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Alla scoperta di “Parto”: Recensito incontra Eva Gaudenzi

Dal 22 al 25 febbraio il Teatro Studio Uno ospiterà PARTO – Monologo di sola andata verso la maternità, scritto, diretto e interpretato da Eva Gaudenzi. Uno spettacolo originale, interessante, brillante e poetico che affronta la tematica della maternità e della nascita con naturalezza. Un viaggio lungo nove mesi, tra angosce e felicità, fino alla tempesta e alle onde del parto. Durante il travaglio, infatti, l’attrice si trasformerà nel capitano di una nave in balia della tempesta, in lotta con il dolore e con l’ignoto che avanza. Su tutto domina poi quel senso di avventura che spaventa, ma allo stesso tempo affascina.
Una metafora emozionante, un monologo profondo e divertente, ispirato a un’esperienza personale, per esprimere un punto di vista e raccontare un momento fondamentale per la vita di una donna e non solo.
In questa intervista sulle pagine di Recensito, l’autrice, regista e interprete Eva Gaudenzi, ci conduce in anteprima in questo viaggio, svelandoci i retroscena e il percorso che ha portato alla luce questo piccolo gioiellino che è “Parto”.

Come è nata l’ispirazione per “Parto”?

Un po’ per caso: durante un workshop mi è stato chiesto da un’attrice di dare vita a un piccolo racconto drammatizzato. È scattato qualcosa, mi sono resa conto che c’erano tante cose da poter raccontare e da qui è scaturita la spinta per iniziare. La scrittura è stata anche abbastanza veloce, per lo meno durante la prima fase studio. Poi è andata avanti, si è perfezionata e ora ci sono scene in più.

Quanto c’è di autobiografico nello spettacolo?12

Lo spettacolo nasce da un’esperienza realmente vissuta. È autobiografico ma reso attraverso il linguaggio teatrale che racconta ma allo stesso tempo rende tutto meno realistico. Ho voluto cogliere tutto quello che di forte, potente, misterioso e avventuroso c’è nella maternità. Perché per me il parto è stata davvero un’avventura e il travaglio vero e proprio è stato proprio come affrontare una “tempesta”: le contrazioni come onde altissime, con il vento che soffia e la donna che si trasforma nel capitano della nave. Sei tu a decidere se lasciarti andare, se accompagnare le onde, la tempesta, e andare avanti, oppure respirare, darti tregua e poi continuare. È una lotta bellissima. La maggior parte dello spettacolo è ambientato in ospedale, il Fatebenefratelli. È da lì che è nata l’idea della nave: trovandosi al centro dell’Isola Tiberina, dalla sala parto si può vedere scorrere il fiume e sembra davvero di stare su una nave.

La gravidanza è vista come un viaggio lungo nove mesi. Quali sono le tappe più importanti che tendi a mettere in evidenza in questo lavoro?

Lo scorrere del tempo si traduce attraverso la musica e il corpo: c’è prima il test, inaspettatamente positivo, successivamente il corso preparto, con l’ostetrica indiana che la introduce al canto carnatico da intonare durante il travaglio. E poi la rottura delle acque: la protagonista arriva in ospedale e viene trasportata sulla sedia a rotelle in questa specie di labirinto, finché raggiunge la sala parto, la “nave”. Quindi, c’è prima la tempesta del naufragio, poi il parto, la nascita del bambino, e alla fine torna ancora l’acqua. Lo spettacolo si conclude, infatti, nella pace di un mare calmo, con mamma e figlio che giocano sulla spiaggia.

Che ruolo ha la musica?

Ha un ruolo molto importante, perché attraverso la musica scandisco dei passaggi fondamentali e in più mi sostiene visto che sono sola in scena. I mesi scorrono e le melodie cambiano, così come cambia il corpo. Anche le acque si rompono a suon di musica ed è sempre la musica che sostiene la protagonista durante il travaglio: una melodia “avventurosa” che Stefano Switala ha arrangiato ispirandosi a Moby Dick. Molto toccante è anche il momento del monitoraggio durante il quale si sente il cuore del bambino battere e che, con quello degli altri bimbi, si trasforma in una sinfonia di cuori che sarà proprio la protagonista a dirigere. Le melodie finali, infine, sono come proiezioni del futuro.

Sei autrice, regista e interprete. Come hai reso il passaggio dalla scrittura alla scena?

Ho iniziato con la scrittura e quando ho capito che le scene potevano funzionare ho iniziato a provarle. Ascoltando il corpo e improvvisando una serie di azioni, man mano ho fissato i movimenti e le varie scansioni del testo. Di questo lavoro è stato fatto anche uno studio che è andato in scena e attraverso il quale ho potuto misurare, grazie alle reazioni del pubblico, cosa funzionasse e cosa no. Il pubblico lo ha trovato divertente con i suoi momenti comici e questo mi fa davvero piacere.

È uno spettacolo per le donne? Qual è il messaggio che vorresti arrivasse al pubblico?

Non mi piace settorializzare: questo non è uno spettacolo per sole donne. Il punto di vista, ovviamente, è quello femminile, è il mio punto di vista, ma vuole essere uno specchio di tutte le paure che affliggono non solo le donne ma tutte le coppie prima del parto. Lo spettacolo vuole un po’ farle passare quelle paure, riportare il momento del parto a quello che è: un atto naturale e al contempo potente. È un’avventura.

13Che tono ha lo spettacolo?

È una commedia in cui tutto si gioca sul ritmo. Ma ci anche sono momenti statici, le pause tra un’onda e l’altra. La protagonista è un’eroina buffa: in fondo, io non mi prendo mai troppo sul serio, bisogna saper ridere di se stessi.

Sei membro dell’Associazione “Pane e parole”. Da chi è composta? Quali sono i vostri obiettivi?

Siamo nati un paio di anni fa specializzandoci nel “teatro a domicilio”: entriamo nelle case della gente e portiamo “pane”, i finger creati della mia socia Simona Coschignano (chef e sommelier), e “parole”, monologhi e storytellig scritti da me. Con noi c’è anche Gabriele Peritore, scrittore e poeta, con il quale organizziamo reading poetici nelle case. Anche alla fine dello spettacolo al Teatro Studio Uno ci sarà un assaggio dei finger preparati da Simona.

Prossimi progetti?

C’è qualcosa che bolle in pentola: la riscrittura di un monologo che avevo realizzato tempo fa e che sta coinvolgendo anche un musicista che ricostruisce strumenti in uso in Grecia durante l’epoca classica. Appena si concluderà “Parto” allo Studio Uno, riprenderemo le prove e per fine estate daremo un assaggio di questo nuovo lavoro: “Focu meo” (da un’espressione tipicamente calabrese). Una storia antica ma che si collega ai giorni nostri.

 

Ph: Adele Talarico

 

Maresa Palmacci

08/02/2018