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PADOVA – Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di vedere quasi tutti i lavori firmati da Bruno Fornasari, sempre con il fidato Tommaso Amadio al suo fianco, e targati Filodrammatici di Milano. Appunto quasi: da “Nerds” fino a “S.U.S.” passando per “La Prova” o “Martiri”. Una scorpacciata alla quale mancava all'appello proprio questo “Mattia”, primo testo che li aveva proposti alla ribalta e che adesso è stato ripreso da due differenti cast (dieci componenti per gruppo) di giovani come prova d'esame della triennale Accademia Teatrale Carlo Goldoni dello Stabile del Veneto. Mattia, dal “Fu Mattia Pascal” pirandelliano, è sì una trasposizione dal romanzo dell'autore siciliano ma asciugata, resa contemporanea, alleggerita, snellita da tanta polverosità anacronistica.

30.JPGE' possibile rifarsi una vita? Oppure se sia lecito o ragionevole o anche solo giustificabile chiedersi, dopo essersi costruito una posizione, una casa, una famiglia, un lavoro, se ci sia ancora uno spiraglio, una porta aperta per non essere più quello che abbiamo per tanti anni voluto essere. Ci si sente in gabbia, stretti, soffocati e la voglia di fuggire fa capolino. Ci sono tantissime agenzie oggi che ti possono aiutare a sparire, a cancellare ogni traccia, fisica o virtuale, e cambiare identità, passaporto, nazione. Alcuni usano le tragedie (l'11 settembre o uno tsunami, un attentato o un disastro aereo) per prendere la palla al balzo e fare quello che avrebbero sempre voluto fare: mollare le proprie credenziali e provare ad essere qualcun altro altrove.

Dicevamo, il desiderio è lecito e comprensibile, realizzarlo complicato e spesso si incappa in una serie infinita di nuovi reati. Ma andiamo per ordine, la nostra storia si svolge tra l'inizio degli anni '70, il '97, e il 2010, in tre focus che si rincorrono, finestre che si aprono e velocemente si richiudono in questa che sembra una ricostruzione dei fatti accaduti, in un'esposizione frontale che ammicca al pubblico, lo tira dentro, lo coinvolge, lo istiga a prendere posizione, ad immedesimarsi. Una coppia sposatasi troppo in fretta, due figli, una madre in coma, debiti accumulati per sopperire insoddisfazione e frustrazione con oggetti inutili, e tutto che rotola verso una destinazione già scritta alla quale Mattia (nella versione originale era interpretato da Tommaso Amadio, alter ego di Fornasari sul palco) si ribelle, pone un freno, vuole scendere dal vagone in corsa. E' possibile cambiare scenario e panorama o siamo condannati per sempre a trascinarci dentro situazioni che volevamo ma che adesso, a distanza di anni, sentiamo che non ci appartengono più? E' più coraggioso, o vigliacco a seconda da dove lo si guarda il problema, resistere e annullarsi, appiattirsi, inaridirsi su ruoli ormai sfibrati, o sparigliare le carte e mettere in discussione tutta la propria esistenza? E qual è il nostro “lato oscuro”? Quello che ci fa morire prima del tempo in un ruolo non più nostro o quello che ci vorrebbe felici in una situazione diversa da quella che stiamo vivendo ma che abbiamo paura anche solamente a pensare di poter cambiare?

A MATTIA-SITO.jpgquesta solida costruzione, chiamiamola i “mattoni” che compongono la drammaturgia, Fornasari (una scrittura mai lineare, una lingua sempre alta e popolare, mai scontata né prevedibile, il ritmo e l'ironia intelligente che contraddistinguono i suoi testi) riesce ad aggiungere piccoli tocchi sparsi di umanità, di visceralità senza scadere nel sentimentalismo, colpi seppiati di ricordi, pennellate nelle quali riconoscersi, minuzie disseminate come trappole, come zucchero a velo, dettagli che ad un primo sguardo possono sembrare inutili, laterali, comprimari, collaterali o che non aggiungano sostanza al plot centrale ma che al contrario fanno quella “calce” che cementa i momenti, che lega le scene, che compatta le temporalità, che comprime, che dà tutt'altro tono e riesce a sferzare colpi come a distribuire carezze amare, farci scivolare nella nostalgia, farci cadere nel buco di Alice, farci, per un attimo, scordare il fusto centrale dell'opera, l'idea originaria sulla quale tutto si fonda. Piccoli momenti che destabilizzano e ci portano in altre dimensioni, piccoli momenti di letteratura; l'orologio Casio che da delizia si fa croce, la digressione sul divano (unico oggetto in scena) che da pezzo d'arredamento diviene feticcio sacro, l'ingresso a piedi uniti dei Doors e l'iconica frase di Jim Morrison che ci rimbomba: “Meglio bruciare subito che spegnersi lentamente”.

Il nostro è un mondo in prestito, il nostro tempo è un prestito, i vestiti che teniamo per poco e poi dimentichiamo, gli oggetti64.JPG, i sentimenti, le persone, tutto è momentaneo, come un grande temporary shop. Il “per sempre” ha cambiato significato, ora vuol dire per adesso che è tutto quello che abbiamo nella nostra programmazione che non arriva mai così lontano nel tempo, nelle settimane. Perché? Perché non si sa mai. E allora godi, spendi alla ricerca di quella felicità che non puoi trovare pensando che tutto sia in prestito (quindi non gli dai la giusta importanza), che se lo perdi lo puoi ricomprare, che se i rapporti si interrompono fai spallucce e dici che chiusa una porta si apre un portone. Niente ha più senso, tutto è più vuoto e fa eco e ci fa paura. Ci vuole coraggio per uscire dal giro, per lasciare il tavolo da gioco, per abbandonare il sistema e non sentirsi più un ingranaggio di una macchina che deve solo macinare. Un'anatomia prima di un incontro poi di un matrimonio, di una sparizione, di una vita, del come, a valanga, tutto possa andare a rotoli senza nemmeno accorgersene nelle pressioni della vita moderna costellata di routine e mutui (parallelismi con il romanzo “Colibrì” di Sandro Veronesi) che stringe sempre un po' di più il suo cappio.

La vita per Fo45.JPGrnasari si divide tra momenti sentimentali e attimi speculativi. Ai monologhi drammatici (quello finale ha una marcia in più) si alternano costruzioni collettive, alle scene intime fanno da contraltare le coreografie (di Marta Belloni) in un'altalena veloce di sensazioni che non lascia comodi, in un ping pong che scuote e tiene incollati. Impossibile non riconoscersi in quel bivio, in quel pensiero che prima o poi ci prende, ci è venuto o arriverà. Tra gli allievi sottolineiamo nel primo cast le presenze di Federica Fresco (Vale), Gianluca Pantaleo (Mattia) e Andrea Sadocco (il croato), mentre nel secondo Angelo Callegarin (Mino), Imma Quinterno (Vale), Gaspare Del Vecchio (Bustros). Nuova linfa per il teatro.

Tommaso Chimenti 29/09/2020

TODI – Dal santuario della Consolazione, blocco-mausoleo che fa della stabilità e della solidità il suo biglietto da visita, si sale su per una strada dolce in salita tra campi, prati e in lontananza si affaccia allo sguardo, sempre più grande e vicina, sbucando dai rovi e tra le frasche, nel suo skyline di pietre assolate e di tetti pieni di Storia, Todi, così piccola e maestosa e così carica che ci sembra di respirare il suo passato. Mentre saliamo alla nostra destra spunta un monumento ai caduti del mare, strano Todi è 410 metri sul livello del mare e l'Umbria non ha sbocchi sul Mediterraneo. Tre i punti nei quali racchiudere lo scrigno di Todi et amo: appunto la Consolazione (lì accanto un grande parcheggio, con navetta annessa gratuita, fa sì che il centro della cittadina umbra sia praticamente pedonale e auto free, questa si chiama lungimiranza politica e progresso ambientalista per una vivibilità a misura d'uomo), arrivando in paese sulla destra La Chiesa di San Fortunato con la sua facciata imponente e i suoi gradini irti, fino a Piazza del Popolo che si apre rettangolare e finisce con la Cattedrale della Santissima Annunziata. Su questi tre punti si tessono le fila a ragnatela, i punti cardinali per tratteggiare (impossibile perdersi) percorsi e sentieri, rigorosamente a piedi, linee dentro e fuori le mura spesse che danno certezze possenti come le viuzze a perdifiato in discesa fino al Convento delle Clarisse (ben quattro i conventi in Todi; chiesa e arte si intrecciano prepotentemente) residenza per gli artisti del festival Off.

Al Todi Festival (3-6 settembre; diviso in maniera intelligente tra la parte indipendente, l'Off appunto gestito dal Teatro di Sacco, Roberto Biselli e Biancamaria Cola, con gli spettacoli nel tardo pomeriggio nello spazio del Nido dell'Aquila, e il cartellone ufficiale diretto da Eugenio Guarducci con le piece serali al Teatro Comunale) si respira un'aria buona, di scambio, d'intesa, con quella vicinanza che è data proprio dall'informalità del luogo dove tutto raggiungibile, tutto a portata di mano. Due rassegne per un unico festival, due diverse concezioni dentro un più grande e ampio contenitore, due modi di intendere il teatro che si compenetrano, si danno manforte, aggiungono l'uno l'altro, si assommano senza togliere niente: una grande intuizione. 00057BF3-andrea-pennacchi.jpgL'Off (il cui titolo di quest'anno era “Futuro Anteriore”) inoltre ha creato anche una mappa di interessanti laboratori-mastarclass con Elena Bucci, Michele Sinisi, Letizia Russo, Lino Strangis, un'alta formazione di workshop e seminari. Una kermesse con un'anima profonda, non solo la bidimensionalità degli eventi. Un clima disteso, positivo dove tornare con piacere. Un respirare nuovo che riempie polmoni e retine. Un'Umbria mai ombrosa. L'Umbria al centro tra Toscana e Roma, qui dove le cose accadono, dove vengono pensate e portate alla luce: la mente vola a Luca Ronconi o Peter Stein, a Brunello Cucinelli. Qui puoi incontrare Ida Di Benedetto e Laura Chiatti con il marito Marco Bocci, o Lorella Cuccarini madrina di un convegno su Jacopone, insieme al Professor Franco Cardini. C'è fermento frizzante e quella cultura mai troppo imbellettata né compunta, mai troppo allacciata e istituzionale, mai troppo legata e incravattata e formale, ma scorrevole e fluida, professionale, competente, seria ma mai seriosa. In quest'ottica il simbolo di quest'anno è un lecca-lecca con all'interno la città, da scartare come un regalo da bambini, dolce e gustoso desiderio.

Cominciamo la nostra analisi dalla proposta di Andrea Pennacchi (incrociato fuori dal teatro con la mascherina che ritrae il Bardo), da un anno volto conosciuto al pubblico nazionale per la sua striscia settimanale all'interno del programma di Zoro “Propaganda Live” riuscendo nel tentativo di sdoganare, nei suoi racconti amari e agrodolci di crisi economica e valoriale, leghismo padano e provincialismo culturale, il veneto come lingua (rendendola contemporanea e slegata da Arlecchino e dalla Commedia dell'Arte) dandogli rispetto e sostanza, fuori dai soliti cliché biechi e campanilisti. In una sorta di conferenza stampa, con microfoni e un pulpito per gli interventi, quasi un radiodramma sull'“Enrico IV” dove Pennacchi, anche per il phisique du role, è Falstaff ma anche la voce narrante, e al suo tavolo siedono il giovane rampollo della casa reale (Riccardo Gamba, s'intendono alla meraviglia), un'attrice anglofona che legge in inglese donando accenti e pause e sospensioni nella lingua d'Oltremanica (bella intuizione, per niente scontata, Jenni Lea Jones), un musicista (Giorgio Gobbo sempre sul pezzo) che, con la sua chitarra, ci porta dentro quelle cupe atmosfere attraverso Leonard Cohen o gli Oasis, De Andrè o “Personal Jesus”. Perfetto per le scuole superiori, per svecchiare la polvere, perfetto per i ragazzi di ogni età, quelli che ancora, andando a teatro, vogliono ridere, gioire, divertirsi nel più alto e ampio senso, riflettere, giocare ascoltando. Perché l'“Enrico IV” parla si di potere ma anche di amicizia, di tradimenti, di vita, di quella teorica e di quella pratica, parla di crescita, di formazione. Pennacchi (a metà settembre sarà a fianco di Paola Cortellesi su Sky nella serie “Petra” mentre in questi giorni sta girando una serie Netflix su Roberto Baggio dove interpreterà il padre del campione di Caldogno) s'infiamma cinghialesco (suo simbolo per antonomasia), è un rugbista prestato al teatro, di quelli che in una rissa vorresti sempre avere al tuo fianco. Ci ha ricordato alcune esperienze di Marco Paolini con il gruppo dei Mercanti di Liquore. Diviene ben presto un concerto folk, dove Pennacchi si muove, agitandosi con forza, da capo ultrà, pogando ruvido a gomiti alti, che sembra proprio di essere in un pub di Liverpool, di quelli senza tanti convenevoli, di quelli dove il rispetto te lo guadagni sul campo a suon di pance e boccali di birra alla spina. Si sprecano i “mona” come i “boccia” ad infarcire dialoghi in equilibrio tra la commozione che genera la vita e l'ironia sulle nostre fragilità. Un racconto umano, umile per un interprete a tutto tondo, pieno, sanguigno, onesto, che non delude mai: “I do, I Will (Shakespeare)”.

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Curiose le tre opere intercettate da Roberto Biselli per comporre il puzzle della sezione Off, cominciando da “D.N.A. Dentro la Nuova Alba” a cura del Gruppo della Creta, testo presuntuoso a cura di una compagnia al contrario affatto saccente. Un tentativo, certamente plaudibile e plausibile, però troppo pieno con infinite deviazioni e divagazioni che facevano perdere il senso di quello che stavamo guardando. Tre le storie principali che si intrecciavano: due malate psichiatriche legate con camicie di forza in un futuro distopico, un Ministro molto salviniano, due migranti che dallo Yemen si spostano nel deserto, per non parlare dei tre Dei, Plutone, Urano e Nettuno che “giocano a dadi” con il destino degli uomini oppure degli intermezzi di un comandante di un aereo che entra a sorpresa fuoricampo con i suoi dettagli di volo, per non parlare del “teatro nel teatro” o meglio il teatro che parla del teatro con una lavagna dove vi sono appunti su un Amleto paragonabile ad Agamennone. Tutto è spruzzato di fantasy. Se il racconto della ragazza internata si poteva pensare che potesse provenire da una qualche cronaca, sembrava che confermasse questa tesi il medico (Alessio Esposito, di una lunghezza sopra gli altri) con la sua verbosità prolissa di note a piè di pagina, documentazione d'archivio e teorie psicanalitiche, le altre storie non trovano nessun appiglio, nessuna convenienza per restare all'interno dello stesso plot (1h 40', lunghezza eccessiva). Tutto è veramente frastagliato, debordante al limite del fastidioso, eccessivo, per una scrittura ricca e barocca ma che aveva necessariamente bisogno di tagli netti e di una regia più sicura e decisa. Con il volume pastoso della drammaturgia si potevano tranquillamente sviluppare tre spettacoli più coerenti. 

L'autore, Anton Giulio Calenda, figlio del regista Antonio, dice di rifarsi a Foster Wallace. Ma troppi pezzi e brandelli vengono dati per scontati a discapito di una minima comprensione. Scrittura corposa, dispersiva, troppo compiaciuta che rema contro la messa in scena, e schiaccia il lavoro attoriale ingabbiandolo, che diviene faticosa per la platea per un mosaico scomposto e complicato. Una continua aggiunta che ci lascia perplessi e dubbiosi. Less is more.

Affascinanti giochi di sguardi e riflessi il “Christophe” di Nicola Russo dove l'autore diventa un clochard tunisino a Parigi che dialoga con il se stesso, in terza persona, con il ragazzo italiano che era, in un doppio binario67 di personalità, di scambi esistenziali, una narrazione che s'intreccia tra autobiografia e il vedersi attraverso gli occhi dell'altro come in uno specchio per raccontarsi da dentro, da dietro, oltre sé, in questo dialogo dove è sia oggetto che soggetto. Uno strano incontro a Parigi tra un “barbone” (da testo) e un ragazzo occidentale, siamo nel '95, che, in qualche modo, tanto o poco, cambierà, almeno sposterà le vite di entrambi: per Christophe (che si definisce, con un errore grammaticale voluto, “il straniero”: la mente non può che andare a Camus) sarà il germe che esiste ancora un'umanità pronta a parlargli, a considerarlo una persona, per Nicola venticinque anni di macerazione interiore che lo hanno portato a questa creazione intima, confessione ed espiazione, restituzione e perdono in questa triangolazione, in questo nostro mondo dove sarebbe sempre fondamentale mettersi nei panni dell'altro, nel momento dell'incontro dell'altro con noi stessi visti con occhi altri, appunto di un regista nel registro dell'immedesimazione, del ricordo, della nostalgia della scrittura creativa. Le lettere che si sono scritti, vere o presunte, sono la testimonianza che l'arte ci salverà, che l'altro non sempre è foriero di pericolo, che tendere una mano aiuta in eguale misura sia chi la dà che chi la riceve.

D'impatto Clitemnestra.jpganche “Parla, Clitemnestra!” dove lo scontro di genere sale sul banco degli imputati. La donna del Mito con un coltello in mano si aggira, come uno squalo, come un piranha, come un barracuda, attorno alla preda, all'uomo, al maschio alfa, Agamennone, che l'ha tradita, delusa, comprata, che le ha ucciso i figli. La donna non vuol più stare zitta e in disparte, non vuole più subire violenze e angherie. Ha legato l'uomo che non può far altro che ascoltare minacce e reprimende, chiedere perdono, scusarsi senza troppa convinzione. Lei (Simona Senzacqua sempre più Sofia Loren-Ciociara) è un boia duro, un carnefice che non farà, si pensa, sconti al suo prigioniero, Lui (Gabriele Benedetti) è legato, umiliato come un Cristo sacrificato sull'altare su questo trono rialzato, patibolo medievale, in questa sorta di pubblica gogna, tortura e punizione. La tensione è crescente, il pathos è polanskiano, Lei è tagliente, Lui rincula lamentevole in una suspense dolorosa in questo confronto-interrogatorio. Il testo (di Lea Barletti) soffre della limitazione che la rima porta con sé, che la fa ben presto divenire filastrocca e cantilena, facendoci concentrare più sul suono che sulla sostanza delle parole, più sull'andamento armonico che sul contenuto. Anche quando Clitemnestra, in questo processo, cerca la nostra approvazione o chiede la nostra opinione, rivolgendosi alla platea, non lo fa mai con convinzione ma resta soltanto una pura formalità didascalica. Dal Mito si scivola nel maschilismo, da lì al femminicidio fino al populismo semplicistico, a quella retorica facile con la quale non possiamo che essere d'accordo fino al monologo finale sulla condizione della donna nella Storia ed ai giorni nostri che non riesce a dirimere l'annosa questione di genere: il problema delle donne è sempre l'uomo?

Tommaso Chimenti

La seconda stagione di Homecoming vede l’assenza di Julia Roberts (protagonista della prima) che ora figura come produttrice esecutiva della serie.
Nella prima stagione Heidi Bergman (Julia Roberts) è una assistente sociale che lavora per Homecoming, un programma del Geist Group che si occupa, attraverso trattamenti innovativi, del reinserimento sociale dei veterani di guerra affetti dal PTSD (Disturbo da Stress Post Traumatico). Almeno questo è ciò che sembra inizialmente, tanto agli spettatori quanto alla stessa Heidi con cui l’empatia è forte. Tuttavia la dott.ssa Bergman finirà per abbandonare il suo incarico per indagare sulle reali procedure dell’azienda fino a fare scioccanti scoperte.

La seconda stagione di Homecoming comincia da questa premessa, il fil rouge che la collega alla precedente è il mistero che aleggia intorno alla Gesit, incarnato dal personaggio di Walter Cruz (Stephan James), ex soldato sottoposto ai trattamenti dell’azienda, con un vuoto di memoria circoscritto a un periodo ben preciso della sua vita.
Homecoming 2 si apre con un’inquadratura dall’alto, il cosiddetto punto di vista di Dio su una barca fluttuante in mezzo al lago, con a bordo Alex (Janelle Monàe) che riprende coscienza in preda al panico.
La seconda stagione della serie è completamente narrata attraverso flashback e salti temporali degni del miglior Christopher Nolan che danno vita a una costruzione narrativa basata sulla tecnica del puzzle o Mind-Game Film (es. Memento, Mulholland Drive); ovvero una scrittura a ritroso che svela gli eventi della storia, mettendoli insieme poco a poco.

Il ricorso allo split screen appare utile sia alla ricostruzione del caso sia a sottolineare i momenti di distanza, fisica ed emotiva, tra i personaggi. La regia è caratterizzata da fluidi piani sequenza con impennate di zoom in avanti che restituiscono alla serie una estetica tipicamente anni Settanta. La colonna sonora (di Emilie Mosseri) conferisce una "overdose" di suspense perfettamente calzante alla narrazione, con musiche ora caratterizzate da un pianoforte che predilige le note alte creando inquietanti nenie, ora da archi e synth che rimandano alle colonne sonore composte da Bernard Hermann per Hitchcock ma anche ai più recenti film di Jordan Peele (Scappa - Get Out e Noi). Frequenti i raccordi sul sonoro atti a generare delle interruzioni drammatiche come la brusca chiusura di una porta, l’arrivo al piano dell’ascensore, il riaggancio del telefono, la fiala lanciata nella ciotola, che ridestano lo spettatore dallo stato ipnotico in cui la musica lo ha trasportato.

Ogni episodio (lungo in media 30 minuti) si conclude con dei finali "silenziosi" dove l’azione continua durante i titoli di coda con piccoli gesti dei personaggi che rimarcano lo scorrere del tempo.
Non sono rari i momenti grotteschi come la sequenza nella serra con dei personaggi un po’ tarantiniani o l’assurdo battibecco tra Walter e l’impiegato al desk informativo.

Homecoming 2 non delude le aspettative degli spettatori. L’assenza di Julia Roberts nel cast (che conta, tra gli altri, Chris Cooper, Bobby Cannavale, Joan Cusack) è ben motivata da esigenze narrative, e l’ipotesi di un futuro ritorno del personaggio di Heidi Bergman non sembra esclusa. Homecoming 2 si presenta come una stagione "di collegamento", trascinante e ideale da guardare in binge watching, che non perde di vista l’obiettivo principale: l’indagine criminale che vede implicato il Dipartimento della Difesa degli USA.

Martina Cancellieri  31/05/2020

Da lontano, dall’alto o estremamente vicino, dettagliato. La doppia vita di Favolacce, la sua doppia ricerca nel tentativo di tradurre ogni situazione per giungere ad un solo, unico e deludente risultato: l’inconsistenza della realtà.
Nella scacchiera delle villette di Spinaceto -periferia romana- procedono esistenze di grandi e piccoli individui, già scritte e stereotipate.
I fratelli D’Inncenzo scrivono e dirigono un racconto narrato -la voce è quella di Max Tortora- ripercorrendo un diario, slegandosi da questo e dalla storia per poi tornare alla consequenzialità, o saltando da un evento all’altro.
Un apparente smantellamento dei fatti per una coerenza celata dietro la caratterizzazione dei protagonisti, impalcatura stabile dell’intreccio in scena.
Le favolacce sono gli stessi personaggi, per un modo di esistere crudele assorbito da un contesto di luoghi altrettanto tali. Favolacce 02
L’afa e il caldo torrido sono lo sfondo dei racconti neri, un cassetto di ricordi dove salta fuori l’estate viva in tutti noi: un’estate italiana di televisioni in sottofondo e cicale assordanti.
Possiamo toccare tutto ciò a cui assistiamo perché la scrittura di Favolacce è esattamente congruente all’immagine. Una storia in grado di ricreare il malessere simile al dolore dopo aver ricevuto un’inaspettata pallonata sulla pancia. Un pugno nello stomaco durante il gioco, capace di conservare i tratti colorati, ancora piacevole.
La fotografia accompagnata da un suono meticoloso crea per l’occasione un esatto paradigma D’Innocenzo.
Lo spettatore riesce ad indossare le lenti “colorate” dei fratelli leggendo ed interpretando la loro visione che, in ultima analisi, riesce a diventare pensiero comune.
I bambini di Favolacce sembrano essere già consapevoli della loro infanzia fallace, il processo complesso che si attua ed emerge crescendo: un malinconico esame della tenera età, a cui nessuno si sottrae.
Una drammaticità fatta di cose semplici, di incomprensioni alimentate dalla noncuranza degli adulti, rimasti perennemente in superficie, servita ai bambini che, di tutta risposta, in profondità scendono sin troppo.
Favolacce 03 Favolacce narra la finzione del vivere bene, di una rivincita apparente, sostanzialmente priva di credibilità.
La coerenza nei dettagli, nei ritagli, nelle luci e nelle ombre crea un disegno finale ineccepibile. Esplicitato al massimo nella prossemica di Germano, riassunto ben chiaro di figure basiche destinate a non cambiare mai.
Bruno (Elio Germano) rimane vigliacco fino all’ultimo istante del film, incapace di gestire qualsiasi tipo di emozione, raccontandosi la verità più facile.
La pellicola è uno sdegno raffinato per una narrazione ruvida dove, in maniera soffice, ci sfiora la noia estiva di una periferia difficile.
Un ecosistema a sè stante intrappolato nei cliché -che i protagonisti sono convinti di aver superato- negli automatismi sociali del “perché si fa così”, nella voluta incomunicabilità.
La favola nera di una realtà possibile ma risolvibile, se solo solo i personaggi fossero disponibili all’ascolto, in prima battuta di loro stessi.
Siamo spettatori dell’asfissiante inadeguatezza di gesti, parole, comportamenti e luoghi. Cene e momenti di aggregazioni che vorremmo finissero subito, scene presentate dall’alto o da lontano di cui avvertiamo l’estrema oppressione.
Favolacce è una storia terribilmente cruda, di protagonisti e comprimari sgradevoli per le infinite possibilità di errori da commettere.
Un grottesco e drammatico noir, opera seconda degli straordinari Damiano e Fabio D’Innocenzo, capaci di diluire veloci istanti di tragicità, smontandoli attraverso il racconto e la macchina da presa, giungendo all’identità e al perché di gesti spesso considerati sin troppo estremi.
La bellezza di queste favole tormentate è situata nei dettagli, nelle inquadrature costanti per elementi potenzialmente privi di interesse. Favolacce è una summa di caratteri validi come cartina tornasole di realtà palesi, proprio come l’arte condensata e consolidata del lungometraggio.

Il film, Orso d’Argento a Berlino per la miglior sceneggiatura, è disponibile per il noleggio su CG Digital, Infinity, Chili, Rakuten TV, Sky Primafila, Tim Vision e Google Play.

Arianna Sacchinelli 20-05-2020

FIRENZE - Era tanto che non lo facevo. Tre mesi. Tre lunghi mesi d'astinenza. Anche se questo piccolo contatto mi ha lasciato ancora più fame di prima, ancora più voglia di prima. Novanta giorni senza uno spettacolo teatrale, senza un teatro, senza una recensione. Da starci male. Ieri l'ho fatto ed è stato come, mera illusione, tornare non tanto alla normalità quanto a respirare quell'aria familiare dell'altro che, con parole e formule e gesti e parole sue, scandaglia il tuo animo lì pronto, aperto ad accogliere il diverso. Ho visto teatro, oltre che nell'edificio-teatro, in infinite modalità, dalla strada ai castelli, le torri, le piazze, nei parchi, gli scantinati, sui fiumi, le case private ma non sono riuscito, in questi due mesi, ad abituarmi alle riprese video, agli streaming, alle letture casalinghe, alle drammatizzazioni in salotto. Il teatro senza la magia del teatro, senza il buio, senza il patto tra platea e palco, quel silenzioso e tacito accordo per il quale ognuno conosce il proprio ruolo e il proprio spazio e si dedica all'altro, recitando o ascoltando, se al teatro togli quella polvere, quel non detto, tutto quello che sta tra le righe, rimane forse il mestiere, la voce, poco più. La tecnologia poi non aiuta quell'artigianalità intrinseca nel fare e nel fruire lo spettacolo dal vivo. La distanza e la non-fisicità del momento dilata il significato e lo fa diventare uno dei tanti contenuti che passano, che affollano senza sfamare, che riempiono senza incuriosire.Bosetti.jpg

Ma, come dicevo, sono tornato a teatro, o meglio a respirare, in minima parte, quell'atmosfera: l'attesa, il mistero, la scoperta di un insospettabile sipario. Chi meglio dei Cuocolo/Bosetti, che hanno fatto spettacoli in case private come nella loro, in metro, camminando per le vie, insomma in ogni luogo possibile tranne che su un palco e in teatro, poteva meglio incarnare il teatro in queste settimane magre (e lo saranno anche i mesi a venire; il teatro purtroppo, come il cinema, per gli ambienti chiusi, sarà uno degli ultimi comparti a poter ripartire; salterà anche la stagione prossima visto che ci hanno già preannunciato che ci sarà sicuramente una seconda ondata del virus nel prossimo autunno?), in questo periodo dove gli attori arrancano imbrigliati nei loro domicili senza poter lavorare e il pubblico, gli appassionati, sentono di aver perso una fetta considerevole della loro vita senza il rito della visione del palcoscenico. Avevo già assistito ad una performance simile, sempre a cura del gruppo piemontese, una decina d'anni fa al Teatro Magnolfi a Prato: “Theatre on a line” (prod. Teatro di Dioniso, stavolta organizzato dal Teatro della Tosse di Genova).

Il titolo è rimasto lo stesso ma le condizioni ambientali sono estremamente mutate dando a questa pièce contorni reali, contingenti, pressanti. La reclusione, la solitudine, la lontananza ha fatto sì che per molti di noi i pochi contatti con l'esterno fossero tv e computer mentre per quanto riguarda l'interazione sociale l'unico mezzo, per sentire e confrontarsi con parenti e amici, fosse appunto il telefono, la voce, non gli occhi ma soltanto il tono, le parole nel mezzo il filtro della “cornetta” dello smartphone. Una pièce scritta e concepita proprio per toccare le profondità dello spettatore che in quel caso abbandonava il senso della vista (non c'era niente da vedere se non una stanza all'interno di uno spazio) per affinarne altri: la memoria, il ricordo, la nostalgia e tutto quello che semplici oggetti lì a portata di mano potevano suscitare. In questo caso, visto che la scrivania non poteva essere la stessa per tutti, il canovaccio è cambiato e anche radicalmente. Roberta Bosetti.jpgE' rimasta l'attesa, l'orario preciso al quale dover comporre un numero sconosciuto, la fibrillazione del non sapere che cosa aspettarsi, il confronto uno a uno (come spesso capita negli spettacoli di Renato Cuocolo e Roberta Bosetti) che può solleticare come paralizzare, può eccitare come bloccare. Perché qui lo spettacolo si fa in due proprio se l'interazione procede, se all'azione segue una reazione, se c'è un reale, effettivo scambio di idee, se la partecipazione è sentita.

Ho composto il numero, dall'altra parte la voce di Roberta, sempre indimenticabile e presente, che è calda ed emozionante, che è erotismo ma anche confessore, che è amica e amante in un distacco che non c'è di barriere azzerate, di frontiere aperte, che riesce con pochissime parole a convincerti ad entrare nella sua modalità, in una comfort zone, in un alveolo, in una parentesi dove ogni scambio resterà, dove ogni racconto cadrà, in una intimità che come sarà creata dai due protagonisti (attrice e spettatore) morirà appena la conversazione finirà. Puoi sfruttare il tuo tempo, hai a disposizione un ascolto nuovo, dall'altra parte una figura non giudicante, puoi aprirti finalmente, puoi dire. Come si fa con gli sconosciuti anche se qui, paradossalmente, si è ancora più liberi proprio perché non esiste la dimensione visiva a guardare, scrutare. Solo una voce lontana che ci porta nel mondo dei C/B fatto di sogni che presto si trasformano in incubi, il buio, le carezze oscure, il bosco, il perdersi. E il testo prende pieghe reali, collegate al momento che stiamo vivendo, all'oggi fatto soltanto di distanziamento sociale, di mancanza di contatti, di abbracci, di possibilità di spostamenti. C'è quell'imbarazzo, quella dolce, tediosa sospensione.

Mi dice: “Chiudi gli occhi” e sembra di mettere l'orecchio su una conchiglia e sentire il mare che gorgoglia lontano ma che sembra di poterlo afferrare, tenere, prendere. Anche il silenzio risuona impressionante quando la parola si esaurisce e rimani in ascolto di un niente denso. La sua voce scivola su questo tappeto di nulla che sono state queste otto settimane da gettare nel dimenticatoio, la sua voce è uno squillo pacato, un richiamo fermo ma morbido, una chiamata, un risveglio. Sono stato a teatro, non ero proprio a teatro, ma che cos'è teatro e cosa non lo è? Per mezz'ora mi è sembrato di chiudere le palpebre e avere davanti una voce che rapiva la mia concentrazione e la mia attenzione per condurmi in altre stanze della mente, in altri palazzi della fantasia, in altri corridoi dell'esistenza. Non sono stato a teatro ma è stato comunque un assaggio, un tornare a provare a camminare, un mettere il piede nell'acqua del mare per sentire se è troppo fredda, un tastare il terreno per vedere se è possibile ancora correre, un tentativo per capire quanto ti è mancato, quanto ne vorresti ancora, di quante parole ti sei inaridito, di quante storie sei mancante, Foto spettacolo 2.jpgdi quanto ti è stato sottratto, della voglia che non si placa, dell'inutilità dello scorrere del tempo senza l'arte (e gli artisti) che ci possono accompagnare nella nostra ricerca, senza coloro che toccano la materia e la traducono in ascolto, senza quelli che oggi chiamano i lavoratori dello spettacolo.

E' incalcolabile e inquantificabile la perdita di ognuno di noi per ogni teatro chiuso, per ogni spettacolo saltato e per tutti quelli che salteranno, sarà una sconfitta ogni attore e attrice che dopo questo periodo non potrà più fare il suo lavoro (stare su un palco non è soltanto un lavoro), sarà una sciagura ogni compagnia che dovrà sparire. In gioco c'è la consapevolezza dell'essere cittadino, della polis, la formazione, l'informazione, l'abbeverarsi senza sentirsi mai sazi. Il teatro manca a tutti anche a coloro che ancora non sanno che gli sta mancando. Se ne accorgeranno.

Tommaso Chimenti 05/05/2020

Il 25 aprile “Irréversible” è entrato a far parte del catalogo della piattaforma streaming di Amazon. Vi proponiamo quindi una breve ma intensa retrospettiva.
Uno schermo nero ci accoglie. Solo nero, niente loghi di produzioni, come un presagio dell'oscurità nella quale ci apprestiamo a tuffarci. Quando tutto ad un tratto compaiono non i titoli di testa, bensì quelli di coda. Lo spettatore, preso inizialmente alla sprovvista, capisce a poco a poco, scena dopo scena, che si tratta di una narrazione a ritroso. La storia presentata non sarà quindi lineare, ma invece comincerà dalla fine per poi concludersi con quello che in teoria sarebbe l'inizio.
Dopo un significativo cameo della star del lungometraggio precedente del regista (il NoéVerse?), seguiremo le vicende del nostro protagonista Marcus (Vincent Cassel) impegnato in una dolorosa missione, una vendetta personale. Man mano che il tutto proseguirà ne capiremo le motivazioni, empatizzando sempre di più con lui e il suo alleato moralmente ineccepibile, Pierre (Albert Dupontel).
Quest'ultimo rappresenta una specie di guida spirituale con un'innato senso di giustizia e, per certi versi, puro. Un personaggio positivo e affettuoso che si contrappone a quello principale, irascibile e istintivo. Una vera testa calda.
Ma come dargli torto considerando l'orrore che ha vissuto, il motore della storia, un atto di una violenza estrema, uno stupro.
Alex (Monica Bellucci), l'attuale fidanzata di Marcus, ed ex compagna di Pierre, esce da una festa piuttosto movimentata e decide di tornare a casa sfruttando un sottopassaggio vicino. Purtroppo lo ignora ancora ma alla fine di questo tunnel non vi è luce ma solo tenebre.
Cupezza, violenza, brutalità e disagio sono le parole chiavi di questa pellicola. La bestialità dell'uomo, disposto a regredire ad uno stato animale pur di soddisfare i propri bisogni. Da una parte sul piano sessuale, dall'altra su quello della pura aggressività fisica.
Tutto questo è particolarmente sottolineato da regia e fotografia.
Riprese a mano “sporche”. Una serie di piani sequenza roteanti, dove la camera da presa cambia continuamente prospettiva. Da sopra a sotto, come per simulare gli effetti della miscela fatale tra alcool e rabbia e la confusione che ne deriva.
Una messinscena che sembra improvvisamente tranquillizzarsi, invece, nei momenti più calmi o paradossalmente più angoscianti, come la scena con lo stupratore Il Tenia (Jo Prestia).
Un succedersi di emozioni espresse attraverso le luci. Una sequenza di colori che spazia dal più pacato e raro blu, all'onnipresente giallo/arancione che sfocia nel rosso durante i tre momenti culminanti e decisivi del film. La rappresentazione visiva e sensoriale della spensieratezza, l'imminente pericolo, e la collera, l'oppressione, la depravazione vera e propria.
Un codice cromatico che ricorda fortemente quello di “Eyes Wide Shut”, diretto da Stanley Kubrick. Similitudini anche con due scene chiavi del film di Noé, la festa e il momento di intimità tra Marcus e Alex. Per non parlare della citazione diretta a “2001: Odissea nello spazio”, sempre di Kubrick, tramite un poster.
La pellicola è un pugno allo stomaco. Un'opera che affascina per la sua narrazione simile a “Memento” di Christopher Nolan, dove la posta in gioco dei personaggi sembra aumentare man mano che andiamo avanti, o tecnicamente che torniamo indietro, fino al dramma finale.
Un capolavoro “sgradevole” che ci invita a confrontarci con la parte più bassa, cruda, macabra e disgustosa dell'umanità. L'ineluttabilità del fato, del destino, una tragedia fissata nel tempo. Tempo che come dice il film stesso, distrugge tutto.

Matthieu Silvani   26/04/2020

«Il giardino deve esistere, deve essere qualcosa che si vede e si sente quasi (arrivo a pensare persino all’odore, o solo all’odore, per gioco) ma non può essere un tutto. Perché lì tutto si concentra». La complessità della messa in scena di un grande classico del teatro russo, “Il giardino dei ciliegi” di Anton Čechov, è rappresentato da queste parole di Giorgio Strehler, negli appunti per la sua regia. Al Teatro Argentina di Roma, in scena dal 25 febbraio all’8 marzo, Alessandro Serra propone la sua personalissima visione di quel giardino, filtrata da una poesia che è già insita nel testo. Una scenografia minimalista, con pochi oggetti in scena, lascia spazio ai corpi distesi dei personaggi, veri e propri oggetti di scena, che si attivano, alzandosi, uno alla volta, per entrare “davvero” in scena. Un grande lavoro sui corpi è il primo elemento stilistico del regista della compagnia Teatropersona. Nessuno è insignificante, ognuno prende posto nel ritratto sociale e familiare disegnato da Čechov e che Serra esprime attraverso le pose immobili dei gruppi non partecipi, in ogni momento definito, al drama, come se fossero in attesa di una foto. Nessun attore o personaggio è più importante dell’altro. Ognuno resta, o non resta, nella memoria dello spettatore in un suo personalissimo modo: la forza comica del maggiordomo anziano e tremolante Firs e dello sciocco possidente Simeonov- Piscik, interpretati rispettivamente dagli abili Bruno Stori e Massimiliano Poli; l’ inettitudine di Ljubov e del fratello Gaiev (Valentina Sperlì e Fabio Monti) che li ha portati a perdere le proprietà e l’amato giardino dei ciliegi; la brama di denaro del mercante in ascesa Lopachin, ruolo ricoperto da Leonardo Capuano, compatibile al suo personaggio sia nella presenza scenica che nelle proprietà vocali, aventi tratti tonali del laido senza scrupoli disposto a rinunciare a tutto, persino all’amore. L’apparente semplicità caratteriale dei personaggi viene fin dall’inizio smascherata da un uso mirato e simbolico delle luci proiettate sugli sfondi che creano un gioco di ombre in cui si esalta la dualità che convive in ognuno di loro, così proprio come in quelli di Čechov.

BRUNO STORI IL GIARDINO DEI CILIEGI regia Alessandro Serra

Eppure del giardino si sente parlare poco: se ne fa cenno nelle battute prestabilite dal testo dell’autore russo. Ma si sente poco. I personaggi lo osservano guardando in platea. Sembra che non ci sia, fisicamente. Passa poi in secondo piano quando iLeonardo Capuano Arianna Aloi IL GIARDINO DEI CILIEGI regia Alessandro Serra corpi degli attori cercano con maggiore frequenza il movimento danzante, esaltato soprattutto dal personaggio ambiguo di Charlotta (Chiara Michelini), spirito che entra in scena per muovere e agire sui personaggi nelle loro azioni, ingranaggio centrale della poesia espressa nella messinscena di Serra. In alcuni momenti inizia a diventare evidente una citazione quasi esplicita al Tanzatheater di Pina Bausch nell’uso scenografico e drammaturgico delle sedie, marca stilistica della coreografa tedesca, e soprattutto nella scena in cui Trofimov, sopra una sedia, conversando con Anja, passa da una sedia all’altra, con la ragazza che, in agitazione, gliene aggiunge una sul percorso immaginario che sta seguendo, per non farlo cadere a terra, ricordandoci una versione rivisitata di “Café Müller”. Le sedie sono oggetti preponderanti per tutta la durata dello spettacolo, elementi sfruttati con avidità dagli attori. Nel gioco delle sedie - ma non solo - si inserisce frequentemente la musica, che oscilla tra l’allegro e il malinconico marcando vari momenti della partitura testuale, di cui fanno parte anche le continue risate emesse dal “coro” dei personaggi e che finiscono per enfatizzare particolarmente l’indolenza della famiglia che sta per perdere tutto e che sembra non curarsene. Sì, sembra non importargliene realmente di quel giardino. Ma la verità è che ci ricordiamo delle cose importanti solo quando le perdiamo. È solo alla perdita definitiva, all’asta, del giardino dei ciliegi, che esso esiste, drammaticamente: Liuba resta, disperata, seduta su una sedia con luce che proietta la sua ombra. Con un gioco di luci formidabile, la donna si alzerà dalla sedia lasciando la sua ombra lì, muovendosi indipendentemente. Da una scena fortemente emotiva a una sensoriale, quella in cui Lopachin, versando la terra, vera, sul palco e lanciandola dietro di sé sul fondale, inonderà la platea di odore terreo. Ecco, si sente pure l’odore del giardino. Il giardino dei ciliegi esiste, è in scena, ed è andato perduto, insieme ai ricordi e all’amore delle parti in gioco.

Alla fine del quarto atto, i personaggi chiudono le loro azioni ritornando nella posizione supina da cui erano partiti, accanto alla terra, come se fossero piantine che si sotterrano. Sono loro il giardino dei ciliegi.

Funziona questa rappresentazione del regista: il giardino è stato rappresentato, i personaggi non sono stati banalizzati e c’è stato un lavoro importante sul lato comico di ciò che solo Čechov, inizialmente,considerava una commedia. Una comicità che risiede anche nella parte contestuale della rappresentazione in questione: per fare una versione soddisfacente de “il giardino dei ciliegi” serviva un regista di nome Alessandro Serra.

Giuseppe Cambria  26/02/2020

Il vampiro più famoso della cinematografia moderna, il conte Dracula, nato dalla mente e dalla penna del visionario Bram Stoker, arriva anche sulla nota piattaforma streaming Netflix. Al timone della serie, ci sono due nomi degni di nota, Steven Moffatt e Mark Gatiss che già hanno sorpreso il pubblico con Sherlock e Jekyll. Si dice che squadra che vince non si cambia, ed infatti i due registi ripropongono in questa mini serie la fortunata formula che già li pose sotto le luci della ribalta con Sherlock: tre lunghi episodi che possono essere considerati quasi dei film a sé stanti da un ora e mezza ciascuno, liberamente ispirati all'opera di Stoker.

Se da un lato, infatti, riprendono la sua opera ed i suoi personaggi, dall'altro vengono completamente stravolti. Senza dubbio, i più importanti sono il conte (Claes Bang) e suor Agatha (Dolly Wells), due personaggi il cui contrasto costituisce l'impalcatura narrativa di tutta la serie, che non si scontrano mai a livello fisico: il loro scontro è, tutto sul piano mentale, un inseguirsi di ragionamenti che li rende incredibilmente intriganti anche grazie alla loro caratterizzazione precisa che viene, puntata dopo puntata, sviluppata ed analizzata in ogni sfaccettatura. Accanto a loro, si sviluppa la storia del giovane avvocato Harker, che fungerà da voce narrante per la lunga parte introduttiva, in cui i due registi sembrano omaggiare il Dracula originale come mostro assetato di sangue i cui colori si alternano ora tra il rosso del sangue, ora il nero della notte senza stelle.

E' solo verso la fine della prima puntata che la serie prende una piega diversa e più audace, quando gli autori decidono di rivisitare la letteratura su Dracula e spalancare le porte ad una nuova prospettiva sul vampiro. Un progetto audace, quello di raccontare una storia nuova, ma pericoloso. Apprezzabilissime le citazioni e rimandi al Mondo di Tenebra, il fortunato universo narrativo prodotto da casa White Wolf, con un occhio di riguardo soprattutto per il gioco Vampire la Masquerade. Impossibile inquadrare la serie in un genere preciso, per via dei molti cambi di direzione imposti dagli autori, mescolando l'horror, che però funge da cornice per tutte e tre le puntate, condito da un'ironia pungente e sadica che resta sempre presente e tuttavia gradevole, al genere investigativo e introspettivo, anche grazie ad un sapiente uso delle inquadrature e della fotografia, sempre perfetta: in alcune scene, i personaggi potrebbero anche fare a meno di parlare, per quanto potente essa sia, comunicando comunque il messaggio proposto dai registi allo spettatore.

Purtroppo, la serie perde molto nel suo terzo atto finale, in cui solo l'ironia, lascito dei primi due episodi, resta apprezzabile. Dracula viene messo di fronte alle sue ragioni che però non trovano una seppur piccola giustificazione narrativa e il finale lascia lo spettatore stupito ed imbarazzato. In quest'ultima puntata i due autori mettono troppa carne al fuoco che non viene esplorata a dovere, scelta forse dettata dalla troppa fretta di concludere una serie fino ad allora ben riuscita e il cambiamento rispetto alle due puntate precedenti risulta eccessivamente brusco, sprecando, da questo punto di vista, un'occasione d'oro che fino a quel momento era stata magnificamente portata avanti e risultava in un'affascinante rivisitazione di Dracula, finalmente visto sotto tutta un'altra luce.

Alessandro Perri

Underwater di William Eubank presenta fin dai primi minuti di pellicola la sua natura di disaster movie. Una trivella sottomarina situata diverse miglia sotto la superficie viene improvvisamente colpita da un terremoto, il punto di vista è quello dell’ingegnera elettronica Norah Price (Kristen Stewart) che, tra allarmi, cali di tensione, acqua che esplode violentemente nei vari ambienti della struttura sempre più instabile, inizia a cercare i suoi compagni di squadra. Si tratta di una difficile operazione mineraria, denominata “Kepler”, che prevede trenta giorni confinati negli stretti corridoi e nelle anguste cabine della trivella in questione, tuttavia il terremoto manda in frantumi la missione, ponendo ora come obiettivo principale quello della lotta alla sopravvivenza dei superstiti.

Underwater si rifà a molti stereotipi del genere cui appartiene: c’è la consueta, assurda ironia americana incarnata soprattutto dal burlone Paul (T. J. Miller); ci sono il metalinguaggio e le citazioni, come quella al famoso romanzo di fantascienza ante-litteram Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne; c’è il capitano Lucien (Vincent Cassel) che non ha nulla da perdere; c’è la ragazza spaventata (Jessica Henwick) che desidererebbe solo mollare la presa, ma il fidanzato Liam (John Gallagher Jr) le dà la forza di andare avanti; c’è la protagonista Norah, una donna forte e razionale che cela un passato doloroso (si pensi a film come Gravity o Arrival o al più recente The Aeronauts), infine ci sono i mostri degli abissi a simboleggiare l’ambiente che si ribella alle mostruosità e all’inquinamento perpetrati dall’essere umano.

Non è un caso se Underwater è un film, per certi aspetti, del tutto simile alla fantascienza ambientata nello spazio: dove le acque profonde sono come l’ambiente spaziale, non è possibile spostarsi senza le tute e i caschi adeguati, le strutture interne della trivella appaiono come quelle di una navicella spaziale, con tanto di cabine di salvataggio.
Si pensi a Life di Daniel Espinoza con cui Underwater ha molti tratti in comune, a partire dal ritrovamento di uno sconosciuto organismo embrionale (in Life si tratta del marziano Calvin, in Underwater è un “cucciolo” dei mostri sopracitati). Appare chiaro che il film di William Eubank, ambientato nel profondo dell’oceano e trattante un’operazione mineraria, contiene un messaggio ambientalista. Tuttavia la metafora ambientale risulta debole e una vera e propria riflessione sull’ambiente viene solamente sfiorata da una battuta pronunciata da Norah, che dice: “ci siamo spinti troppo oltre”.

Tra gli aspetti migliori del film sono da annoverare una regia dinamica e una suspense ben mantenuta, soprattutto grazie al lavoro fatto sul sonoro, che ben veicola l’emozione dello spettatore. Non si può dire lo stesso della sceneggiatura, che risulta prevedibile e colma di stereotipi, così come il cast appare omogeneamente privo di enfasi nelle interpretazioni attoriali.

Al cinema dal 30 gennaio 2020.

Martina Cancellieri  30/01/2020

CHIANCIANO TERME – Qualche giorno fa abbiamo trattato, raccontato e scritto del lavoro di Andrea Kaemmerle che tra Bientina, Casciana Terme, Volterra e Utopia, dislocata su tutto il litorale tirrenico, ha creato, con fatica, sudore e impresa, un suo pool d'attività che va allargandosi. Un parallelo può essere costituito attorno alla figura di Manfredi Rutelli che tra Chianciano Terme, dove ha la direzione del Teatro Caos, Monticchiello con il Teatro Povero, ultimi due edizioni alla drammaturgia e regia condivisa, Montalcino, con la direzione del Teatro degli Astrusi, e Chiusi dove al Festival è regista della produzione annuale, ha costruito il suo raggio d'azione, il suo solido spazio dove creare, progettare, organizzare. Che a Chianciano prima ci si andava soltanto per le terme (le rinnovate, 9695_manfredi-rutelli.jpgampie, comode Theia, con due piscine interne ed altrettante esterne con temperature a 33 e 36 gradi: relax garantito e assicurato), adesso è possibile abbinarvi un intrattenimento serale di qualità per completare la vacanza o il week end. Dicevamo figure simili (Kaemmerle e Rutelli; si spera che presto o tardi realizzino un progetto comune) che si rimboccano le maniche con un lavoro maniacale e artigianale, partendo dal basso, con poche risorse ma tante idee.

Una lst.jpgdi queste è la novità “Quizas, Quizas, Quizas” (testo e regia di Rutelli, produzione LST) che prende le mosse dal motivetto omonimo, qui diventato refrain che ritorna prepotente e assillante, canzone cubana che ha avuto illustri e innumerevoli cover dal '47, anno della composizione, ad oggi. Sta tutto qui, tra le pieghe del testo della canzone: “Stai perdendo tempo, pensando, pensando a ciò che più desideri, fino a quando, fino a quando? E così passano i giorni ed io mi dispero e tu rispondi Chissà, Chissà, Chissà”. E' in questo stallo, in questo immobilismo esasperante, in questo precario equilibrio claudicante che si sviluppa la vicenda che apre molte riflessioni sull'oggi, sulla situazione sociale contemporanea come sui suoi riflessi esistenziali che toccano tutti. Tutto può essere visto nella sua accezione reale come in quella metaforica, come una medaglia dalle due facce egualmente ed equanimemente parallela: una donna rimane bloccata in un ascensore.

Non è semplicemente una donna: è una cinquantenne che ha perso il lavoro e che adesso sta andando ad un colloquio di lavoro con un'agenzia interinale per essere “ricollocata” nel mondo del lavoro. Non soltanto: la donna è separata ed ha una figlia alla quale ha dato tutto e davanti alla quale non si è mai fatta vedere debole, una figlia che vuole aiutare a non fare i suoi stessi errori e sostenerla per farle raggiungere i suoi obbiettivi e desideri, cercando quella felicità, lavorativa e personale, che lei stessa ha messo in secondo piano prima per la famiglia e successivamente proprio per la ragazza. I rimpianti diventano un “chissà”, in questo vago futuro che le si prospetta davanti, nebuloso, confuso, incerto, fatto di vedremo, mai solido, mai duraturo, sul quale è impossibile fare affidamento, mettere le basi per un domani migliore. In qualche modo, perché monologo d'attrice e per la tematica di fondo, la perdita dell'occupazione, ci ha ricordato “Gli ultimi saranno i primi” di Massimiliano Bruno che portò, prima in teatro e poi al cinema, una superba Paola Cortellesi.QUIZAS-19-0102.jpg

La donna sospesa, letteralmente, in questa scatola, appesa a cavi d'acciaio, si confessa al pubblico in un monologo a cuore aperto dove passa in rassegna la propria vita e soprattutto i fallimenti in questa situazione di claustrofobia e costrizione che le ricorda la sua stessa esistenza fatta di infiniti obblighi, una rincorsa continua con il fiatone senza mai potersi rilassare, sempre stanca, senza mai un grazie, una pacca sulla spalla, un aiuto, un incoraggiamento. A “farle compagnia” in questa piccola, ennesima sventura, appaiono, in audio attraverso l'interfono, il custode del palazzo, un pompiere, il consulente del lavoro, altri uomini che non la capiscono, che non colgono il punto, che travisano, che non ascoltano le sue esigenze, che ironizzano, drammatizzano, sottovalutano nell'incomprensione più assoluta.

Nel testo di Rutelli, ben bilanciato tra un'ironia rassegnata e un realismo amaro, si fa riferimento a licenziamenti all'interno di un'azienda di calze, e la mente non può che volare alla vicenda Omsa. La precarietà nella vita di Anna (questo il nome assunto dall'attrice Cristina Aubry che si porta con forza sulle spalle il peso di un monologo non semplice) è condensata in questa situazione grottesca, sospesa a metri d'altezza dentro una scatola di latta dalla quale non può fuggire e dove anche i ricordi, del marito, della madre, fanno soltanto male e riaprono vecchie ferite mai rimarginate: “Cosa cambia se esco?”, si chiede in presa all'insoddisfazione più Progetto-senza-titolo-1.pngcompleta, mentre problemi, preoccupazioni, pensieri si sono mangiati l'entusiasmo per questa possibile, tentata nuova rinascita. I suoi ricordi sono un continuo Sliding Doors (ritornano le porte che a volte si aprono spalancando scenari, altre, come in questo caso, si chiudono, emarginandoti) sulle possibilità-opportunità, sulle infinite occasioni perdute. Adesso appare tutto troppo tardi: “Non ho più vie d'uscita”, sconsolata, quando anche la rabbia sembra passata, “Non so neanche se voglio uscire da qui”, lancia sul piatto svuotata. Ma non tutto è perduto, chissà, chissà, chissà...Perché non è finita fin quando non è veramente finita.

Tommaso Chimenti 03/12/2019

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