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Un Uomo Inesprimibile: intervista agli allievi registi Raffaele Bartoli e Carmelo Alù

Il Principe di Homburg, adattato dall’allievo regista Raffaele Bartoli per per lo spettacolo Un uomo inesprimibile, 4 studi su Kleist, saggio dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" , indaga il punto di contatto tra sogno e realtà. Preferendo al tema portante della vittoria un’indagine sull’inconscio umano, mette in scena la tensione verso l’azione, esplorando il contatto tra motivazione e atto. A noi ha spiegato lo studio e il percorso che, assieme al M° Corsetti, ha affrontato per il suo allestimento.

Marco Bellocchio e Gabriele Lavia hanno entrambi dato una loro interpretazione de Il Principe di Homburg. Ne hai tratto ispirazione per il tuo adattamento?

C’è stata un’intensa fase di studio per l’adattamento e ovviamente abbiamo cercato di riunire in un’unica mezz’ora, molto intensa, tutto il Principe di Homburg –cosa impossibile. Abbiamo scelto, assieme ai ragazzi, un taglio che prediligesse l’ottica del principe, il fatto che lui si perda nei sogni e in una visione distorta della realtà. E facendolo abbiamo capito che l’opera può essere rappresentata in mezz’ora poiché la sua profondità è tale da lasciare un’eco molto più ampia, anche dopo il tempo della rappresentazione. Il lavoro di Bellocchio è incentrato molto sulla psicologia freudiana, noi abbiamo preferito un’interpretazione più libera.

Se avessi modo di poter lavorare ancora su Kleist cosa sceglieresti?

Le ultime due opere, Il Principe di Homburg e Penthesilea, sono sicuramente le più mature, intrise di una conoscenza della vita che ritroviamo in misura minore nelle precedenti. Mi è venuta veramente voglia di fare tutto Il Principe di Homburg perché è un’opera di una modernità che avrebbe potuto scrivere un autore contemporaneo, come Checov. Penso che valga lo stesso per Penthesilea e quindi mi piacerebbe molto affrontare questi due testi con la coscienza moderna dei valori umani, singolari e in contrasto con la società.

Quali difficoltà hai riscontrato nella messinscena?

La difficoltà drammaturgica è stata affrontata a tavolino, come ad esempio la condensazione de Il Principe in trenta minuti. Per quanto riguarda lo spazio credo che uno spazio più difficile sia ricco di occasioni; a noi, quindi, Villa Piccolomini ha dato la possibilità di sviluppare giochi differenti, usando spazi già formati. Potrei dunque definirle occasioni, più che difficoltà.

Il tuo rapporto con l’autore e con il M° Corsetti?

Il M° Costretti mi ha mostrato una maniera di lavorare con gli attori molto libera, interattiva, attenta all’attore. Mi ha insegnato a mettermi in ascolto dello spazio, della messinscena e di quello che può dare l’attore, sfruttando a fondo il luogo e il materiale che si trova.

Kleist mi ha affascinato e mi affascinerà farlo in futuro, perché penso che lavorerò su di lui ancora per qualche anno.

Carmelo Alù, allievo regista del II anno, ha sviluppato, per lo spettacolo Un uomo inesprimibile, 4 studi su Kleist, Penthesilea. Protagonista della tragedia è la giovane regina delle amazzoni che, avida di un folle amore, sbrana in battaglia l’adorato Achille. Indagando i lati più oscuri della passione, Penthesilea mette a fuoco l’ambiguità che si cela dietro all’eros, dove l’annullamento del singolo può portare fino all’estremo atto della morte. Di seguito Carmelo Alù ci racconta il percorso che ha affrontato, grazie al sostegno del M° Giorgio Barberio Corsetti, per portare in scena la sua regina amazzone.

Penthesilea è un testo molto forte, in cui è un insensibile universo femminile a farla da padrone. Perché questa scelta?

Mi interessava il fatto che un autore appartenente al mondo militare volesse affrontare una figura femminile così forte presa addirittura dalla mitologia greca. L’ho presa come una sfida: l’idea che un uomo romantico potesse affrontare, non solo una donna, ma una donna che combatte. È una donna presa da un altro mondo.

Kleist scrisse Penthesilea mentre era detenuto in carcere. Lo hai preso in considerazione per il tuo allestimento?

Sì, perché quando abbiamo fatto i sopralluoghi qui a Villa Piccolomini avevo già intenzione di utilizzare uno spazio molto stretto, per andare contro l’idea di un campo di battaglia. Perché, in realtà, tutte le battaglie sono raccontate; volendo favorire il racconto e il contatto con il pubblico ho scelto infatti una stanza stretta. L’allestimento, quindi, tiene conto di spazi un po’ più cupi che conservano toni romantici, come il movimento artistico.

Com’è stato il tuo rapporto con l’autore Kleist e con il regista Giorgio Barberio Corsetti, con cui hai lavorato?

Giorgio ci ha fatto veramente innamorare di Kleist, dell’autore, più che delle opere. È un punto di vista che difficilmente un regista riesce a cogliere: prima l’autore che il testo. E quindi siamo arrivati a un lavoro unico, di grande respiro a mio avviso, su un autore che invece viene spesso rappresentato in maniera troppo claustrofobica, ristretta e limitata.

Elena Pelloni 24/02/2016