Viviana Toniolo ci viene incontro nel foyer del Teatro Vittoria, il suo teatro, ne ha condiviso la direzione per anni con il compagno Attilio Corsini, scomparso qualche anno fa. Al seguito il cagnolino, calmo, distinto, che si poggia ai nostri piedi. Guardandoci attorno ci accorgiamo di essere circondati da magnifiche locandine che hanno segnato la storia del teatro. Oltre a una foto di Woody Allen, lo sguardo si sofferma sul manifesto di “Rumori fuori scena”, lo spettacolo che nel 1983, per la prima volta portato in Italia dalla compagnia Attori e Tecnici, stupì critica e pubblico. Veniamo colti sul fatto dalla Toniolo che sorride e inizia a raccontarci un aneddoto. Michael Frayn, autore della commedia, consigliò a Peter Bogdanovich di vedere il loro spettacolo: «devi andare in Italia, a Roma, così ti farai un’idea precisa di quello che cerchi», fu così che prese posto in platea, per cinque recite consecutive. Dopo aveva tutto chiaro, era quel perfetto meccanismo a orologeria che voleva riprodurre nel suo film e la complicata e buffa serie di implicazioni che spinge una compagnia a unirsi durante la tournee perfezionando ogni singolo passaggio. Oltre al passato, Viviana Toniolo parla del presente, della rassegna Salviamo i Giovani Talenti.
Com’è nata l’idea di una rassegna interamente dedicata a giovani e talentuosi sconosciuti?
“Quando ho preso in mano la direzione del Teatro Vittoria ho pensato a lungo su come dare risalto e spazio ai giovani, visto il momento critico che si stava e si sta ancora affrontando. Già per le compagnie consolidate e conosciute è complicato e ho pensato che per loro fosse impossibile. Ero in teatro e finito lo spettacolo, nei camerini un’attrice molto bella e a dir la verità non molto brava di cui non ricordo il nome, mentre finiva di truccarsi, disse «Oggi non c’è più nessuno di bravo in giro», in quel preciso momento mi scattò la molla, ebbi la ferma convinzione di volerla dissuadere, di dimostrarle che non poteva essere così. Durante quella notte insonne decisi che la rassegna Giovani Talenti fosse l’occasione giusta e l’icona perfetta per rappresentarla fosse un panda, animale in via di estinzione, tenero e desideroso di protezione. Come il teatro che se non verrà preservato e soccorso subirà la stessa sorte, la fine. Il primo anno feci tutto da sola, mi recai nei teatrini Off, alla ricerca di giovani che mi colpissero, una volta erano luoghi speciali, magici, dove crescevano nuove leve, ad esempio Gigi Proietti, Cristiano Censi e sì, anche Carmelo Bene”.
Com’è organizzata la rassegna?
“Ci sono due giurie, una composta dal pubblico e l’altra da tecnici, esperti che dovrebbero poter scritturare un singolo attore, autore o addirittura tutta la compagnia. Direttori di teatro, registi, direttori di doppiaggio, individui che sappiano riconoscere la bravura di un giovane e capiscano di averne necessità. Questo era il mio sogno. Sono nove anni che portiamo avanti la manifestazione e proviamo a dare valore a questa aspirazione che coltivo. Ma fa male al cuore ed è fortemente demoralizzante il fatto che non ci sia stato più interesse e tutto sia scemato con il trascorrere del tempo. I vincitori saranno in cartellone per la stagione 2017/2018, avendo la possibilità di esibirsi non solo sul palcoscenico del Teatro Vittoria una seconda volta ma di apparire insieme agli altri grossi nomi inseriti in programmazione. Qualche risultato lo abbiamo ottenuto. Gli attori pur avendo difficoltà possono trovare spazio con maggiore facilità, ma pensi a un giovane scenografo o un giovane costumista? Se gli va bene farà l’assistente a vita. Proprio per questo motivo avevo pensato a un’altra rassegna oltre a quella dei Giovani Talenti, ma si concluse male per motivi economici. Sono progetti molto costosi. Fu splendido, giunsero ragazzi da tutta l’Italia, dal Friuli Venezia Giulia alla Sicilia, esibirono i loro progetti, ispirati allo spettacolo che la nostra compagnia avrebbe portato in scena, La tartaruga di Darwin. Solo alcune note del regista furono concesse ai ragazzi che proposero scenografie e costumi. Dopo averne fatto una mostra abbiamo scelto il più convincente in entrambi i campi per l’allestimento tratto da un opera di Juan Mayorga”.
Pensa che la critica non sia più in grado di esercitare il suo compito, riconoscere e quindi lodare il lavoro di giovani teatranti? Forse è venuto il momento che questo percorso lo intraprendano i direttori di teatro?
“È una questione che mi amareggia molto, non escono più bei pezzi di critica, le redazioni non danno più spazio al teatro e questo meccanismo ha favorito a trasformare Roma da capitale a palude culturale. Pur mettendoci amore, passione, le idee giuste, sei continuamente avvilita dai risultati mediocri. I giornalisti una volta andavano a teatro, si interessavano e quando vedevano un talento sapevano riconoscerlo, con le loro recensioni gli davano l’opportunità di farsi conoscere. Quando fondammo la compagnia Attori e tecnici e mettemmo su il nostro spettacolo al di fuori dei canoni istituzionali, avevamo in platea come spettatori tutti i più grandi critici del panorama da allora, come De Monticelli, Aggeo Savioli, Masolino d’Amico. Scrivevano lunghe e illuminanti recensioni che incuriosivano il pubblico fornendoci un’opportunità. Erano in grado di aprirti il mondo. Alla fine Luigi Squarzina che dirigeva il Teatro Argentina rimase così impressionato da lascarci in concessione il Teatro Flaiano. Eravamo giovani, under 35, siamo partiti da lì, dalle impressioni dei cretici, loro erano i responsabili della lunga coda al botteghino. C’era più movimento, più attenzione. Noi siamo stati aiutati moltissimo dai giornalisti, oggi invece non si presentano neanche almeno che non ci sia un nome di richiamo. È un disastro”.
Come considera il suo teatro se dovesse trovare una categoria dove inserirlo?
“Insieme a Attilio Corsini e alla compagnia Attori e Tecnici non abbiamo mai pensato a categorie specifiche, non ci sono mai interessate, facevamo teatro e basta. Attilio diceva sempre che qualunque cosa si facesse era pura sperimentazione. Portavamo in scena la musica, suonavamo il flauto, la fisarmonica, il pianoforte, la chitarra e il sassofono. Per l’Italia era sicuramente qualcosa di strano e curioso. Uno spettacolo era semplicemente bello o brutto. Dopo il Flaiano siamo stati in grandi teatri come il Valle e in giro per i Teatri Stabili in tournée che duravano dieci mesi all’anno, cosa ora immaginabile. Lavoravamo anche d’estate. E la cosa che oggi mi fa sorridere è che ci lamentavamo, non eravamo soddisfatti di com’era il teatro di allora e volevamo qualcosa di diverso. Siamo riusciti nel nostro intento perché tutto era possibile. Facevamo spettacoli molto particolari, I Due sergenti parlava di teatro nel teatro, come Rumori fuori scena, mentre Il gatto con gli stivali di Ludwig Tieck, era pieno di follia, di magia. Ad Attilio piacevano le cose strane, mettemmo in scena Intrighi d’amore del Tasso che non era mai stato rappresentato e La pulzella d’Orleans tradotto dal Monti. Erano cose interessanti che in qualche modo si trasformavano in scena e diventavano commedie, gli spettatori ridevano, si divertivano. Il nostro scopo era attirare gli intellettuali quanto il popolo, ecco il teatro che vorremmo essere”.
Qual è il modo giusto di investire sul Teatro?
“Le dico solo che la prima volta che facemmo richiesta al Ministero avevamo appena costituito la compagnia Attori e Tecnici e ci diedero 17 milioni, un’enormità a quel tempo. Da attori ancora non professionisti eravamo squattrinati e quel finanziamento ci permise di partire, di organizzarci e sopravvivere. Adesso invece dobbiamo lottare di continuo, viviamo con l’ansia, purtroppo gli incassi non bastano e i soldi pubblici diminuiscono di anno in anno. Siamo giudicati in base ai numeri, a punteggi che ci vengono assegnati da individui che non sanno neanche immaginare il funzionamento di un teatro. Nell’ultimo report per le iniziative che coinvolgono i giovani c’è stato assegnato 0,5, neanche la sufficienza. Eppure il progetto era dettagliato. Ci hanno tagliato molto soldi non avendo consapevolezza di ciò che facciamo, non hanno di fronte la realtà di fatti, ma solo quella numerica. Non considerano il nostro passato, la nostra storia, c’è sempre stata grande generosità verso i giovani. Molti anni fa facemmo con i ragazzi usciti dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Vita e morte di cappuccetto rosso di Ludwig Tieck, molti sono rimasti in pianta stabile, sono ancora qui con noi. È merito di una determinata forma mentis che ci siamo costruiti. Negli ultimi anni i tagli hanno provocato una tragedia, tu fai i preventivi pensando di avere lo stesso budget dell’anno prima e poi ti ritrovi con molto meno di quanto pensavi e sei nei guai. Quando il progetto è realizzato non puoi più tornare indietro. I costi giornalieri di un teatro sono enormi, tra affitto e personale. Tutti i teatri a Roma sostengono costi tutto l’anno ma l’estate il pubblico non entra, quindi hai gli stessi costi senza incasso per tre mesi, hai idea di quanto sia il deficit? Ci vuole coraggio, maggiore informazione, più spazio. È difficile cambiare le cose, io dico sempre che la mia vita è diventata una lotta continua”.
Francesca Fazioli 11/06/2017