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Recensito incontra l’esperto: Valentina Mallamaci ragiona di serie tv, televisione liquida e storytelling

Valentina Mallamaci, classe 1984, una Laurea in “Comunicazione Multimediale e di Massa” e un Master in “Critica Giornalistica” presso l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, è giornalista e critico cinematografico. In occasione dell’uscita del suo libro “TV di serie. Analisi delle pratiche e dei temi che hanno cambiato un medium” (Viola Editrice, una prefazione di Umberto Contarello), presentato alla libreria Altroquando di Roma il 19 maggio, la abbiamo incontrata per fare il punto sull’inarrestabile fenomeno delle serie tv. Dal romanzo d’appendice all’era della riproducibilità tecnica, Valentina conduce, con rigoroso metodo scientifico, un’attenta analisi su una materia viva e magmatica.

Da cosa nasce l’interesse per l’argomento serie tv?
«Il germe dell’idea si forma durante la stesura della tesi di Master [in Critica Giornalistica presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, ndr]. Decisi di analizzare e di mettere a confronto alcuni personaggi di serie tv e di film. Intuii che c’è una commistione intensa tra i due ambiti che non riguarda solo il contesto produttivo e la grammatica cinematografica, ma anche i temi.»

MALLAMACI handmaids taleNel tuo libro analizzi “Black Mirror”, “The Crown”, “House of Cards”, “The Handmaid’s Tale”, “Westworld” e molto altro. C’è un quasi totale monopolio di serie Made in Usa. Quali sono stati i criteri di scelta?
«Quando ho iniziato, non avevano nessuna discriminante geografica in mente. Cercando, però, i temi importanti, la selezione è stata naturale. In Italia si sta cercando solo di recente di creare prodotti di respiro più internazionale con una complessità maggiore di argomenti. È ancora un inizio tuttavia. In America e in Europa si può spaziare di più.»

Serie, pur di successo per numero di stagioni come “Once Upon a Time”, “Grey’s Anatomy”, “Game of Thrones”, “Downton Abbey” non ci sono: come mai?
«Non credo nelle serie che durano decenni. Inoltre, cercavo materiale disponibile ora perché ho pensato il libro per le persone che guardano le serie in corso oppure per chi attende la stagione successiva

Qual è lo stato dell’arte del panorama italiano?
«Il problema italiano è la tendenza a restare sempre sulla stessa tipologia di genere, cioè la criminalità. È proprio dalla criminalità che provengono i personaggi oscuri, ma sarebbe interessante vedere luci e ombre anche in altri ambienti. Da noi c’è più paura di osare perché il pubblico è diverso, il mercato è diverso, non paragonabile a quello americano, inglese o francese. La tv in senso stretto lavora ancora su mainstream e pubblico generalista. Di sicuro adesso, con lavori come “The Young Pope” di Sorrentino o “Il Miracolo” di Ammaniti, si inizia a progettare altro. La generazione più giovane, poi, conosce anche cosa c’è fuori.»

Cosa pensi di una serie tutta italiana come "Gomorra", che pure ha riscosso successo di pubblico all’estero e ha sollevato tante critiche in Italia?
«In "Gomorra" troviamo un esempio di lavoro coordinato e vicino al modello americano, con una prima idea di bozza di showrunner (ruolo non ancora formalizzato in Italia): uno solo, come un direttore d’orchestra, coordina una coralità di visioni che prevede più registi, persino una regista per un occhio attento all’universo dei personaggi femminili. Ed in effetti, un merito di "Gomorra" è che la camorra non viene trattata solo come fatto cronachistico o poliziesco, ma dal punto di vista dei rapporti tra i personaggi.»

Da cosa dipende il successo di una serie tv?
«Dalla qualità della scrittura. Non bastano investimenti imponenti a livello economico e tecnologico. Certo, si è registrato uno spostamento di grandi registi e tecnici sul piano della fotografia come della colonna sonora, ma una buona sceneggiatura è essenziale. Il problema è che viene prodotto tanto: la proposta di centinaia di titoli all’anno su varie piattaforme ha delle conseguenze e anche il buono è sommerso dal resto.»

Come è cambiato il rapporto tra lo spettatore e il prodotto?
«Esiste una forma di dipendenza. E le forme narrative accattivanti e interessanti la amplificano: bisogna sapersi gestire. Cambia la fruizione stessa del prodotto, a cominciare dalla gestualità telecomando-tv che viene a mancare. Su Netflix le puntate partono in automatico senza nemmeno doverle selezionare con un clic. Con il binge watching si fanno scorpacciate anche di cinque o sei episodi, magari per evitare gli spoiler, ma non potrà che essere una visione superficiale.»

MALLAMACI Stranger ThingsPer te vale la massima “spoiler non vi temo”?
«Gli spoiler sono da ridimensionare, perché non rovinano la visione: oltre la trama c’è dell’altro. E qui ritorniamo al problema della scrittura cinematografica, inclusi montaggio e fotografia. “Mad Men”, ad esempio, ha una grande ricchezza dal punto di vista estetico e stilistico perché racconta la storia americana tra gli anni ’50 e l’inizio dei ’70 anche attraverso il modo di cambiare arredamento, costumi e atteggiamenti, offrendo una microstoria nella macrostoria. In “Stranger Things”, poi, c’è un vero e proprio gioco di riconoscimento di elementi per ricostruire l’estetica anni ’80, come un puzzle attraverso cui gli autori sfidano gli spettatori. Niente è a caso nelle inquadrature, ma sono dettagli che si possono notare soltanto attraverso una visione lenta e ragionata.»

Cosa attira la tua attenzione come spettatrice di serie tv?
«Mi sono sempre interessati i personaggi di una storia, il loro sviluppo, la loro interazione e il lavoro di introspezione psicologica. In fondo si tratta di considerare il rapporto tra cosa è raccontato e come ci vediamo noi. Ormai le serie tv sono uno specchio, a volte il riflesso fa sorridere ed è ironico, altre fa paura perché esprime quello che non osiamo dire, magari a causa delle convenzioni sociali. In altri casi, invece, le serie tv sono più avanti nel tempo e nello spazio rispetto a noi: proiettano le nostre paure.»

La prima serie di cui conservi un ricordo?
«Non ricordo una serie in particolare, ma una sensazione. Ero piccola negli anni ‘90 e nel pomeriggio andava in onda “Twin Peaks”. Ricordo ancora l’inquietudine e il terrore che mi attraversavano non appena ne ascoltavo la colonna sonora. Tra le serie che mi hanno appassionata? “The Sopranos” e “Dexter”. A causa di quella fascinazione per i personaggi ‘negativi’ ma che scatenano un’empatia fortissima, perché non sono raccontati solo dal punto di vista della malvagità. Si scava a fondo per capire da cosa questa malvagità nasca.»

MALLAMACI twin peaksOggi la tv è liquida, i contenuti televisivi li ritroviamo anche su pc e smartphone. Ha ancora senso parlare di tv?
«Prima c’era programmazione, un appuntamento stabilito da rispettare, adesso posso vedere un film o una serie anche in metro sullo schermo del mio smartphone. Vale la logica dell’estensione. Ormai si parla di transmedia storytelling: universi narrativi che si spostano con noi e creano la necessità di qualcos’altro. Con l’incredibile disponibilità di offerta e di mezzi per fruirne, si creano universi narrativi che si espandono in qualsiasi momento. La tv non è liquida soltanto perché è anche su pc e smartphone. Gli universi narrativi si espandono nei videogiochi, negli oggetti da collezionare, nei parchi a tema.»

Il cinema viene influenzato dalle serie tv? Come?
«Non è vero che il cinema adesso si ispira alle serie tv. La grande opportunità della serialità televisiva è la disponibilità di tempo. Lynch considera l’ultima stagione di “Twin Peaks” un film lungo 18 ore. La suddivisione in episodi e la maggiore dilatazione di tempo si permette alla serialità di dire e approfondire di più. I mezzi, tecnicamente parlando, sono gli stessi. Da qualche tempo registi e sceneggiatori si sono accorti del potenziale e c’è stato uno spostamento di autorialità verso le serie tv. Non credo, però, che un ambito divori l’altro. Ci sono contesti diversi con potenzialità diverse che permettono discorsi e narrazioni di tipo diverso: viaggiano in parallelo senza contrapporsi.»

Credi sia giusto che le serie tv competano con i film, oppure è giusta l’iniziativa CanneSeries di un festival dedicato esclusivamente a serie tv?
«Tutte le polemiche che si sono create sulle proiezioni di serie nei festival sono in realtà frutto di paura. L’apice di successo delle serie tv fa paura al cinema, ma credo sia necessario trovare il giusto modo di farli convivere. Metterli in contrapposizione in modo così netto crea una discordia che non ha ragion d’essere. Film e serie tv sono prodotti artistici differenti, ma meritano uguale esposizione. D’altronde se la serialità trasmigra da un device all’altro è normale che, prima o poi, arrivi al grande schermo, quindi appare insensato impedire che ciò avvenga. Se lo spostamento è più verso cinema o verso le serie? É difficile prevedere l’andamento da qui a un anno: adesso la serialità televisiva ha grande dignità e qualità, caratteristiche che devono essere tenute nella giusta considerazione e valorizzate.»

Alessandra Pratesi 20/05/2018

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