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Ahmed e Bassiri al Macro Testaccio: se l’Arte è materiale, c’è materiale per parlare di arte

L’approccio medio del nostro paese all’arte contemporanea, tendenzialmente, si risolve in un compiaciuto e autoassolutorio: «il mio falegname con trentamila lire lo faceva meglio». Come se ogni artista che si allontani dal figurativo altri non fosse che un pretenzioso ciarlatano con la vocazione a escludere dal godimento estetico dell’opera d’arte, la maggior parte della popolazione.
Non è così; non sempre almeno. Lo dimostra la bella rassegna al Macro Testaccio dedicata a due artisti mediorientali: Faig Ahmed e Bizan Bassiri. Il primo, classe ’82, è nato a Baku. Dell’Azerbaigian, riprende tutto il patrimonio tradizionale: dal pensiero Sufi all’artigianato tessile. Il secondo, è nato a Tehran nel 1954, ma vive in Italia – fra Roma e Siena – da più di quarant’anni. È autore del concetto di “Pensiero Magmatico” che, nel suo lungo percorso artistico, traduce in manifesti ideologici e creazioni tangibili.
Il padiglione che ospita Faig Ahmed permette di conoscere il lavoro dell’artista a più livelli: il suggestivo colpo d’occhio dell’enorme installazione centrale (Wave, 2016), l’insospettabile crasi fra tappeti e digital art (due su tutte Liquid e Double Tension, entrambe del 2014) e schermi che accolgono contributi video dalla doppia valenza. Questi brevi filmati infatti sono sia opere in sé, sia dei making of che spiegano la genesi di alcune delle installazioni presenti. E quando una di queste ospita nell’elenco materiali termini come «woolen carpet, nails, blood», il tutto si rivela terribilmente utile alla comprensione.
A dieci passi di distanza, troviamo l’esposizione di Bizhan Bassiri. A parità di spazio con il suo collega, l’artista italo-persiano sceglie di mostrare un’unica, gigantesca, installazione. Si tratta de La riserva aurea del pensiero magmatico: trentadue erme ricoperte di zolfo a vigilare i dodici bastoni, le sei serpi, i quattro leggii e i due dadi simmetricamente esposti all’interno del loro perimetro. Alla fine del percorso, una parete blu con un cristallo nero.
È significativo che le due mostre siano una di fronte all’altra. Entrambi gli artisti sono infatti accomunati dalla ricerca materica: ma se da una parte questa si traduce in un ineluttabile elogio della simmetria, dall’altra, ne diventa una divertita infrazione. Dove Bassiri parla di “opera riflettente”, Ahmed riflette sulla sua struttura: così l’uno reifica un concetto, l’altro decostruisce l’oggetto.
Chi si lascia alle spalle l’enorme scheletro dell’ex mattatoio dove si tiene la mostra, si ritrova nella trafficata Testaccio fatta di tentativi di gentrificazione, bar che sopravvivono dagli anni ’70 e il murales di Roa a divorare la facciata di un altrimenti anonimo palazzone. Fuori dalle riserve indiane che accolgono convenzionalmente le opere, l’arte continua, per chi vuole leggerla. Altrimenti, «il mio falegname con trentamila lire lo faceva meglio, va’, non ha neanche le unghie».

Eliana Rizzi 10/02/2016

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