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Recensito incontra Francesca Fini autrice e regista del film “Ofelia non annega”

Strati di arte, storia, pellicola e codici si integrano e si fondono, dando forma a un tuttuno che è tecnica e avanguardia. Ofelia non annega, a ottobre nelle sale italiane, è il film sperimentale scritto e diretto da Francesca Fini, artista dalla formazione interdisciplinare che, negli anni, ha spaziato dalla performance alla regia, passando per la scrittura e sperimentando diversi linguaggi.

Da anni il tuo lavoro spazia dalla video arte al documentario. Pensi che questo film sia una summa della tua ricerca?

Credo di sì. Un film è una grande opera artigianale dove metti in gioco tutte le tue esperienze, le tue capacità e, chiaramente, le riflessioni che stai portando avanti negli anni, che si sono sedimentate nel tempo e che, adesso, sono lì a portata di mano, in un gioco di rimandi continui ai piccoli e grandi approdi delle tue esplorazioni precedenti. E, al termine del lavoro, ti rendi conto di aver finalmente qualche idea che avevi abbandonato nel cassetto. Tutto viene rivivificato, riutilizzato, rinnovato e trova il suo posto preciso nell’economia del lungometraggio. Per esempio, in questo progetto ho utilizzato il lavoro certosino che sto facendo da anni sul “collage sonoro”, creando una partitura parallela del film, importante almeno quanto quella visiva, in cui l’audio originale (prodotto da me attraverso musica, effetti sonori, noise, parole in libertà) si fonde a quello del materiale dell’Istituto Luce attualizzandolo e rendendolo il vero elemento portante del progetto. A proposito di summa della ricerca individuabile in una particolare opera, che è sempre un traguardo importante nella vita di un artista, ecco quanto dice Bruno Di Marino, storico e critico dei media, su “Ofelia non annega”: “L’estetica di Fini, che si è sviluppata negli anni attraverso spettacoli teatrali, opere pittoriche e oggettuali, performance, video, giunge con Ofelia non annega a un suo maturo compimento. Non solo ha realizzato un lungometraggio denso di stimoli, ambizioso punto di arrivo della sua ricerca, ma vi ha saputo trasfondere, in maniera sintetica, il proprio universo estetico, trovando la giusta cifra espressiva, in bilico tra l’evocazione del passato, la disperata fisicità del presente e il pre-sentimento del futuro”.

Potresti definirlo un documentario di videoarte?

Io ho ancora delle resistenze psicologiche ad attribuire una definizione a questo film. Molti lo considerano un “documentario sperimentale”, altri, invece, lo paragonano ai film d’arte di Schifano, Patella e Carmelo Bene. Sicuramente è un performance-based art film, ovvero un lungometraggio d’arte basato sull’azione performativa. E non parlo solamente delle parti scritte e dirette da me nella forma di videoperformance pure e rigorose, che necessariamente hanno un sapore di film-verità (per il semplice fatto che sono azioni reali, dove nulla viene simulato, pur nella ridondanza della messa in scena e nella perfezione della fotografia). Parlo anche del materiale del Luce, di cui ho selezionato le manifestazioni più surreali, bizzarre, sperimentali e, quindi, più facilmente scardinabili dalla contingenza storico-sociale, per essere manipolate e trasformate in materia altra. Diciamo che per rendere credibile il rapporto tra questi due linguaggi così distanti tra loro - l’archivio del Luce e il materiale concepito e diretto da me nel presente - ho cercato di avvicinarli con la dolcezza della lenta deriva di due barche (come quelle rosse che vediamo nel secondo tempo del film, che ospitano una madre e una figlia in rotta di collisione). In questa dolce e lenta deriva, il materiale del Luce è stato usato, tagliato e rimontato come fosse “performativo”; tutto diventa allora coreografia - persino le auto della polizia in una celebre immagine di scontri studenteschi - perdendo ogni rapporto con la narrazione storica e documentale.

Un lavoro fatto anche da materiali che raccontano la società italiana tra gli anni ’40 e ’70. Perché la scelta di questo periodo storico?

Proprio perché la mia ricerca ha eliminato il materiale più conosciuto o storicamente contestualizzabile - e con un approccio più documentaristico e da reportage - in favore di quello più bizzarro, sperimentale, filmico in maniera originale e surreale, in modo da poter andare alla deriva verso il mio archivio personale. Paradossalmente, ho notato che più il materiale d’archivio è vecchio, più ha queste caratteristiche di reale libertà linguistica, sposandosi bene con il mio linguaggio visivo. Forse si sperimentava di più nel passato, sganciandosi dai meccanismi e dagli imperativi dell’informazione che si sono imposti soprattutto grazie (e per colpa) della tv? Ho trovato delle vere e proprie perle nell’archivio del Luce, come il magnifico “Contemplazione e Metamorfosi” del 1955, per la regia di Gian Andrea Rocco e Pino Sergi, che è una vera e propria opera di video-poesia ante litteram; una lirica cinematografica sui versi di Montale, in un’atmosfera simbolista e surrealista dal grande impatto visivo; ma anche il materiale più “cinegiornalistico” regge meglio il rapporto con le dinamiche dell’azione performativa contemporanea. Forse, è per la magia del tessuto granuloso, quell’impasto rigato di bianchi e neri, quell’audio crepitante e quelle voci che sanno di polvere e biscotti della nonna? Probabilmente la verità sta nel mezzo: certamente nel passato dell’archivio c’era più vivacità, anticonformismo e sperimentazione. Allo stesso modo, più il materiale è lontano da noi nel tempo - e meno riconosci la tazza di caffè del bar sottocasa -, più è forte quella magia che mi serviva come collante universale per unire due linguaggi così diversi tra loro.

Guardando Ofelia non annega, viene in mente il cinema underground italiano degli anni 60/70 che, in Franco Brocani, ebbe una delle sue massime espressioni. Le sue opere, però, come quelle dei registi di quella corrente, ottennero uno scarso successo commerciale, nonostante il forte impatto visivo. Pensi che il pubblico italiano possa capire la tua opera?

Innanzitutto il paragone mi lusinga molto, io adoro il cinema underground di Franco Brocani, lo trovo pieno di genio e soprattutto di ironia. Anch’io credo di aver messo molta ironia nel mio film. Non so se il pubblico italiano possa “capirlo”, ma so per certo che può apprezzarlo; so che questo lavoro è in grado di comunicare con il pubblico a livello emotivo, anche facendo riferimento ad archetipi universali. Ed è questo l’importante: la comprensione a tutti i costi è un’esigenza ossessiva del presente. Bob Wilson, che ho frequentato al Watermill Center, il centro per le arti performative da lui diretto, una volta ha parlato proprio di questo: dell’ossessione nei confronti della necessità di far comprendere sempre tutto a tutti. Lui invita invece a lasciarsi andare, a non preoccuparsi di “capire”. L’importante è sentire.

Potresti definire la tua Ofelia una, nessuna e centomila? Chi sono le tue Ofelie?

Nel mio film Ofelia è tante donne diverse, per età, fattezze, colori, storie di vita. Tutte portano nella mio racconto la propria storia personale, trasformandola in qualcosa di altro. E allora Ofelia diventa a volte la dura e ieratica Gertrude, a volte l’ingenua Dorothy Gale del Mago di Oz, altre la curiosa Alice, che nella performance finale del film si addormenta sotto un albero. Ofelia è l’eterna musa, l’eterna eroina, e la metafora dell’arte che lotta per sopravvivere.

Parte del film è dedicata al genere femminile. Vuole essere una riflessione sulla donna nel mondo del lavoro, di cui spesso è vittima?

Il film è una riflessione sulla donna in generale, con i suoi problemi e le sue idiosincrasie, la sua forza quasi sovrumana, la sua capacità di sopportazione, la sua pervicacia e le sue imperdonabili debolezze. Il film è una mia dichiarazione d’amore al mondo femminile, come - del resto - tutto il mio lavoro.

E il lavoro è un tema ricorrente in Ofelia non annega, che culmina nella tragedia di via Savoia, in cui un centinaio di ragazze fecero crollare una scala dove si accalcavano per contendersi un impiego.

Il momento del film a cui ti riferisci è ispirato a un tragico fatto di cronaca del '51. Centinaia di ragazze si presentarono in Via Savoia 31, a Roma, davanti agli uffici di una ditta che aveva pubblicato un annuncio sul Messaggero: "Cercasi dattilografa. Primo impiego, miti pretese", diceva l'offerta di lavoro, in una città incattivita dalla fame del dopoguerra. Improvvisamente tra l'ansia e la frustrazione della folla di ragazze assiepate sotto gli uffici, si diffuse, come un virus, la voce che una raccomandata era riuscita a entrare per prima, passando davanti alle altre. Le ragazze cominciarono, allora, ad accalcarsi e spingere sulla scala, che non riuscì a sostenere quel peso. Settanta di loro rimasero ferite nel crollo, mentre una perse la vita. Un episodio di "La Settimana Incom" racconta l'incidente: una squillante voce da cinegiornale commenta l'accaduto, con una narrazione paternalistica che mette in evidenza il rossetto e le borsette, le calze di seta che le ragazze avrebbero comperato col primo stipendio, mentre vediamo la facciata del palazzo, i vigili del fuoco al lavoro sulle lunghe scale di legno, l'ingresso sventrato "come da una bomba", le ragazze ferite sulle barelle, l'ambulanza che parte verso l'ospedale.
Siamo nel presente, nel reame della performance art originale che ripensa il passato dell'Archivio nella metafisica di un simbolo/feticcio: la macchina per scrivere, strumento di schiavitù e allo stesso tempo icona di libertà (di parola), protagonista di una catena di automatismi dove le vestali del mondo moderno trasformano in suono il segno scritto. Vediamo uno scorcio di Via Savoia, oggi. Due donne entrano nell'inquadratura in slow-motion. Indossano degli eleganti tubini neri e vistose maschere coperte di nastri d'inchiostro, che pendono dalle bobine come capelli. Adesso ci troviamo in un ambiente completamente bianco. Ofelia è tornata in manicomio? Come in uno di quegli incubi dove ti ritrovi sempre nello stesso luogo/prigione/ossessione?
Una delle donne afferra un ago-cannula e lo infila nel braccio dell'altra. Preleva il suo sangue con guanti di lattice e lo raccoglie in una fila di provette dal cappuccio turchese. Il sangue viene poi versato in un grande calice dove le due donne immergono un lungo nastro di raso bianco. Una volta imbevuto di sangue, il nastro viene steso attraverso la stanza - grondante di sangue nel bianco coma una ferita nello spazio accecante - riavvolto intorno a una vecchia bobina arrugginita e avvitato nella pancia aperta di una Olivetti Lettera 32.
La donna si siede al tavolo da lavoro e comincia a scrivere a macchina con il suo stesso sangue.

Questo lungometraggio è improntato sul sogno: quanto è importante nella vita di un artista?

Il sogno è fondamentale. Io ricavo spesso dai sogni che faccio -e che quasi sempre ricordo - molte delle immagini che poi si trasformano e si riversano nel mio lavoro. Non c’è bisogno di citare Jung, ma è evidente che il sogno è un momento in cui l’esperienza del mondo viene distillata in una formula magica che ti apre la comprensione di quello che sei e di dove stai andando. È un lavoro di riscrittura creativa della propria esistenza che nasconde possibilità e potenzialità infinite.

Parlaci della tua collaborazione con istituto Luce.

Il Luce, che ha oramai digitalizzato e reso fruibile on-line gran parte del suo archivio, ha anche lanciato nel corso degli anni delle iniziative davvero avventurose, promuovendo il riuso creativo del materiale da parte degli artisti. La filosofia del riuso apre sostanzialmente un cambio di prospettiva importante; il materiale non viene più visto come semplice sostanza documentale, di cui valorizzare gli aspetti informativi e educativi, ma diventa carne viva. Un artista che riutilizza creativamente il materiale d’archivio lo rende di nuovo vivo, perché spesso ne trascura il valore contestuale, per tirarne fuori aspetti altri e inaspettati. Io sono stata chiamata, appunto, per realizzare un progetto cinematografico basato sul riuso creativo del repertorio. All’inizio avevo sviluppato un progetto per un piccolo film di 50 minuti, poi mi sono resa conto che quello che giravo e montavo funzionava perfettamente, che l’ingranaggio che avevo sviluppato quasi intuitivamente reggeva ben, e ho deciso di seguire l’istinto e osare i 90 minuti. Il Luce mi ha sempre seguita e supportata con grande rispetto e curiosità.

Il film sarà itinerante. Come è composto il tour?

Dopo la proiezione del 6 ottobre, il film sarà il protagonista di due importanti serate del 15 ottobre, in occasione della 12° Giornata del Contemporaneo (evento nazionale promosso da AMACI, Associazione Dei Musei D’Arte Contemporanea Italiana). A Latina, i cui dintorni rurali hanno fatto da location a molte scene del lungometraggio, il progetto sarà doverosamente presentato da Fabio D’Achille per MAD (Museo D’Arte Diffusa). Sempre per la Giornata del Contemporaneo, sarà proiettato al Cineteatro Impero di Maruggio (Ta), a cura di Angelo Raffaele Villani. In quest’occasione sarà accompagnato da una mostra fotografica e documentaria inedita; nel foyer del teatro, inoltre, saranno proiettati una breve introduzione video al film e momenti inediti del backstage.
Poi toccherà Milano, Torino, Bologna, Modena, Firenze, Viareggio, Napoli, Venezia, a cura di Carlo Montanaro, Caltanissetta in occasione del progetto White Wall a cura di Giuseppe Aletto, e a Genova per FAST a cura di Francesco Arena.
il 29 ottobre tornerà a Roma, ma in un contesto più accademico. La proiezione sarà accompagnata da una lecture di approfondimento per il Dipartimento di Musica e Spettacolo della Sapienza - corso di Arti elettroniche e digitali di Valentina Valentini.

Elisa Sciuto - 13/10/2016