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Recensito incontra Elena Paparusso: la voce in jazz

Inner Nature” è un viaggio musicale nel mondo interiore di Elena Paparusso, giovane cantante jazz di origine pugliese, un progetto ricco di contaminazioni e suggestioni musicali dal carattere ben definito. L’album autoprodotto (uscirà il 29 settembre per l’etichetta “Lhobo”) spazia dagli esperimenti sonori di Björk a Wayne Shorter e Kurt Weill. Un disco arricchito da momenti originali, schizzi di colore e dinamismo che enfatizzano ancor di più un timbro maturo e intenso. La voce della Paparusso è accompagnata dal lirismo elegante di Domenico Sanna (pianoforte), dai virtuosismi di Francesco Poeti (chitarra) e dalla solida struttura ritmica di Fabio Sasso (batteria) e Luca Fattorini (contrabbasso). Noi di Recensito l’abbiamo incontrata per parlare dei suoi progetti e di questo suo esordio discografico.

L’anno scorso hai vinto il “WinJazz” (Woman in Jazz), il concorso indetto dal MuLab con il sostegno del MIBACT, che sceglie le migliori giovani compositrici, musiciste, nuovi talenti del jazz. Come ti sei avvicinata all’universo jazz? Qual è stato il tuo percorso formativo?
“Mi sono avvicinata al jazz fin da piccola, quando è nato il mio amore per la musica. Quando mi sono trasferita a Roma ho iniziato a frequentare una scuola di musical e in quel periodo ho riscoperto il jazz. La passione si è accresciuta grazie alla Elena coverultimaconoscenza di musicisti e una vita che pian piano si immergeva in questo mondo. Non esiste un giorno senza la musica, per me l’ascolto è una pratica quotidiana. Ho studiato al Conservatorio di Santa Cecilia al triennio e al biennio canto jazz, quindi con il tempo l’interesse è cresciuto sempre di più. Il concorso dell’anno scorso, dedicato alle donne compositrici, è capitato per caso. Ho deciso di provarci e alla fine è andata bene. Il premio che ho vinto prevedeva che andassi a suonare a Londra e lì mi hanno accompagnata Enrico Zanisi, Marco Siniscalco ed Emanuele Smimmo e poi una volta a Roma mi sono esibita alla Casa del Jazz, dove c’era anche la mia insegnante Maria Pia De Vito. Sono felice di come sia andata.

“Inner Nature” è la tua prima opera musicale, dal titolo eloquente. Un album che riesce a conciliare il valore della tradizione a un sound più moderno e sperimentale. Come sei arrivata alla consapevolezza di una sfera pura, quasi incontaminata nella tua musica dove poter creare ciò che senti?
“Il jazz è una ricerca personale, intima, è un avvicinarsi sempre di più a se stessi, anche se a volte c’è il rischio di incorrere in una grande confusione. “Inner Nature” vuol dire carattere, attitudine interiore. In questo disco ho voluto dichiarare i miei pensieri, le mie riflessioni personali. L’album è composto da tante storie, anche se in realtà gli stessi testi non sempre definiscono una situazione precisa, si avvicinano molto al flusso di coscienza. Quando pensiamo non seguiamo sempre una razionalità e avvicinarmi a questa modalità creativa per me è stato del tutto naturale. Il desiderio di definire questo percorso è capitato in un momento in cui ho deciso di mettere un punto. Mi sono seduta al pianoforte e ho cominciato a scrivere. Oltre ad aver composto le musiche ho anche scritto i testi su un brano di Francesco Poeti. La collaborazione con i musicisti ormai va avanti da anni, sono degli amici, prima che musicisti del mio disco. C’è una grande intimità, una serenità e piacevolezza nel condividere le cose. Una bella sinergia.

Il disco è autoprodotto per l’etichetta indipendente “Lhobo”. Ci racconti come hai affrontato una scelta del genere?
“È stato un processo complesso. Il disco è autoprodotto nel senso che io, da sola, ho deciso di coinvolgere le persone, prendere uno studio e registrare. Poi ho iniziato a proporlo a varie etichette discografiche, ma purtroppo in Italia non è sempre facile per i giovani musicisti farsi riconoscere e apprezzare, quindi, anche se non mi entusiasmava molto l’idea, ho deciso comunque di procedere su questa strada. La “Lhobo” è l’etichetta dei musicisti dell’Agus Collective, il collettivo di musica jazz indipendente a Roma. La collaborazione con i musicisti del collettivo è nata tempo fa, devo dire che mi hanno accolta felicemente. Nonostante il disco sia autoprodotto sarà poi nel catalogo della Lhobo”.

Un “carattere interiore” musicale, quello del tuo nuovo album, in cui le storie si avvicendano, una dopo l’altra, sostenute dalla tua voce delicatamente profonda, come in un racconto privato. C’è un brano che rispetto agli altri sembra voler creare un’apertura stilistica, linguistica e di genere. Come nasce “Namuna”? Quali sono state le ispirazioni compositive?
“Ogni testo, canzone ha un significato che fa riferimento al mio modo di rapportarmi ad alcune cose fondamentali nella mia vita. Per esempio ho deciso di registrare il brano di Björk, “Vyrus”, perché per me aveva un significato. La sua malattia alle corde vocali, il modo in cui viene affrontata musicalmente trascende l’episodio reale. Björk ne parla infatti come di un nemico che alla fine ha deciso di accogliere. “Namuna” invece è una filastrocca tradizionale della Costa d’Avorio, per la quale ho scritto un arrangiamento. È un piccolo episodio, dura poco più di un minuto e mezzo. “Namuna” vuol dire nonna, ma anche che tutti quanti possono imparare dagli altri. Un bambino può imparare dalla nonna e una nonna da un bambino, così come un uomo da una donna e viceversa. Mi piace pensare e sperare, nonostante la mia testardaggine, che non smetterò mai di stupirmi e di essere felice, anche di fronte alle piccole cose”.

ElenaPaparusso02Questo disco non sarebbe stato lo stesso senza il sostegno creativo e la particolare sensibilità artistica dei tuoi musicisti. Un progetto che fa coesistere personalità diverse riuscendo però a realizzare sonorità interessanti. Come avete lavorato insieme?
“Ho scritto questi brani con Domenico Sanna, Luca Fattorini, Francesco Poeti e Fabio Sasso, con loro i rapporti umani sono una questione quotidiana. Non è stato un problema proporre loro il mio progetto e accettare dei consigli. Lavorando insieme siamo arrivati a definire la sostanza del disco. È stata una ricerca continua, tanto che è durata fino alla fine, per esempio mentre registravamo ci sono state delle modifiche e dei cambiamenti. La nostra è una collaborazione creativa positiva, stimolante”.

Sei stata un periodo all’estero, in America. Cosa ne pensi della scena jazzistica statunitense, nello specifico newyorkese? Cosa ha significato per te?
“L’esperienza a New York è stata complessa e bella da tanti punti di vista. Dal punto di vista musicale è stata un’overdose. Un posto dove la musica non finisce mai, la comunità di musicisti è grandissima, c’è un’apertura nei confronti di tanti generi e non esistono etichette: la musica è musica. Ho ascoltato dei progetti che dovevano ancora essere registrati, quindi ho avuto la fortuna di poter toccare con mano cose nuove e capire come gli artisti si comportano con il loro materiale creativo. New York è un posto molto stimolante, dove la competizione è altissima. Ogni giorno scopri una cosa nuova, un musicista da ascoltare e ti rendi conto che la nostra percezione del musicista straniero è completamente sbagliata. Noi qui siamo schiavi di una figura dell’artista che a volte pone un muro, lì è molto più aperto. Capita che il grande musicista, nei giorni di libertà vive a New York e si concede una serata nel piccolo club per ascoltare il giovane artista. C’è un rispetto del passato, ma anche uno scambio dinamico che fa sicuramente bene alla musica e all’energia che si crea”.

Cosa stai preparando in questo periodo, ci sono delle date, un tour che sta per partire?
“Sto lavorando ad un piccolo tour con il mio nuovo progetto e sto scrivendo nuovi brani. È un momento di movimento, ora c’è la concretizzazione di questo anno di lavoro, però l’obiettivo è quello di continuare e ricercare nella musica qualcosa di nuovo e di sicuro una “inner nature””.

Serena Antinucci 21/09/2016

Foto di copertina del disco: Flavia Fiengo