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Il Mattatoio di Testaccio riapre i cancelli ai fumetti. Dal 24 al 26 maggio torna per la sua quinta edizione l’ARF!, il festival del fumetto romano, contraltare più raccolto e introspettivo all’orgia di colori, folla e incursioni crossmediali del Romics. E si allarga anche lui ma per dare più spazio al fumetto indipendente, che fin dalla prima edizione è stato il Nord della sua bussola: lo spazio della Pelanda si ristruttura per dare più spazio ai talk, conversazioni che vanno a sviscerare l’essenza della vignetta con professionisti del settore, al Job ARF!, la sezione dedicata agli incontri professionali fra editori e aspiranti autori, e soprattutto alla Self ARF!. IMG 20190524 100125

Gli editori sono stati spostati nei due padiglioni, dove sono ospitate anche le mostre di Attilio Micheluzzi (“La nostalgia dei luoghi mai visti”), Giuseppe Palumbo (“Palumb-o-rama”) e Frank Quitely (“All Star Quitely”). I veri protagonisti della fiera sono loro, gli autori indipendenti che si auto-producono e si prendono non più il cortile ma tutto lo spazio all’ombra della Pelanda – una grazia non da poco, mentre il sole ricomincia a picchiare più forte alla fine di un maggio tutt’altro che primaverile. Loro e le tavole di fumettisti magari meno conosciuti al grande pubblico ma con tutte le carte in regola per farsi apprezzare anche dai non addetti ai lavori.

L’ARF! si riconferma un viaggio nello spazio profondo del fumetto, che si tuffa oltre la superficie della pagina bianca e accompagna il visitatore nei segreti che si nascondono fra i confini instabili della vignetta. Non è solo il caso delle Masterclass – le prime tre ore del venerdì mattina se le prenderà Yoshiyasu Tamura, autore di “Fudegami”, per approfondire l’uso delle vignette e dei balloon nel rendere scorrevole il movimento e coinvolgere il lettore nell’azione disegnata. E non c’è solo la possibilità di trovarsi davvero a tu per tu, nella ARFist Alley, con i professionisti del fumetto internazionale, da Giacomo Bevilacqua a Frank Quitely, da Arianna Rea a LRNZ.

Ci sono anche i talk, appunto, come quello dedicato alla sottile linea di confine fra animazione e fumetto. “L’eternità della vignetta o la sequenza animata?” è l’eloquente titolo dell’incontro con tre professionisti che hanno lavorato a cavallo fra i due mondi della sequenza animata e della vignetta immobile: Yoshiko Watanabe (animatrice giapponese che ha lavorato sia agli albori della Mushi Production di Tezuka che negli italianissimi progetti de “La freccia azzurra” e “La gabbianella e il gatto”), Bertrand Gatignol (che si è dedicato al matte paiting per “Reinassance” e ha poi virato verso il fumetto con “Gli Orchi-Dei”) e Davide Toffolo (frontman dei Tre Allegri Ragazzi Morti).

IMG 20190524 104457A moderare l’incontro Giovanni Masi, che sostituisce prontamente Mauro Uzzeo, bloccato da un mal di gola, e si fa forte della sua passata collaborazione da sceneggiatore proprio con Yoshiko Watanabe. L’animatrice e fumettista giapponese è una veterana di lungo corso. Ha lavorato alle animazioni quando Osamu Tezuka in Giappone cominciava appena a inventare le regole di questo nuovo modo di raccontare storie sullo schermo. “Tezuka era un grandissimo artista ma un disastro come amministratore”, ricorda, motivando così anche la sua scelta di lasciare la terra del Sol Levante per l’Italia alla metà degli anni Settanta. È qui che comincia a fare la fumettista, abbandonando anche i ritmi di lavoro proibitivi a cui gli animatori giapponesi sono sempre stati sottoposti. “Diciotto, venti ore al giorno,” esclama, spiegando poi, “non tornavamo nemmeno a casa, dormivamo sotto le scrivanie”.

Bertrand Gatignol viene da un altro mondo e un’altra generazione. Classe 1977, vuole fare animazione ma ci arriva tangenzialmente, dopo aver fatto un corso di grafica che lo ha preparato, invece, al mondo della comunicazione. Si dedica al matte painting, il disegno di fondali per le scene animate, più che all’animazione dei movimenti in sé per sé e approda al fumetto perché gli dà “più libertà”. Ogni sceneggiatura è una sfida a capire come trasformare in immagini le scene più azzardate e immaginifiche ed è quella la spinta di cui ha bisogno, soprattutto contando quanto poco viene pagato per il lavoro di disegnatore.

E poi c’è Davide Toffolo, che si muove addirittura fra tre mondi, quello della musica, quello del fumetto e quello dell’animazione. La sua sfida più grande? Convincere i produttori che coniugare musica e animazione fosse un progetto sensato, ben prima che i Gorillaz mostrassero al resto del mondo che, sì, una band può avere successo anche se i volti dei suoi membri sono quelli dei personaggi di un cartone animato. Arriva in ritardo all’incontro, Toffolo, a casa di un contrattempo ma le sue parole sono in perfetta armonia con quello che i suoi colleghi hanno raccontato poco prima. Immaginare una scena prima come sequenza e poi scomporla mentalmente, fotogramma per fotogramma, prima di estrarne quelli più significativi da comporre in una tavola è un processo creativo che li accomuna. IMG 20190524 124405

Così come li accomuna la percezione che quello del disegnatore sia un lavoro che costa fatica e non sempre dia adeguate soddisfazioni economiche. Eppure, spesso proprio la staticità della vignetta permette di ragionare ancora meglio sul modo di mostrare certe sfumature dell’animo umano, senza l’ausilio dei suoni, della musica, delle voci e del movimento. Ma la pagina bianca li spaventa, più dei limiti in qualche maniera rassicuranti che l’animazione impone? Yoshiko Watanabe è sicura di no, ha sempre avuto un approccio molto spontaneo al modo di riempire la gabbia delle vignette. A spaventare Gatignol, invece, è il pensiero della mole di lavoro che lo attende, ogni volta che una nuova sceneggiatura siede sul suo tavolo e gli impone un grande sforzo di immaginare come sistemare tutte quelle scene.

Davide Toffolo ha paura della pagina bianca, sì, ma il fumetto gli permette di sperimentare al punto da smontare la sequenza lineare degli eventi e giocare a creare storie che si chiudono nei quattro angoli della pagina bianca, che diventa l’unità prima della narrazione. Sta poi al lettore assemblarle anche in un ordine diverso da quello in cui le pagine vengono messe in fila, fruendo della storia in maniera totalmente nuova e personale. Insomma, c’è poco da fare: quella del disegnatore di fumetti è tutt’altro che una vita facile ma le soddisfazioni creative che dona ai suoi autori ripagano almeno in parte l’ingrata fatica.

Di Ilaria Vigorito, 24/05/2019

Fino al 6 gennaio 2019, in mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, Roma Fumettara, curata dalla Scuola Romana dei Fumetti in occasione dell’anniversario dei propri 25 anni d’età. La SRF nasce nel 1993 da un gruppo d’autori romani, sceneggiatori e disegnatori, e svolge da allora un importante ruolo nel campo della formazione, della promozione culturale e della produzione editoriale.
Con il tempo, al gruppo iniziale, si sono aggiunti molti ex allievi affermatisi nel campo del fumetto, dell’animazione del cinema e dei videogiochi. Si sono così mescolate generazioni, stili e professioni, e sono nati progetti di rilievo come “I Grandi Miti greci a Fumetti di Luciano De Crescenzo” (Mondadori/De Agostini) e il cartone animato “Ulisse il mio nome è Nessuno” (RAI 2), vincitore del premio Kineo/Diamanti al Festival del cinema di Venezia nel 2012.
Nella mostra a ingresso gratuito sono esposte opere di autori, docenti o ex allievi della Scuola Romana dei Fumetti, ognuno con la sua personale visione della città eterna. È possibile ammirare lavori di Massimo Rotundo (Tex), Stefano Caselli (Marvel), Marco Gervasio (su Topolino, autore di Fantomius e PaperTotti), Eugenio Sicomoro (Bonelli, Glenàt, Dupuis), Arianna Rea (Disney America, Tunué), Simone Gabrielli (Glénat e Bonelli), Maurizio Di Vincenzo (Dylan Dog), Lorenzo “LRNZ” Ceccotti (Bao Publishing), Riccardo Federici (DC Comics).
Questo solo per citare qualche nome, da una lista di grande quantità e qualità. Ogni autore sarà il tassello di un ricco mosaico che rappresenta non solo una città, ma un percorso nel tempo e nello spazio, in un luogo di nascita e maturità artistica. “Roma Fumettara” è il racconto appassionato della capitale e allo stesso tempo della Scuola Romana dei Fumetti, che nella città trova, oggi come nel 1993, espressione ideale della propria identità. In una parola: casa.

Andrea Giovalè
9/11/2018

La giornata è fredda e piovosa ma il Teatro del Giglio si riempie comunque di spettatori. E non perché il biglietto sia gratuito. Va in scena la sera del 2 novembre, infatti, “Kobane Calling On Stage”, adattamento teatrale del celebre fumetto di Zerocalcare, in arte Michele Rech, uscito nel 2016 per i tipi di Bao Publishing. Forse la sua opera più politicamente impegnata, sicuramente un affresco autobiografico che si fa reportage e riesce a raccontare con onestà la vita travagliata del popolo curdo – smembrato fra quattro Stati e unico baluardo contro l’avanzata quasi irresistibile dell’ISIS.

Che un’opera così potesse vivere di una nuova vita nel passaggio a un medium diverso dal fumetto era un’operazione auspicabile – visto che di Kobane e del terribile conflitto siriano non si dovrebbe mai smettere di parlare. Ma che il prodotto finale potesse essere valido era un esito tutt’altro che scontato. Invece, di fronte ai palchi del Teatro del Giglio quella che va in scena non è un’operazione retorica e non è nemmeno un goffo riadattamento di una storia già raccontata. Kobane Calling On Stage 2

Emanuele Vietina, direttore generale di Lucca Crea (società che si occupa di organizzare il Lucca Comics and Games) preannuncia già sul palco la volontà di dare una vita nuova e diversa alla graphic novel di Zerocalcare sulla storia del Rojava e sui travagli del popolo curdo. La scenografia è essenziale, solo precise vignette scorrono sullo sfondo per accompagnare scene che del disegno originale hanno bisogno: Nicola Zavagli, il regista, ha studiato bene la storia originale e riesce ad amalgamare musiche, vignette e la recitazione degli attori senza bisogno di orpelli scenografici aggiuntivi.

In questo lo aiutano gli allievi della compagnia Teatri d’Imbarco, coadiuvati da Beatrice Visibelli e Marcello Sbigoli: tutti offrono un’interpretazione intensa, senza grandi sbavature ma profondamente intense. Per vestire di volta in volta i panni di un personaggio diverso non hanno bisogno di particolari cambiarsi d’abito – poche concessioni anche nei costumi, come l’onnipresente maglietta nera col teschio bianco, marchio di fabbrica del fumettista romano, che viene indossata da un ottimo Lorenzo Parrotto. Parrotto è il fulcro della prima parte dello spettacolo e con cadenza rigorosamente romanaccia riesce a dar vita in maniera esilarante a tutti i monologhi e le contorsioni mentali a cui già il Zerocalcare fumettistico ci aveva abituato.

Eppure la sua voce pian piano sfuma nel corso della rappresentazione, come già era accaduto per le vignette del fumetto, e dà spazio ai veri protagonisti di “Kobane Calling”. I curdi, che combattono contro l’ISIS: ragazzi, giovani donne, anziani, persone che hanno subito sulla loro pelle le peggiori torture, eppure hanno sfidato la polizia turca per tornare a combattere per una patria finalmente unita sotto ideali di civiltà e progresso, per certi versi persino più avanzati di quelli occidentali (“ma che c’abbiamo noi da insegnargli a questi”, esclama a un certo punto, Zerocalcare, commentando quanto sia avanzata la Costituzione che il Rojava si è dato). L’alternanza di momenti profondamente scanzonati e di monologhi tanto drammatici quanto laceranti, per la forza con cui vengono pronunciati, lascia il pubblico silenzioso e senza fiato, se si fa eccezione per gli occasionali scrosci spontanei di applausi e di risate nei momenti più intensi.

Kobane Calling On Stage 3 La standing ovation finale sugella uno spettacolo pensato in ogni dettaglio per intrattenere e per emozionare e non per essere una semplice lettura ad alta voce, un po’ stanca e un po’ autocelebrativa, della storia originale. Non c’è mai un attimo di pausa, nonostante il ritmo non sia per nulla concitato: dalle musiche, di Mirko Fabbreschi, che riescono a sottolineare i cambi di registro come i picchi emotivi dei racconti di vita più intensi; all’alternarsi di tutti gli attori della compagnia, che si presentano come viaggiatori o come combattenti ma poi emergono uno alla volta dal gruppo, per interpretare a volte anche più di un personaggio diverso.

E, soprattutto, c’è l’intelligenza di dare corpo alle mille voci che affollano i fumetti di Zerocalcare. Non solo quelle dei protagonisti di Kobane ma anche dell’onnipresente armadillo – coscienza complice più che critica di Michele Rech – il mammut, possente rappresentazione dello spirito di Rebibbia, e George Pig, volto di tutti i pignoli che amano fare precisazioni nella sezione commenti dei post e l’altro di Facebook.

Kobane Calling On Stage” si rivela così un progetto riuscito, ben confezionato, recitato con passione, una dimostrazione che si possono traslare storie da un medium all’altro, conservando lo spirito del fumetto ma ricreando uno spettacolo teatrale che sia davvero tale. Un esperimento che merita di calcare altri palchi, sia per il suo valore artistico sia per quel valore aggiunto di testimonianza di un dramma, come quello dei curdi e della Siria, che avrebbe meritato un’informazione diversa. Meno centrata sul sensazionalismo e più attenta alle persone, che da quel conflitto sono state irrimediabilmente segnate.

Di Ilaria Vigorito, 04/11/2018

Era il 1981 quando Rona Jaffe pubblicava “Mazes and Monsters”, romanzo vagamente moralistico che assecondava la psicosi montante nei confronti di “Dungeons and Dragons”, stigmatizzando quel gioco di ruolo come l’origine di ogni ossessione potesse affliggere la mente di giovani adolescenti troppo suggestionabili.

Nel 2017 di quel libro – e dell’adattamento cinematografico che annoverava fra i suoi protagonisti un giovane Tom Hanks – si è quasi persa traccia nella cultura popolare, mentre negli Stati Uniti David Kushner, alla sceneggiatura, e Koren Shadmi, alle matite, hanno voluto celebrare la storia segreta dietro la creazione del primo gioco di ruolo da tavolo a tema fantasy, scavando nella vita di uno dei suoi due co-creatori: Gary Gygax. Rise of the Dungeon Master 2

Dopo quasi quarant’anni dalla sua commercializzazione, “Dungeons and Dragons” ha messo radici nella cultura geek, ha ispirato le più inaspettate celebrità dello star system americano (da Stephen Colbert a Robin Williams, passando per Vin Diesel), ha dato vita a un folto filone di giochi di ruolo a tema fantasy e fornito anche la base teorica per la costruzione delle prime avventure testuali per PC – antenate di tutto lo sterminato mondo dei videogiochi RPG, oggi disponibili per ogni tipo di piattaforma immaginabile.

Rise of the Dungeon Master” parla anche di questo: dipinge a tinte monocromatiche la sotterranea costellazione di scantinati e appassionati di storia militare, che negli anni Sessanta spendevano le loro serate libere a pianificare battaglie attorno a un. Ed è dall’incontro fortunato fra due di quegli appassionati – Gary Gygax e Dave Arneson – e dalle modifiche che iniziano ad apportare al gioco da tavolo “Chainmail” che nasce qualcosa di diverso, che spezza anche le gabbie della verosimiglianza storica per introdurre al suo interno elfi, orchi e draghi, appunto.

NPE porta in Italia – dal 15 novembre in tutte le librerie ma il volume sarà già disponibile in anteprima al Lucca Comics and Games 2018 – così l’ultima graphic novel del fumettista e illustratore israelo-americano Koren Shadmi, dopo aver già adattato per i suoi tipi “Abbaddon”, surreale webcomic che si ispirava all’opera “No Exit” di Jean-Paul Sartre.

David Kushner – che aveva già scritto un articolo per Wired sulla vita di Gygax – assume le vesti del dungeon master, rivolgendosi in seconda persona al lettore e soprattutto ai protagonisti della complessa nascita di D&D, come se prendessero parte anche loro a una partita del celebre gioco da tavolo. “Sei un tipo brillante ma strisciare nei condotti ti affascina molto di più che restare in classe”, racconta Kushner nel secondo capitolo, descrivendo l’adolescenza di Gygax. Non un ragazzo prodigio, né un genio ma una persona curiosa, affascinata da quei luoghi sotterranei, che diventeranno poi la scacchiera prediletta su cui sviluppare le battaglie di D&D. I “dungeon”, appunto.

Il disegno di Koren Shadmi si adatta a quello che è un racconto di vita vissuta, incrociato alle suggestioni fantasy scaturite dalle menti fertili di quei giocatori, rintanati negli scantinati delle case proprie o di amici. Quello di “Rise of the Dungeon Master” è un tratto morbido e soffuso, un susseguirsi di tavole monocromatiche, dove i fondali sono un intreccio di sagome pulite e linee schematiche ed essenziali. Il gioco a cui Shadmi ricorre spesso è quello di sequenze di inquadrature che si focalizzano progressivamente su dettagli precisi, accompagnando la narrazione pacata di Kushner, che parte dalla superficie del presente – una delle ultime occasioni in cui Gygax ha giocato a D&D con alcuni fan affezionati – per affondare rapidamente nel passato.

Dungeons&Dragons è in fondo lo spunto da cui partire per esplorare molto di più: un’intera sottocultura, fatta di appassionati di storia militare e di heroic fantasy (mentre Gygax non sopportava “Il Signore degli Anelli”, proprio per la sua mancanza di battaglie descritte con accuratezza). Erano persone che spesso avevano una famiglia e altri lavori e si rifugiavano in quel passatempo alla fine della giornata. Si trattava di un’epoca, sicuramente diversa da quella attuale, in cui i fan che potevano incontrarsi e parlarsi solo tramite lettere, telefonate o convention annuali.

Rise of the Dungeon Master 3 È durante una di quelle convention che Gygax incontra Arneson, come lui interessato ad esplorare scenari alternativi, che non prevedessero più una stretta aderenza alla verità storica ma permettessero alla fantasia dei giocatori di scatenarsi. Si potrebbe dire che “Rise of the Dungeon Master” scorra con il tono lento e semplice di una fiaba – le manca ovviamente quella sfumatura cooperativa che trasforma ogni partita di D&D in un canto epico collettivo.

Ma i colpi di scena non mancano: Kushner non lascia fuori le polemiche, i lati oscuri di Gygax più ancora che di Arneson, gli spettacolari fallimenti finanziari, lo scandalo legato alla sparizione del giovane James Dallas Egbert III. La vita reale è molto meno eroica e più grigia di un’epica lotta fantasy ma Kushner e Shadmi riescono a essere sempre efficaci, senza perdere mai il filo della narrazione.

È ovvio che in 145 pagine “The Rise of the Dungeon Master” possa raccontare solo un pezzo della lunga storia dietro la nascita in sordina, l’improvvisa esplosione, la decadenza e poi la nuova rinascita del primo gioco di ruolo fantasy della storia contemporanea e non decide nemmeno di farlo con piglio eccessivamente documentaristico. E questo lo rende una lettura godibile, di facile approccio, mai sovrabbondante e decisamente piacevole alla vista.

The Rise of the Dungeon Master” non è un’esperienza collaborativa come una campagna di Dungeons&Dragon ma è una lettura immersiva, capace di accompagnare il lettore non solo nel mondo delle battaglie fantasy ma soprattutto in quell’universo umano che negli anni Sessanta e Settanta circondava i giochi da tavolo e costituiva una sottocultura a sé stante. E per ogni lettore troppo giovane per essere lì, respirare le atmosfere in cui si è svolta la vicenda di Gary Gygax diventa anche un modo per capire da dove siamo partiti, prima di arrivare allo sterminato mondo dei giochi di ruolo contemporanei. Da uno scantinato che, a non voler andare troppo per il sottile, è un po’ un dungeon anche quello.

 

Di Ilaria Vigorito, 30/10/2018

Classe 1967, Marco Gervasio si laurea in Economia e, mentre si guarda intorno, comincia la Scuola Romana di Fumetti. Un anno dopo incontra Giovan Battista Carpi, che resta così colpito dalle sue tavole da portarlo alla redazione di “Topolino” a Milano. Era il 1997 e, ormai ventun’anni dopo, Marco Gervasio non è soltanto una delle matite di punta del magazine italiano dedicato al topo più famoso del mondo, ma collabora ad altre testate di casa Disney e realizza fumetti anche per il franchise di Angry Birds.

Presente alla conferenza stampa per la XXIV edizione del Romics, a cui parteciperà sia come soggetto di una mostra dedicata alla sua carriera, sia attraverso panel e live performance sul suo lavoro di disegnatore, Marco Gervasio si racconta per Recensito, partendo dal Romics d’Oro per risalire fino agli esordi della sua carriera.

Gervasio 2Partiamo dalla fine. Partiamo dal Romics d’Oro: com’è stato ricevere la notizia del Premio?

La notizia è stata una forte emozione. La prima volta che mi hanno comunicato che avrei avuto questo premio, ho pensato a uno scherzo. La seconda volta ci ho creduto ed è stato un bel regalo. Per me ricevere un riconoscimento così importante, anche contando chi è stato premiato prima di me, è stata anche una grossa responsabilità. Dopo il Romics d’Oro non potrò più permettermi di scendere di livello, dovrò mantenere sempre uno standard di lavoro alto.

Come si struttura la tua collaborazione con il Romics? Sarai presente in fiera per tutta la durata della kermesse?

Sì, le premiazioni del Romics d’Oro avverranno domenica 7 ottobre ma io sarò presente al Romics già dal giovedì. Il venerdì eseguirò un live painting, sabato realizzerò un disegno sul muro del Romics e poi parteciperò a vari incontri. Sarò anche presente allo stand Panini per presentare un cofanetto con tutte le storie di Fantomius racchiuse insieme con una litografia omaggio quindi ci saranno parecchi modi di incontrarmi.

A proposito di Fantomius, com’è nato il concept della storia? E com’è lavorare a questa serie da solo, visto che gestisci sia le storie che l’aspetto grafico del fumetto?

Mi sento un po’ il papà di questa mia creazione, anche se è buffo essere il padre di un figlio “ladro” come Fantomius. Questo personaggio nasce come semplice nome nella prima storia di Paperinik. All’epoca ero solo un lettore e avrei voluto saperne di più. Poi ho cominciato a lavorare ma, essendo nato come disegnatore, non potevo scrivere niente, eppure vedevo che questo personaggio continuava a non essere usato. Quando ho cominciato a scrivermi le storie da solo, ho provato a proporre l’idea di creare una serie sul ladro gentiluomo, Fantomius. La mia proposta è piaciuta e ho pensato a quattro storie iniziali, che potevano anche finire lì. Invece proprio in occasione del Romics su “Topolino” uscirà il ventitreesimo episodio della serie e sto già lavorando alla ventiquattresima e alla venticinquesima storia.

Quali credi che siano stati i motivi del successo di un personaggio secondario, di cui per anni i lettori di “Topolino” hanno conosciuto solo il nome?

Probabilmente il successo del personaggio è dovuto anche alla sua diversità: si tratta di un protagonista moralmente grigio, un criminale, anche se gentiluomo. Le sue storie sono ambientate negli anni Venti, e questo gli dà una continuity che per le storie di “Topolino” non è usuale. Mi aiuta anche il fatto che in quel periodo storico Fantomius non deve interagire con i personaggi classici della Disney, a parte zio Paperone, quindi ho molta più libertà creativa per quanto riguarda le caratterizzazioni. Ambientare Fantomius negli anni Venti, dall’altro lato, non è stato semplice: ho dovuto documentarmi sulle mode e le atmosfere di quel periodo e soprattutto sulla tecnologia. Tendiamo a dare per scontato tanti elementi nella nostra vita quotidiana e devo costantemente ricordarmi, per esempio, che all’epoca non c’erano la televisione o i cellulari.

Quanto è cambiato il tuo lavoro in questi vent’anni, con l’evolversi delle tecnologie per disegnare e colorare? Gervasio 3

La mia tavola inizia con la matita e il foglio, per me è indispensabile lavorare sul materiale fisico. Il digitale mi aiuta molto quando devo passare alle inchiostrazioni, invece. Mi affido alla Cintiq per l’inchiostrazione e questo velocizza non poco il mio lavoro. Con la china tradizionale dovevo ricorrere al pennello e alla boccetta d’inchiostro e per ogni sbaglio bisognava usare col bianchetto. Grazie al digitale, invece, con un semplice click cancello un errore e posso ricominciare. E ovviamente mi aiuta tantissimo anche nella colorazione, che nel caso di Fantomius realizzo completamente io.

A proposito degli esordi della tua carriera, tu ti sei laureato in Economia e Commercio. Come sei finito alla Scuola Romana del Fumetto, prima di incontrare Carpi?

Non ho mai abbandonato il disegno, che è una passione che avevo fin dalle elementari. Così, presa la laurea e avendo un po’ di tempo libero, ho pensato di frequentare la Scuola Romana di Fumetti. Il primo anno, dovendomi applicare seriamente, ho realizzato una quindicina di tavole. In quello stesso periodo Giovan Battista Carpi è venuto a presenziare una fiera romana, Expo Cartoon, e io ho provato a presentargli il mio lavoro. Gli è piaciuto e durante il secondo anno della Scuola Romana di Fumetto sono entrato nella redazione di “Topolino”.

Com’è la redazione di “Topolino”? Com’è stato lavorare con loro durante questi anni?

È stato sicuramente bello. Dopo tanti la redazione di “Topolino” è per me quasi una famiglia, è come interagire con degli amici, siamo sempre in sintonia sui progetti che decidiamo di intraprendere insieme.

Non solo Disney, però. Nell’ultimo periodo sei approdato anche ad Angry Birds. Come ci sei arrivato?

Angry Birds è stata un’occasione, grazie a un mio caro maestro e amico, Giorgio Cavazzano, che ci lavorava. Mi ha chiesto di partecipare e io ho accettato, anche perché si trattava di qualcosa di nuovo e di diverso dal lavoro con la Disney. Diciamo che la reputo una bella avventura, che ho trovato molto divertente.

Di Ilaria Vigorito, 20/09/2018

Loputyn, nome d’arte di Jessica Cioffi, arriva allo stand Shockdom in quel del Romics – la fiera sarà aperta fino a domenica 8 aprile – pronta per il firmacopie, che la terrà impegnata dalle cinque del pomeriggio fino alle otto di sera. Esce infatti per la casa editrice italiana il 12 aprile ‘Sol’, l’ultima fatica di Loputyn, raccolta di illustrazioni dominate dallo stile meticcio – fra manga giapponese, moda Lolita e suggestioni gotiche d’oltremanica – che è il tratto distintivo dell’autrice.
Nonostante la fila che già si accalca attorno allo stand, Jessica, dopo aver salutato i colleghi, accetta con piacere di intrattenersi per una chiacchierata sulle sue storie già edite, le influenze più forti sul suo lavoro e i progetti che non vede l’ora di realizzare – tempo tiranno permettendo.

Stai per tornare in libreria con ‘Sol’, il cui titolo richiama la chiave di Sol. Ci sono stati altri temi che hanno influenzato questa tua raccolta?

"La musica è sicuramente dominante in questo volume. È da un po’ che penso a un tema del genere legato alle mie illustrazioni: quando disegno, capita spesso che molte delle immagini che creo scaturiscano dalla musica che ascolto e ho voluto dedicare un’intera raccolta a questo connubio, che ritengo di per sé già indissolubile".
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Con ‘Francis’ hai affrontato invece una storia auto-conclusiva, come avevi già fatto con ‘Cotton Tales’. Come cambia il tuo approccio, quando ti trovi ad affrontare una storia, invece di una raccolta di illustrazioni? Ti trovi più a tuo agio con la prima o con le seconde?

"Non c’è un approccio differente, perché parto sempre dallo stesso punto: le illustrazioni. Anche quando mi trovo a elaborare una storia più lunga, come accade in ‘Francis’, parto sempre da disegni singoli. Quando mi accorgo che ci sono dei personaggi che ricorrono più spesso nel mio lavoro, comincio a creare dei legami fra loro, un immaginario che li circonda e in cui inserirli. Le illustrazioni sono, insomma, sempre la base da cui parto, sia per le storie vere e proprie che per gli artbook".

Il tuo stile oscilla molto fra le influenze gotiche europee, nelle ragazze che sembrano bambole di porcellana, e un tratto manga che dà un’intensità molto carnale ai tuoi personaggi, in questo davvero distanti dalla purezza delle bambole. Quali sono stati i tuoi autori di riferimento e gli stili che ti hanno influenzata di più?

"Io sono figlia degli anni Novanta e sono cresciuta con Lady Oscar: sia Ryoko Ikeda, sia altre autrici di manga storici hanno molto segnato il mio immaginario. Nel periodo adolescenziale, invece, mi ha molto attirato il lavoro di Kaori Yuki. Poi, ovviamente, col tempo ho ampliato il mio bagaglio di conoscenze, ho guardato anche agli autori europei ma cerco di non rifarmi a un autore in particolare. Prendo le mie influenze anche dalla realtà, dalla natura, dalle persone, dall’abbigliamento – apprezzo molto lo stile Lolita".

Nel tuo primo artbook, ‘Loputyn’, c’è una citazione a ‘La collina dei conigli’: i conigli e i lupi ricorrono moltissimo nei tuoi disegni. Questa fascinazione nasce da qualche fiaba in particolare o semplicemente ti piacciono molto questi animali?

"Sono molto affezionata a questi animali perché rappresentano gli opposti: il coniglio è completamente preda, mentre il lupo è completamente predatore. Mi piace accostarli, proprio per ricreare un contrasto che mi sembra riassumere simbolicamente due aspetti estremamente diversi degli esseri umani: il lato dolce e accogliente e quello, invece, più distruttivo e predatorio".

Hai frequentato il liceo artistico e adesso studi all’Accademia di Belle Arti. Hai sempre saputo che il disegno sarebbe stato il tuo lavoro o te ne sei accorta ‘in corso d’opera’?

"Me ne sono accorta ‘in corso d’opera’, in effetti, nel senso che mi ci sono sempre dedicata per passione oppure sognando di poter trasformare questo esercizio in un lavoro. È tutto accaduto in modo molto rapido e naturale, mi sono trovata dentro questo mondo quasi senza accorgermene e mi sono resa conto dei suoi meccanismi solo una volta che li ho vissuti dall’interno. Ad esempio, non avevo pensato alle storie per la pubblicazione ma per me stessa e ho deciso di continuare per questa strada anche adesso che lavoro con una casa editrice".
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Sei molto presente sui social, non soltanto Facebook ma anche Tumblr e DeviantArt, per esempio. Si può dire che tu sia partita da lì, per poi avventurarti nel mondo dell’editoria professionale?

"Sì, dal momento che non ho frequentato una scuola di fumetto l’unico riscontro che potevo cercare era quello sul web. Sui social mi capitava di ricevere critiche costruttive oppure anche semplici commenti e così capivo come aggiustare il tiro – ovviamente restando fedele a me stessa. La mia linea guida era il confronto con il pubblico, dunque i social sono stati necessari alla mia crescita".

Dopo ‘Sol’ sai già se vuoi dirigerti verso una storia auto-conclusiva oppure ti affiderai all’ispirazione del momento?
"In realtà ho già delle storie in mente, purtroppo la mancanza di tempo e i tanti impegni pesano sulla realizzazione, ma ho davvero molte idee. Vedremo, per ora è tutto ancora in corso d’opera".

Ilaria Vigorito, 07/04/2018

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