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“Un uomo inesprimibile - 4 studi su Kleist”: intervista al M° Giorgio Barberio Corsetti

Regista e drammaturgo di fama internazionale, Giorgio Barberio Corsetti ha curato l’allestimento del saggio dei suoi allievi registi del II e III anno dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Noi di Recensito l’abbiamo incontrato prima della prova generale nella suggestiva location di Villa Piccolomini, dove, fino al 29 febbraio, andrà in scena “Un uomo inesprimibile - 4 studi su Kleist”.

Lo scorso anno ha curato il saggio dei suoi allievi dedicato a Pier Paolo Pasolini, perché quest’anno la scelta è caduta su Heinrich von Kleist?
“Kleist come Pasolini era un poeta. Sebbene siano vissuti in secoli differenti, entrambi si sentivano inseguiti da un demone che minacciava, da un lato, l’estrema voglia di vivere di Pasolini e impediva, dall’altro, a Kleist di trovare il proprio posto nel mondo. Pasolini ha vissuto nel desiderio di toccare i limiti; Kleist è sempre stato in equilibrio, con un’incapacità di fermarsi in un posto o di vivere e seguire il suo destino sociale, con la necessità di scrivere e trovare un riconoscimento proprio attraverso la scrittura. Pasolini ha avuto successo ed è stato condannato a morte per la sua diversità ed eccentricità, Kleist si è tolto la vita perché non riusciva a trovare il suo ruolo nel mondo che lo circondava. La scrittura di Kleist, così furibonda, feroce, violenta, estrema, piena di sospensioni e cadute, di stati altri, in cui i suoi eroi svengono e soffrono di sonnambulismo, ci porta in una zona della coscienza che, nel secolo successivo, è diventata l’inconscio. Pasolini, con il suo furore ideologico, ha sempre viaggiato nelle zone liminari tra il conscio e l’inconscio, tra la poesia del sentimento, della percezione, del sublime, del sacro e dell’impegno civile. Insomma, ci sono dei parallelismi e sicuramente sono due figure eccentriche che, in modi diversi, hanno toccato tutti i luoghi possibili del sapere, applicando la scrittura e la pratica della poesia in maniera dissimile in diversi ambiti della letteratura e del teatro.
Kleist ha scritto un teatro impossibile, mai messo in scena mentre era in vita, che costringe gli attori, nel momento in cui lo dicono e lo proferiscono, a entrare fino in fondo in una zona altra e conoscere delle parti di loro stessi che probabilmente non arriverebbero mai a esplorare.”

La scelta di Villa Piccolomini come location e la costruzione itinerante dello spettacolo deriva dalla scelta dei testi?
“Villa Piccolomini sembra fatta apposta per Kleist. Basta entrare nel parco, nel silenzio, in questo mondo a parte, in questa villa con le stanze vuote in cui risuonano i passi di chi ci cammina dentro.”

Molte delle opere scelte dai suoi allievi sono state portate in scena da registi come Castri e Bellocchio, oltre che da lei stesso. Ha consigliato loro di prendere in considerazione gli allestimenti del passato o ha preferito lasciare loro carta bianca e affrontare il testo in modo più personale e libero?
“Il consiglio è stato, sicuramente, di essere liberi e di muoversi nella zona che più si confaceva loro rispetto a quel materiale. Dei passati adattamenti, per me è interessante la messa in scena del “Principe di Homburg" di Peter Stein al Schaubühne am Halleschen, in cui Bruno Ganz interpretava il Principe. Personalmente ho messo in scena questa stessa opera ad Avignone, che ha lasciato un segno nel mio intero lavoro. Ci sono tante messe in scena, testi e film da cui trarre ispirazione: “La Marchesa von O”, bellissimo film di Eric Rohmer dedicato all’omonimo racconto; “Amour Fou” di Jessica Hausner, dedicato agli ultimi giorni del poeta tedesco. Esiste una letteratura e un filmografia sull’opera di Kleist che è molto interessante e che va a nutrire quell’immaginario ma, alla fine, ciò che mi interessava era che ognuno di loro si cimentasse, in questo linguaggio, con qualcosa che gli piacesse particolarmente. È come dire a uno studente che sta imparando a suonare uno strumento “Ora suoni Bach”, per cui è necessario entrare nel contrappunto, in una dimensione che è anche un pensiero differente della musica. Interpretare Kleist vuol dire entrare in un modo di recitare e in un pensiero della recitazione diverso, ed è questo che è intrigante. In certi casi si arriva a farlo e in altri no, ma già il confronto diventa un momento di crescita. L’universo del teatro è pieno di scritture differenti e ogni volta che ci si misura con un autore si accetta una sfida, ancor di più quando ci si cimenta con poeti che hanno un corpo di cui si percepisce la presenza, benché non sia quella fisica, che si manifesta con proprio con la scrittura, che ha una sua continuità, un certo tipo di coerenza ed è popolata da correnti e flussi. Nel caso di Heinrich von Kleist si passa dalle lettere ai racconti, dalle pièce teatrali agli scritti, fino al saggio “Sul Teatro delle Marionette”, mentre l’opera di Pier Paolo Pasolini va dagli “Scritti Corsari” ai film e al teatro. Immergersi in questa vastità significa confrontarsi, non solo con la pièce, ma con quell’universo che è, nel caso di questi due poeti, un’attenzione molto diversa nei confronti della vita, dell’esistenza e del mondo. Un rapporto col mondo di scontro, di lotta, di conflitto e per dei giovani artisti credo sia molto importante.”

Quanto insegna e quanto impara lavorando al fianco di giovani registi?
“La cosa interessante è che nel momento in cui ognuno di loro sviluppa, in maniera totalmente autonoma, il tema, delle volte si scoprono degli angoli, delle zone, delle possibilità che non si erano prese in considerazione prima. Quando si lavora con altri artisti, anche se giovani, questo accade sempre. A seconda delle sensibilità e del modo di vedere un’opera, si portano alla luce degli ambiti mai esplorati prima, ed è un’esperienza bellissima e ricchissima.”

Quali sono stati gli accorgimenti che ha suggerito agli allievi nel delicato lavoro di riadattamento?
“Ho suggerito loro di cercare, anche per una riduzione di trentacinque minuti, una compattezza e una coerenza che permettesse di rendere in forma ridotta il senso dell’opera scelta, mantenendo, sebbene non ci sia la possibilità di spiegarla in tutta la sua ampiezza, la scrittura. Credo che il lavoro di drammaturgia sia ugualmente importante al successivo lavoro di regia e ognuno di loro si è preso la responsabilità delle proprie scelte.”

Giada Marcon 25/02/2016