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Eshkol Nevo: l’irrequietezza che dai “Tre piani” dell’anima conduce alla piazza

La casa: il luogo in cui faticosamente viene a formarsi la nostra identità, tra le cicatrici dell’esperienza e i fantasmi che accompagnano ogni crescita. Questa è l’ambientazione che diviene tematica in Tre piani (2017), quinto romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, da cui Nanni Moretti ha deciso di trarre il suo ultimo film. Ed è una triste coincidenza il fatto che la pellicola sia in questi giorni bloccata nella sua uscita, mentre gli schermi restano spenti e noi rimaniamo costretti alle nostre abitazioni.
Sfogliare le pagine di questo libro nell’attesa che le sale riaprano offre l’occasione per immergersi in una narrazione avvincente che apre uno squarcio sulle contraddizioni della realtà israeliana contemporanea, e per provare ad immaginare come il soggetto possa ibridarsi nel suo adattamento cinematografico, una volta innestato nelle nostre città e nei nostri quartieri.
Nei pressi di Tel Aviv si erge una palazzina di tre piani. Il parcheggio è ordinatissimo, le piante perfettamente potate all’ingresso, e nessuna casella della posta riporta più di due cognomi. Nonostante la facciata sia verniciata di un’imperturbabilità apparente, le vite di chi vi abita sono attraversate da inquietudini laceranti.
Ad ogni capitolo corrisponde un piano, e ad ogni piano una delle istanze in cui la personalità psichica freudiana risulta scomposta. Es, Io e Super-Io sono di volta in volta incarnati da un personaggio che consegna il proprio racconto ad un unico destinatario, nella riservatezza di un incontro, di una lettera o di un lungo messaggio alla segreteria telefonica. I nodi della vicenda vengono così sciolti attraverso la trama intessuta dall’autonarrazione dei protagonisti. nevo.jpg
Al primo piano vivono Arnon e Ayelet, giovane coppia di genitori, che occasionalmente affida la figlia Ofri alle cure degli anziani vicini della porta di fronte. Tenendo fede alla Seconda Topica freudiana siamo nel luogo in cui regna il principio di piacere, e l’intera vicenda, che si tinge di giallo, sembra innescata dalle irruenti pulsioni dalle quali Arnon è attanagliato e alle quali si trova sistematicamente a cedere. L’abbandonarsi a scatti di aggressività o al tradimento viene comunque ricollocato dal protagonista in una logica di attaccamento e protezione nei confronti della moglie e delle figlie, in un sistema di comportamento che difficilmente può essere compreso e accettato laddove viga il principio di realtà. «E tutto questo per cosa? Cosa volevo, in fin dei conti? Proteggere le mie donne, difenderle. Garantire che nessuno facesse loro del male - afferma trattenendo le lacrime l’uomo - Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per amore, mi credi?».
Salendo di un piano, si scopre che la dimora dell’Io è tutt’altro che granitica, strutturalmente incrinata e costantemente minata nel suo equilibrio dal sopraggiungere di spettri – primo fra tutti, quello della follia.
Ad impersonare questa istanza è allora Hani, tormentata madre di due bambini, conosciuta nel condominio come la «vedova», per via delle lunghe assenze dovute al lavoro del marito Assaf. «Un marito, due figli. Una stanza tutta per me. (Avrei voluto credere) che tutto questo mi avesse dotata di una certa stabilità - scrive la donna confidandosi ad un’amica - Ma evidentemente la nostra anima non procede in avanti, solo in cerchi. E ci condanna a cadere nelle stesse buche».
Quando Hani si ritrova a dare riparo al cognato Eviatar inseguito dai creditori, non è guidata da nessuna legge biblica d’accoglienza, ma obbedisce forse soltanto all’imperativo interiore di sfuggire alla solitudine. E la precaria mediazione tra le spinte erotiche e il pressante richiamo al dovere di un Super-Io che ha voce di «barbagianni», viene condensata nell’immagine poetica e potente di un rapporto sessuale fatto di sole parole, con un tavolo in mezzo a dividere i corpi.
L’appartamento al terzo piano di Dovra, giudice in pensione a cui è morto il marito, sta per essere sgomberato e messo in vendita. Perché quelle solide mura che hanno ospitato un inflessibile rigore morale, esercitato nella professione così come negli affetti, possano aprirsi ad una concezione più ampia e pulsante del diritto. È estremamente simbolica la discesa che la donna compie dall’ultimo livello del condominio fino alla piazza dove imperversa la cosiddetta «protesta delle tende»: dalle cattedre di un tribunale per emettere sentenza, la legge si avvicina ai manifestanti per offrire sostegno ai loro «slogan zoppicanti» e alle loro richieste di giustizia sociale. Dall’idea di «sogno collettivo» intuita tra quei giovani in rivolta, l’ex giudice si avvicina alla lettura di Freud, ritenendo però che «i tre piani dell’anima non esistano dentro di noi», ma soltanto «nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia». E se in quella fragile intercapedine la parola conduce a malintesi, è nel «gesto» che si può ritrovare la vicinanza. Se nel deserto dell’Aravà una dedizione silenziosa riesce a strappare la vita all’aridità, nelle piazze di Tel Aviv l’avanzare rumoroso di «un’infinità di persone non più disposte ad accettare le cose come sono» permette agli ideali del «Milione» di fiorire facendosi azione.
La brillante intuizione narrativa di Tre piani intreccia allora la profondità dell’analisi psicanalitica e l’attenzione alle sottili dinamiche che perturbano i legami familiari con la determinata situazione politica e sociale che attraversa Israele (i fatti a cui si fa riferimento risalgono al 2011): dietro la porta blindata di ogni abitazione si cela un’irrequietezza, che appena varca la soglia e si scopre condivisa, incontra la possibilità di trasformarsi in lotta e desiderio.

Chiara Molinari

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