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Una vocazione coltivata, tra Bellocchio ed Emma Dante: intervista a Gabriele Cicirello

Il teatro come inesauribile impulso ad imparare, un po’ su se stessi, un po’ sul mondo circostante: è forse questa la chiave di lettura che si può dare al percorso di Gabriele Cicirello, attore trentunenne palermitano diplomatosi all’Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico". Due film in uscita – Koza Nostra di Giovanni Dota ed Esterno notte di Marco Bellocchio – Cicirello ha alle spalle una teatrografia variegata: lo hanno diretto registi abissalmente diversi come Bob Wilson ed Emma Dante, come Giorgio Barberio Corsetti e Maurizio Scaparro, mentre la scelta dei testi varia da Euripide a Fassbinder, da De Filippo a Steinbeck. Lo stesso Cicirello ha manifestato una vocazione per la scrittura con Caterina, un monologo su un femminicidio “ipotizzato”, e con lo spettacolo in dialetto siciliano Con tutto il mio amare, sulla scomparsa di una bambina. Ecco un primo bilancio delle esperienze e degli esiti di questo primo atto di una carriera da monitorare attentamente.

Com’è nata la tua vocazione per la recitazione?
Io sono figlio d’arte, perché anche mio padre fa l’attore, così come il mio fratello maggiore, Paride. Mio padre è rimasto legato alla dimensione regionale siciliana. Mi ricordo benissimo di quando mia madre mi portava in braccio a vedere le prove: il teatro ha sempre avuto un odore di casa per me. Però, se da un lato questa passione mi è stata tramandata, dall’altro ho dovuto coltivarla: avevo paura di fare qualcosa di indotto inconsciamente e ho provato ad allontanarmi dalla recitazione, cominciando a studiare giurisprudenza… pian piano però ho sentito un flusso che mi ha riportato al teatro. Qualche anno dopo il liceo, ho cominciato a frequentare l’Accademia e da lì la passione si è rafforzata. Per senso di protezione, mio fratello – che è più grande di cinque anni e aveva fatto a sua volta l’Accademia – mi ripeteva: «È un mondo difficile, dovresti fare qualcosa che ti possa fare soffrire meno». Eppure lì ho capito che il mio desiderio era autentico e che avrei voluto fare quello per tutta la vita, per quanto non sia facile raggiungere un equilibrio in una famiglia con ben tre attori…

Qual è il primo spettacolo di tuo padre di cui hai un ricordo consapevole?
Ricordo bene un suo spettacolo per le scuole che si chiamava Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, in cui c’era pure un giovanissimo Salvo Ficarra. Era molto accessibile come linguaggio, anche per me che ero piccolo, ed è stato un avvicinamento piacevole al teatro.

Qual è stato il tuo idolo nell’ambito della recitazione?
Mio fratello Paride inconsciamente mi ha portato ad amare Gian Maria Volontè. Quello che Volontè ha fatto nella sua carriera è ciò che rende speciale questo mestiere, secondo me: una continua trasformazione, un impegno anche politico, e la capacità di fare scelte estremamente consapevoli. Ha seguito una linea ed è stato coerente. L’interpretazione che ha dato in Sacco e Vanzetti è sicuramente una delle mie preferite, mentre Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto mi affascina perché l’esagerazione del personaggio (data anche da un accento che stona all’orecchio di un siciliano) non mette minimamente in dubbio la sua credibilità: Volontè è talmente bravo che lo fa esistere nonostante gli elementi stridenti.

Ti è stato insegnato un “metodo” di recitazione nel tuo percorso di formazione?
No, anzi, sono contento del fatto che in Accademia non si insegni un “metodo”, perché sarebbe limitante: ne esistono tanti e ciò che conta è riuscire ad acchiappare tutto ciò che riesce a farti crescere artisticamente. Maestri come Lorenzo Salveti o Massimiliano Farau hanno approcci del tutto differenti, ma tutti funzionali. Nel triennio ci è stata data la possibilità di lavorare con registi diversissimi, e questo è stato molto gratificante. Anche quando c’era qualcosa che non mi piaceva, mi era comunque utile. Un’altra cosa che ci tengo a dire è che ho imparato molto dai compagni di corso. Appena entrato, avevo un atteggiamento di chiusura, del tipo: «Sarò il più bravo di tutti!». E invece mi è bastato pochissimo tempo per accorgermi delle qualità dei miei compagni e cominciare a imparare da loro, oltre che dai docenti.

Quali sono stati gli approcci registici più “agli antipodi” con cui ti sei confrontato?
Il lavoro con Bob Wilson è stato molto particolare. Al di là dell’ostacolo della lingua e del timore dato dall’approcciare una persona di tale spessore, la difficoltà è derivata dal suo rapporto con noi: per Hamletmachine richiedeva movimenti ben precisi, come se l’importanza dell’effetto scenico superasse quella degli attori. Ovviamente non voglio dire che gli attori non gli interessassero! Quel che è certo è che l’effetto di scenografia, luci, atmosfere e movimenti era più dirompente rispetto alle parole. Il provino è stato anche abbastanza strambo: ci faceva dire delle battute con suoni diversi, come se le parole non avessero senso. Insomma, un lavoro pazzesco che potrebbe non ricapitarmi mai più nella vita, ma non è proprio il teatro che voglio fare. Una regista diversissima da Wilson è Emma Dante, con cui desideravo moltissimo lavorare. Quella che ho fatto con le sue Baccanti è stata un’esperienza molta emotiva e fisica, e quindi più nelle mie corde.

Com’è stato invece lavorare con Arturo Cirillo, tra l’altro affrontando un drammaturgo ostico come Fassbinder per Un anno con tredici lune?
Fassbinder lo conoscevo superficialmente, ma Arturo ha un modo tutto suo per trasmetterti l’anima di un autore. Sceglie spettacoli che gli permettono di approfondire qualcosa che gli sta a cuore, e quindi ti dà tutte le indicazioni per farti aderire al contesto e alla tematica. Devo dire che con quello spettacolo ho scoperto qualcosa in più su di me, attraverso un ruolo completamente diverso da tutto ciò che mi sarei mai immaginato di poter fare. Questo spettacolo mi ha lasciato il desiderio di fare cose sempre nuove, perché questo è un mestiere immenso: non si finisce mai di imparare e di scoprire.

Qual è stato il ruolo che ti ha imposto uno studio maggiore su te stesso?
Tra tutti quelli fatti in Accademia, forse quello che mi ha coinvolto di più è stato il Tiresia delle Baccanti di Euripide, diretto Emma Dante: non dovevo soltanto capire quello che Tiresia diceva, ma anche come camminava e qual era il suo ritmo. Dovevo allenarmi a tenere gli occhi reclinati all’indietro come richiesto dalle mie scene, e infine collegare tutte le particolarità fisiche al suo modo di esprimersi. Il fisico deve avere lo stesso linguaggio della parola: non possono andare uno da una parte e l’altro dall’altra, e questa parte me lo ha fatto capire meglio.

Parlaci invece dei testi che tu stesso hai scritto.
La prima volta che mi sono messo in gioco con la scrittura è capitata undici anni fa, dopo aver vinto un premio portando in scena dieci minuti di un testo scritto da mio fratello. Per l’occasione mi è stato chiesto di sviluppare uno spettacolo partendo da quelle quindici pagine, che raccontavano l’amore inappagato di un uomo per una donna, che lo porta a un blocco artistico. Io ho voluto andare più a fondo, perché quest’uomo arriva a uccidere la donna, anche se non è chiaro se lei sia mai esistita o meno. Si parla quindi di un femminicidio, ma in maniera molto grottesca. Ne è venuto fuori questo spettacolo, Caterina, che continuo a riproporre adattandolo alla mia crescita personale.

Da cosa deriva questo tuo interesse per il femminicidio?
Il tema mi ha sempre colpito – anche perché nel liceo in cui andavo una ragazza era stata uccisa dal fidanzato – e sono convinto che un artista debba approfondire e divulgare argomenti di questo peso, per poterli combattere. Ultimamente ho fatto anche un recital che si chiama Rosaspina con la cantante Serena Ganci, con cui porto in scena testi tratti da Ferite a morte di Serena Dandini.

Parliamo dei tuoi film, infine…
La mia prima esperienza cinematografica è stata nel Traditore. Quando facevo l’Accademia, non facevo altro che dirmi: «Il cinema non mi interessa, voglio fare l’attore teatrale e basta». Poi un’agenzia cinematografica mi ha preso, ho cominciato a fare dei provini e ho avuto la fortuna di incontrare Bellocchio, il quale mi ha aperto un mondo. Poi, fare il primo ciak con Favino è pur sempre una bella soddisfazione! Se la mia prima esperienza fosse stata con un altro regista, non so se avrei continuato. In Esterno notte ho una piccola parte, quella di un regista che gira una specie di instant movie sul Caso Moro, una sorta di film nel film. Non so cosa resterà delle mie scene nel montaggio definitivo, però è stato talmente bello stare sul set e vedere un vero Maestro al lavoro, che anche se mi tagliassero mi considererei soddisfatto. Speriamo di no, comunque!

Andrea Meroni 12/05/2022