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La regista Francesca Tricarico racconta a Recensito la realtà del teatro in carcere

Martedì 27 marzo, in occasione della giornata Nazionale del Teatro in Carcere, il Teatro della Casa Circondariale di Rebibbia aprirà le sue porte agli spettatori, i quali potranno assistere allo spettacolo “Didone- Che m’aggia firat e’ fa”, una rilettura tratta dal quarto canto dell’Eneide di Virgilio, diretta da Francesca Tricarico e interpretata dalle attrici detenute della piccola sezione di Alta sicurezza. Un’iniziativa di alto livello sociale e civile che dal 2013 la regista conduce con impegno, energia e dedizione, e che ha portato alla nascita di due Compagnie: “Le Donne del Muro Alto” con le detenute dell’Alta Sicurezza e “Più Voce” della sezione media sicurezza. Il teatro diventa quindi un potente strumento di integrazione e di libertà per queste donne che hanno a che fare con un passato ingombrante e doloroso, ma anche l’occasione per leggere in testi classici sfumature attuali e impensabili. Recensito ha incontrato la regista Francesca Tricarico che, in una sentita intervista, svela la nascita di questo progetto, cosa voglia dire fare teatro in un contesto complesso come quello delle carceri, come e perché sia nata l’idea del nuovo spettacolo. Un lavoro che parte dalla figura di Enea e Didone per denunciare la tematica della maternità negata, molto sentito dalle detenute, e di numerosi altri temi, a indicare quanto i grandi autori siano una lente di ingrandimento sulla società e l’individuo.

Porterete in scena un esempio di teatro civile e sociale. Che valenza e che funzione ha il teatro in una situazione complessa come quella della detenzione?
“Secondo me il teatro ha la stessa funzione che ha anche all’esterno, soltanto amplificata all’ennesima potenza, un po’ come tutto nel carcere che, come spesso dico, è questa grande lente di ingrandimento sul singolo, sulle dinamiche relazionali e sulla società. Il teatro è un ottimo strumento di conoscenza di se stessi attraverso l’altro e il testo. E’ il luogo in cui l’attore detenuto si sente attore non detenuto, in cui si dimentica di essere carcerato. Questo non vale solo per lui, ma anche per chi lo sta guardando. L’altro giorno la figlia di un’attrice detenuta, mentre vedeva le prove, durante gli applausi ha gridato:” Mamma allora sei libera!!”. Il teatro è uno spazio di libertà, come dovrebbe essere pure all’esterno, con tutto il peso che la libertà porta. Uno spazio di libertà di movimento, di espressione, di condivisione.”

Il teatro può essere un valido strumento di rinascita, di formazione e integrazione per le detenute?DIDONE
“E’ uno strumento di integrazione per chiunque lo faccia. Per le detenute e non solo. Integrazione intesa come integrazione tra loro. Si trovano a vivere insieme persone che provengono da estrazioni sociali diverse, culturali diverse, continenti, regioni, paesi differenti. Quindi, il fatto di avere un obiettivo comune, di dover portare avanti un lavoro insieme, è sicuramente uno strumento di integrazione forte tra loro, ma anche con l’esterno. È un ponte di comunicazione tra il dentro e il fuori.”

Come è nato questo progetto? Quali sono i suoi obiettivi?
“Questo progetto è nato nel 2013. Volevo lavorare con il carcere femminile e ho avuto l’opportunità di farlo all’interno dell’alta sicurezza del carcere femminile, molto complesso, perché nell’alta sicurezza non c’era mai stato il teatro. E’ stata un’esperienza rivoluzionaria per me e per loro, poiché voleva dire aprire una nuova porta. Da li è iniziato questo viaggio che ci ha portato a fondare due compagnie: la compagnia “Le donne del muro alto” e “Più voce”. La prima nella sezione alta sicurezza, la seconda nella sezione media sicurezza. Un progetto che ha visto un sostegno a fasi alterne: c’è stato un momento in cui ha avuto l’ appoggio dell’officina del teatro sociale della Regione Lazio, altri periodi in cui invece il progetto è stato sostenuto dagli spettatori attraverso il crowdfunding. Quindi un progetto per la collettività, realizzato dalla stessa collettività. Oggi siamo un’officina di teatro sociale fino a giugno.”

Sei regista per entrambe le compagnie. Hai intrapreso lo stesso percorso con tutte e due? Ci sono analogie o differenze?
“Sono due lavori completamente diversi, perché credo che sicuramente ci sia un approccio al teatro che è sempre mio, che fa parte della mia formazione e della mia visione del teatro, però poi a seconda del contesto e del luogo dove si va, si hanno delle differenze. La prima ad esempio è che nell’alta sicurezza lo spazio per le prove è molto, molto più piccolo, rispetto a quello delle detenute comuni, quindi c’è un uso del corpo minore, così come il numero delle detenute in scena. Diversa è anche la tipologia delle partecipanti: nell’alta sicurezza sono italiane, mentre dall’altra parte ci sono numerose straniere. Abbiamo dovuto quindi fare un lavoro differente sia di scrittura che di comprensione, che di lavoro sui testi. “

Andrete in scena con “Didone- Che m’aggia firat e’ fa”. Perché proprio questo testo tratto dall’Eneide di Virgilio? Il sottotitolo in napoletano che valenza ha? È uno spettacolo in dialetto?
“Abbiamo scelto Didone, perché preferisco sempre testi di grandi autori che poi rielaboro con le detenute attrici, e questo è il testo che ci risuonava di più in questo momento, poiché una delle esigenze nella sezione di alta sicurezza è quello di parlare della maternità negata. Spesso ci dimentichiamo che se una donna entra in carcere a 30 anni ed esce a 40, le possibilità di avere figli sono molto minori. Ora io non sono qui per dire se sia giusto o no, però è un dato di fatto, di cui non se ne parla o se ne parla pochissimo. Una delle ragazze che sta li si strugge proprio per questo, continua a pensare che quando uscirà, le possibilità di avere bambini saranno pochissime. Didone nella sua famosa maledizione ad Enea urla proprio :“oh se almeno avessi avuto un figlio da te, ora non mi sentirei così sola”. Questo quindi è uno dei temi che abbiamo voluto affrontare. Un altro tema è quello del trasferimento: Didone che si trasferisce da Tiro a Cartagine, Enea che da Troia in fiamme arriva a Cartagine, invece le detenute subiscono il trasferimento da casa loro in carcere, ma anche da un carcere ad un altro carcere. Abbiamo affrontato il che cosa vuol dire cercare di ricostruire la quotidianità in luoghi diversi, il desiderio di casa che abbiamo anche in luoghi che non sono casa. E poi il tema della scelta, ogni scelta che porta a una conseguenza: Enea non sa se andare o restare nella dolce casa di Didone. Mi piace lavorare con un unico testo in contesti diversi, ciò ti permette di vedere quante sfumature puoi leggere nello stesso testo. Io utilizzo sempre il loro dialetto, perché penso che il dialetto sia la lingua del cuore, dell’anima, la lingua con cui noi ci esprimiamo quando siamo molto tristi o molto felici, quindi mi piace l’idea di conservare questa loro naturalezza."

Qual è stato il tuo lavoro dal punto registico e umano? Cosa vuol dire dirigere donne che hanno sofferto e si trovano ogni giorno a fare i conti con un passato doloroso?
“Per me la prima regola è quella di voler fare teatro, di desiderare fare teatro e di non snaturarlo. Avere un obiettivo che sia prima di tutto teatrale. Spesso mi chiedono se considero il teatro terapeutico o pedagogico: secondo me il teatro lo è nel momento in cui si decide di non falsificarlo, quindi affrontare il lavoro della regia teatrale in questi contesti, nello stesso modo con cui ci si approccia ad uno spettacolo fatto da professionisti, senza naturalmente dimenticare il contesto nel quale si lavora. È chiaro che se io se sono lì per fare una lezione di un’ora e mezza, in carcere perdo cinque ore tra le entrate, le uscite, i ritardi, l’avvocato che arriva, ecc. Certamente il contesto non si può prescindere, è necessario ascoltare i bisogni personali, che cosa ho bisogno di raccontare in questo momento della vita, perché scelgo di fare questo, ma anche le necessità degli attori con cui si lavora. E poi adattare le loro esigenze alle mie e cercarle nel testo, di modo che possiamo andare a individuare delle sfumature che non avremmo mai colto. “

Progetti futuri?
“Adesso, dopo questo spettacolo, andremo in scena a maggio con uno spettacolo dedicato al mito di Medea con le detenute della media sicurezza, e poi speriamo di continuare l’esperienza delle officine del teatro sociale e ripartire con degli altri spettacoli il prossimo anno, sempre con queste due compagnie.”

Maresa Palmacci 15-03-2018

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