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BOLOGNA – Identificazione, empatia, sentirsi dentro una storia, dentro un corpo anche se quella storia, quel corpo ti sono distanti sideralmente, per cultura, per latitudine, per storia, per nascita. Identificazione e identità, stessa radice, diversa propagazione semantica. Comincia lenta questa nuova produzione del Teatro dell'Argine, freschi vincitori dell'importante “Premio Rete Critica” a Padova, come un diesel sembra che non ingrani. L'apparenza inganna. La storia appare lontana, lontanissima, l'Africa nera, purtroppo una narrazione già sentita, di fame, miseria, superstizioni, sofferenze, dolori. Sulla scena una incredibile, meravigliosa Micaela Casalboni che, a piccoli passi, ci conduce, a sorsi millimetrici, dentro questa vita che ad un primo ascolto ci è sembrata distante, talmente separata dal nostro vissuto quotidiano da sentire una scissione, una separazione, una frontiera. La scena, che successivamente prende corpo e si fa viva (grandi lavori di intaglio evocativi quelli di Giovanni Dispenza), ad un primo sguardo ha la forma e le fattezze caratteristiche ed usuali del teatro ragazzi: statuette di legno sul boccascena, cornici vuote, manichini, sculture automatizzate, pupazzi da muovere in questi microsipari. Il racconto pare non ingranare: che cosa mi stanno raccontando le parole scritte da Nicola Bonazzi (appena vincitore del “Premio Malerba” di narrativa)? Non riesco a trovare il gancio, l'appiglio, la connessione.045_Harperstudio__S4_0092.jpg

Poi, come un fulmine, una vera e propria illuminazione, si attua il miracolo, si accende lo storytelling. La Casalboni tocca le corde invisibili del parallelismo, della vicinanza umana non tanto come compassione per le vite altrui ma quanto come identificazione dentro le vite degli altri, trovare i punti 122_Harperstudio__S4_0316.jpgdi contatto (che ci sono sempre) anche con le esistenze più disparate e apparentemente discordanti dal nostro piccolo e misero intorno. In definitiva, non giudicare nessuno da sopra un piedistallo ma mettersi allo stesso piano, sullo stesso livello perché ogni vita ha uguale dignità in qualsiasi tempo e luogo e spazio sia stata respirata. L'attrice monologante (in vero stato di grazia, palpabile e tangibile), con la forza, la passione, la convinzione che la contraddistingue, attua uno switch tanto interessante quanto funzionale: da una storia da vedere con il cannocchiale, da dover zoomare per poterne vedere i contorni comunque sgranati e sfocati, si passa repentinamente alla sua autobiografia, dall'Africa alla Romagna e tutto ci appare improvvisamente così vicino e comprensibile e la vicenda di sofferenza e tragedia vissuta dal ragazzo africano adesso è nostra, è sulla nostra cute, non la vediamo più da uomini europei “buoni” con i dirimpettai del continente nero ma la sentiamo sottopelle perché qualcuno ci ha mostrato la via per parteciparla, per comprenderla finalmente.

Non si tratta di compassione ma di, finalmente, vedere chi si ha di fronte non come un disperato ma come il nostro specchio che ci proietta la nostra immagine. E tutto cambia. Radicalmente. E “La luce intorno” davvero si anima e prende davvero campo e si libra e tutto avvolge e si spande ed è folgorante come le parole si aprano e la commozione inizi a scorrere in un vortice di ferite che ora sentiamo 153_Harperstudio_RHS_0301.jpgaddosso. Stanno parlando a me, stanno parlando con me, stanno parlando di me. Quella che ci stanno raccontando dal palco non è più la storia di uno sfortunato ragazzo africano al quale viene negata per ben due volte la famiglia e che, per grette e pericolose superstizioni e credenze animiste, viene definito e considerato “maledetto”, non è più la storia di barconi e prigionia in Libia, ma diventa la nostra storia perché l'attrice palleggia la vicenda del Benin e del Togo in alternanza con la Romagna prima e con Bologna poi ma soprattutto il parallelismo più forte e viscerale e ancestrale è tra le madri, non certo perché siano uguali le mamme africane che ripudiano il nostro protagonista e la mamma della Casalboni, ma perché il “chi sei” e il “da dove vieni”, da “quale famiglia vieni”, il “cosa fai nella vita”, le incomprensioni, diventano le domande pressanti ad ogni latitudine e rimbombano e fanno rumore e se a queste domande non riesci a 159_Harperstudio__S4_0404.jpgdare risposte il castello di sabbia cade e tutto si frantuma e sembra inutile e senza fondamenta.

Come è esplosiva la simmetria tra il figlio non voluto e ceduto e allontanato che è stato il nostro antieroe e il figlio mai nato dell'attrice, voluto con tutte le forze ma mai arrivato. Ci sono madri e ci sarebbero state madri. Ci sono storie fortunate in esistenze devastanti come ci sono vicende sfortunate dentro vite fortunate. E' il riconoscere quel dettaglio, quell'irrazionale minimo pensiero che passa, quel “sarei potuto essere io”, fermarlo e farci i conti. Non è commiserazione né compatimento né pietà, è identificazione. Che passa inevitabilmente dall'identità. Toccante fino alla pancia, al cuore, allo stomaco, al fegato, all'anima. Se non sai da dove vieni non puoi decidere dove vuoi andare. Ognuno di noi ha una “Luce intorno”, molte volte è difficile scorgerla nel buio che spesso avvolge molte esistenze.

Tommaso Chimenti 10/12/2021

È in distribuzione nazionale e disponibile anche online (su Ibs, Amazon, La Feltrinelli, Mondarori Store) Dove volano gli asini, il libro d’esordio, edito da Il Viandante, di Federica Fusco, giornalista, vincitrice nel 2017 del Premio Polidoro con un articolo pubblicato sul Corriere.it, referente regionale del quotidiano «La Stampa» e responsabile Ufficio Stampa di rassegne e festival, tra cui lo storico Pescara Jazz. dove volano gli asini 840

Dove volano gli asini si presenta come il resoconto di un’esperienza personale che, nero su bianco, nasce da un viaggio in Africa per l’inaugurazione di una scuola nel villaggio di Agamsa ad opera del Progetto Etiopia onlus – Lanciano, presieduto da Angelo Rosato. L’autrice si discosta però dalla scrittura giornalistica e dalla cronaca per lasciare spazio a una narrativa più libera che tiene insieme, formando di più cose un tutt’uno, in poco meno di cento pagine, realtà e immaginazione, fantasia e fatti. Ciò a partire dal titolo, messaggio iconico che conferma le sue significazioni visive facendosi messaggio linguistico: si racconta infatti di una terra dove gli asini volano, parlano, piangono col loro raglio triste e di verdi e lussureggianti falsi banani, piante che, a dispetto del nome, non hanno nulla di finto. «Scherzetti della lingua», si legge nella nota dell’autrice che fa da Avvertenza al lettore. La sua Africa è la lontana e archetipica isola che non c’è, al di là del mondo, al di là dell’Occidente, al di là del nostro credo: un luogo magico e quasi irreale dove tutti i giornalisti sono d’accordo nel trovare che il cielo è «azzurrino», la lontananza «vaga», i tramonti «fatti di porpora e oro» (dal libro Tempo di uccidere di Ennio Flaiano). Come il lettore potrà scoprire e per dichiarazione di intenti dell’autrice, ci sono personaggi inventati, alcuni verosimili, altri veri che con lei hanno condiviso parte del viaggio e parte di sé. Nell’Africa che diventa libro, Federica Fusco ha incontrato una ragazza che, imbronciata e con un fiocco in testa che le impreziosisce i capelli scuri e crespi, è davvero la sorella di un bimbo aggredito da una iena perché una notte è uscito a giocare fuori dalla tenda, ma non si chiama Samar e non ha mai fatto la prostituta. È un’invenzione narrativa che non ha alcuna aderenza con la realtà. Molti invece, là in Africa, sono quelli che ancora credono che questi incidenti siano opera del diavolo. Anche Evale, la ballerina, bionda e bianca come il sole all’alba, non esiste. Angelo e Padre Musiè (Moise nel libro) invece sì, sono il presidente della onlus abruzzese e il suo principale referente in Etiopia. È con loro due, e non solo, che è stata inaugurata la scuola, ad Agamsa.

La sera dell’inaugurazione, con i musicisti Fabrizio Bosso e Luciano Biondini, il jazz si è unito in festa alla musica popolare africana, nell’aria che vibrava di percussioni e canti neri. Lasciando per un attimo le sue note, che sono quelle musicali, il jazzista italiano, testimonial del Progetto Etiopia onlus - Lanciano, scrive le note di copertina del libro: Bellissimo, minuzioso, fresco. Questo libro restituisce immagini favolose nel vero senso della parola. Immagini sospese a mezz’aria tra realtà e fantasia, come la luna tra la terra e il cielo (Fabrizio Bosso). A corredo del libro, si trovano alcune fotografie in appendice: una gallery di quattordici fotografie in tutto scattate tra Agamsa e la capitale etiope, Addis Abeba, immagini sospese appunto a mezz’aria tra la realtà e la fantasia, il documentario e la fiction che la giornalista narra.

Elvia Lepore, 26.03.2019

Martedì, 21 Marzo 2017 15:55

Quando diremo “Ciao” a Veltroni?

FIRENZE – Doveva andare in Africa a fare volontariato una volta lasciata la politica. Del Walter Veltroni sindaco di Roma si ricordano più le sue continue e infinite foto con Totti, che ha pure sposato, che i provvedimenti presi per la città. No, invece l'approvazione del nuovo piano regolatore che ha permesso ai costruttori edili di edificare settanta milioni di metri cubo di cemento ce la ricordiamo. Alemanno sostenne che Walter aveva lasciato il debito1Veltroni pubblico della Capitale ad 8 miliardi di euro. Ma anche la Notte bianca e la Festa del Cinema. Luccichini quando i problemi veri di Roma sono ben altri. Poi questo Paese ripulisce, santifica, certifica, consacra, perdona, soprattutto scorda, dimentica. Tu chiamale, se vuoi, rimozioni. Che se riporti alla memoria allora sei un fazioso, un acido, un arcigno detrattore. “È un cattivo travestito da buono. Persegue con ferocia i suoi obiettivi”, ne ha scritto Claudio Velardi.
Ricordiamo la sua passione juventina e il pamphlet sulla tragedia dell'Heysel (trentanove morti schiacciati tra le fila della tifoseria che parteggiava per il casato Agnelli, con la squadra di Platini che vince, e festeggia pure a braccia alzate sotto la curva, nonostante sapesse dei morti, con un rigore fuori area di due metri) che poi diede frutto anche ad una piece teatrale (in scena Francesco Murgo). Il titolo sembra il succo amaro, la sinossi acida, il riassunto stropicciato dalla storia d'Italia: “Quando cade l'acrobata, entrano i clown” che ha del 6Veltroniridicolo, del tragico, del triste, del colorato, dell'estro e della malinconia eterna italica. Ci hanno fregato, e per sempre saecola saeculorum, i panem et circenses. “A me m'ha rovinato la guera”, lanciava le sue molotov dialettiche Petrolini. “Veltroni è un elencatore di luoghi comuni. Parla di cose che non sa. Cita libri che non legge. È un anglista che non conosce l’inglese. Un buonista senza bontà. Un americano senza America. Un professionista senza professione”, ha annotato Giampaolo Pansa.
Vediamo un po' chi è Veltroni, spirito che aleggia sullo Stivale, da diversi decenni. Tra qualche anno ai bambini per farli dormire diranno: “Guarda che sennò arriva Veltroni, eh!”. Figlio di un dirigente Rai e della figlia dell'ambasciatore jugoslavo in Vaticano. Si comincia bene: comunisti e cattolici. Bocciato al Liceo Tasso di Roma. Deputato a poco più di trent'anni (sei legislature), nominato direttore dell'Unità (in allegato c'erano gli album Panini o il Vangelo) soltanto con in tasca la tessera di giornalista pubblicista, è stato segretario Ds poi Pd. Mai gli è riuscita la mossa per diventare premier. Cineasta con i documentari “Quando c'era Berlinguer” con interviste da Napolitano a Jovanotti, e di “I bambini sanno” con un vago tentato sentore pasoliniano. E' sia Cavaliere al Merito come Ufficiale della Legion4veltroni d'Onore francese. Ha doppiato Rino Tacchino nella versione italiana di “Chicken Little” della Disney. Un uomo per tutte le stagioni che si rifà, come stampo e come idea, un po' ad Obama un po' ad Al Gore, Hollywood e Kennedy, spruzzate di Don Milani. Pasolini e Mike Bongiorno e il citazionismo spinto all'ennesima potenza. “Uno strano miscuglio di discorsi rivoluzionari e pratiche perbeniste, slanci e sciatterie, avventure ideali e telefonate alla mamma”, ha appuntato Massimo Gramellini. Di Veltroni ricordiamo Guzzanti che fa Veltroni.
Beppe Grillo lo ha definito: “Il miglior alleato di Berlusconi”. Forattini lo disegnava come un bruco verde. I salotti, la paciosità, la pazienza, quel buonismo diffuso, quel buonvolontarismo che molto spesso finisce in una bolla di sapone al sapor di tanto fumo senz'arrosto, quel rimpastare, facendosi vedere dalla parte giusta, senza andare mai 3Veltroniveramente fino in fondo, quell'essere scomodo ma solo nelle dichiarazioni d'intenti. W il compromesso ecumenico, affermare un concetto e poi includere subito dopo, aprire una possibilità, anche al suo opposto. Uno svolazzare leggero da colibrì che raramente ha affondato la stilettata. Non ha fatto il servizio militare in anni in cui, i settanta, o andavi a fare il Car a urlare “Lo giuro” o obiettavi con il rischio di visitare Gaeta. Privilegi. Mai laureato. Accomodante, benevolo, mansueto. Lo avevano proposto alla presidenza della Lega Calcio. Panta rei. Tutto scorre, ma tutto torna anche. “Il veltronismo, con i suoi romanzi, i suoi musei, le sue foto accattivanti, i suoi cd e dvd alla moda solidale, i suoi “villaggi della pace” e i suoi “parchi della memoria”, e poi con gli artisti e gli sportivi disabili, gli ex deportati, gli eroi senegalesi, gli ultrà pentiti, le donne minacciate di lapidazione, i vecchietti2Veltroni rallegrati da Totti, i dipendenti comunali in permesso per volontariato, i barboni massacrati e poi premiati per il loro coraggio civico”, ha vergato Filippo Ceccarelli.
Ciao” è lo spettacolo teatrale tratto dall'omonimo libro. Un padre e un figlio. Massimo Ghini ha già nella sua carriera interpretato dei politici: in “Compagni di scuola” di Verdone era un onorevole feroce, in “Zitti e mosca” stava sullo sfondo al passaggio dalle Feste de l'Unità al divertimentificio attuale. Che Ciao è internazionale, dalla Russia al Perù, dall'Australia alla Finlandia, come pizza, spaghetti e mafia. La capiscono tutti. “Ciao” deriva dal termine “schiavo” in veneziano: sono schiavo vostro che con le varie elisioni ha portato a questa forma contratta. Che poi ciao sta nell'incontro come nel commiato, nell'arrivo come nell'arrivederci. Schiavi di Veltroni e del veltronismo. Ciao ci dice Walter sempre sorridente, affabile e placido, nei suoi nei (meno di Vespa e Renzi) nel suo doppiomento per alcuni rassicurante, quasi a benedirci con un buffetto e una parola quieta per tutti. E noi che ancora non lo abbiamo detto a lui. Moriremo cattocomunistidemocristiani, dicendo amen a voce alta e il pugno chiuso nascosto dentro l'eskimo, il segno della croce nei momenti di paura e la bestemmia sottovoce in canna.

Tommaso Chimenti 21/03/2017

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