verso il destino dell’eroe, verso l’universale fato, dato che la tragedia mette di fronte alla possibilità che la casa si rivolga all’inospitalità, allo spaesante; “la negazione della dimora”, come afferma Cacciari. Da questo possiamo desumere che la tragedia è il massimo esempio ontologico tra arte e terrore.
Ma non è sempre così. Il tema del terrore, evidente nel dramma classico, è presente come invito alla compartecipazione al dolore da parte dell’arte, ma difficilmente accettato. La concinitas del bello nell’arte è solo una visione prettamente scolastica. Il professore invita a leggere attentamente le ultime pagine di Winckelmann per notare la tensione drammatica nel suo rivolgersi all’arte classica, su cui già si rifletteva con profonda inquietudine sin dalla sua origine. A tal proposito il filosofo introduce il Platone estetico, fonte inesauribile per Hegel e Nietzsche, promotore del pensiero insormontabile sul conflitto tra arte e filosofia. Dalla disquisizione sull’estetica di Platone, emerge una visione dell’arte trascendente al giudizio razionale, il logos filosofico. Le arti per Platone sono ospiti illustri che non possono essere accolte nella polis del filosofo. L’arte è straordinaria in quanto nasce da uno stato folle, un trauma meraviglioso sorto da una mania poietikè, da una mimesi che non da soluzione. La filosofia, invece, esige una soluzione, ha il dovere razionale di rispondere al trauma generato dalla paura dell’arte. Questo dissidio è la palaia diafòra di cui si parla nel Simposio, l’antica questione: l’inganno dell’arte ci fa tremare perché è fuori dall’ordinario. Questo, secondo Cacciari, è la più conturbante eredità lasciata da Platone alla filosofia contemporanea; un inconciliabile topos fuori dal tempo. Proprio per la sua natura topologica, anziché cronologica, il professore evidenzia l’esigenza nel secolo XIX, quello del sublime quale momento del timore, di non poter far a meno della lezione del Simposio. Citando Nietzsche ed Hegel, apparentemente agli antipodi nella linea rivoluzionaria del pensiero di quel secolo, riflette sui diversi approcci dei due filosofi tedeschi alla via platonica. Secondo Cacciari, Nietzsche è l’unico che ha colto perfettamente la visione fallace dell’arte espressa dal filosofo greco, il dissidio ontologico tra mimesi e realtà, tra ciò che è e ciò che non è; non in termini parmenidei, ma seguendo una linea trasversalmente opposta al logos filosofico: non si può essere contro la metafisica senza essere artista. L’inganno, lo straordinario e l’inquietante vanno oltre il giudizio filosofico. Audaci e attuali considerazioni da chi scomparve nelle tenebre della follia. Hegel, invece, comprende la storia dell’occidente di liberarsi dall’impegno mimetico: l’arte romanza, intesa da Cacciari come eredità dell'arte romanica, mostra la contraddizione, non la conciliazione, tra umano e divino. Ma la più grande beffa della filosofia – sostiene il professore sulla scia del filosofo tedesco – è credere di risolvere questo dissidio. L’arte ha a che fare con la morte, con il trapasso tra l’idea e l’esistenza. Non si cristallizza né nel divino, né nell’umano. In questo suo trapassare vive e rifugge da qualsiasi luce in un’eterna notte del mondo in cui ognuno sta sospeso con lo sguardo penetrante e inquieto verso una fantasmagoria di immagini. Una lezione rivelatrice di due archetipi diversi confluiti in un'unica e irreversibile dialettica, aldilà delle esperienze e dei contesti differenti.

Piero Baiamonte