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“Ridere rende liberi — comici nei campi nazisti”: l’ultima risata è del popolo ebraico

C’era spazio per la comicità all’interno dei lager nazisti? La risposta collettiva è sicuramente negativa, tuttavia un libro racconta l’esatto contrario. Martedì 3 maggio è stato presentato il volume di Antonella Ottai,Ridere rende liberi — comici nei campi nazisti” (Quodlibet 2016) nella cornice romana della Casa della Memoria e della Storia, un posto in cui risiede la reminiscenza documentaristica di un gran numero di associazioni (ANPI, ANED, etc) che tutte insieme significano una sola parola: libertà.
La libertà è la possibilità di godere della propria autodeterminazione, mentre la risata è il movimento facciale conseguente all’innato sentimento di leggerezza che prorompe quando i sensi sono colpiti da una lieta euforia. A questo punto bisogna essere negazionisti e affermare che tra tutto ciò che si poteva trovare in un campo di concentramento, dall’atroce rassegnazione alla creatività letteraria, è impossibile credere che a Dachau, ad Auschwitz o a Breitenau ci fosse spazio per qualche briciola di comicità o per un residuo di libero arbitrio. “Ridere rende liberi” invece testimonia la zelante esistenza artistica dei comici ebrei che affollavano la Germania pre-hitleriana e la sopravvivenza dell’ironia yiddish anche nei lager.
Antonella Ottai è una docente del Dipartimento di Storia dell’Arte e dello Spettacolo alla all’Università “La Sapienza” e propone un’opera a metà tra il saggio e il romanzo, di ampio respiro cultuale che passa da un punto all’altro dell’Europa. ridereFondato sull’indagine della storia orale, il libro riesuma i protagonisti della scena mitteleuropea: il comico Max Ehrlich, l’attrice Camilla Spira, il regista Kurt Gerron e molti altri, riempivano le platee di teatri come l’Eldorado — spazio famoso per essere stato il primo cabaret omosessuale. Questi nomi avevano in comune l’origine genealogica, l’umorismo di matrice ebraica e il tormento della shoah dopo la promulgazione delle leggi razziali. L’autrice rintraccia la tradizione autoironica in lingua yiddish che animava le notti europee prima del 1933 e spiega come la tragedia degli ebrei fosse anche la tragedia del mondo degli artisti. Il libro è un’analisi storica, socio-antropologica e persino psicologica che mette in luce una realtà meno conosciuta e unisce il racconto documentaristico al racconto culturale, correlando l’intero testo di un fitto apparato di note, riferimenti bibliografici e fonti d’archivio.
Tutto parte da un prologo con il racconto del padre dell’autrice che ricorda il proprio soggiorno berlinese prima del Terzo Reich, nei giorni in cui la capitale tedesca era il centro del divertimento. Tutte le libertà erano concesse a Berlino, fino a quando i costumi sfavillanti, il chiasso festante, la confusione dei generi e i balli sfrenati cadono nella fossa comune del Nazismo.
In conclusione, nei campi nazisti c’era posto anche per la risata, unica vera autonomia. Arbeit macht frei è una grande frottola, lo sappiamo, ma l’animo cabarettistico degli ebrei internati non si è mai spento neanche durante la detenzione; all’illusione che il lavoro potesse essere l’unica via per evadere dalla realtà dei campi di concentramento, il popolo giudaico ha opposto la sua naturale vis comica. Il volume della Ottai racconta come il popolo ebraico, privato dei propri spazi scenici, espulso dal teatro e dal mondo, abbia cercato la propria libertà anche all’inferno.

Susanna Terribile 07/05/2016