L’opera performativa come veicolo di trasmissione dei saperi e mezzo attraverso cui rappresentare se stessi. Il 19 marzo, debutta presso il Teatro Comunale di Medole, in provincia di Mantova, lo spettacolo “Opera Omnia 2 – Disco”. Una nuova produzione firmata Teatro Magro, gruppo di ricerca teatrale con sede a Mantova, diretto dal regista Flavio Cortellazzi.
Uno “spettacolo-playlist” in cui lo spettatore, attraverso la musica, si troverà a rivivere le suggestioni di quattro decadi di storia del costume, guidato da un linguaggio performativo che trae linfa direttamente dalla quotidianità dei gesti e delle passioni umane.
Per conoscere meglio le varie sfaccettature di questo progetto, abbiamo rivolto alcune domande al collettivo teatrale di ricerca che ha dato vita alla performance.
Partiamo da quello che c’è dietro “Opera Omnia 2 – Disco”. Cos’è Teatro Magro?
"Teatro Magro nasce come gruppo teatrale a Mantova nel 1988, sotto la direzione artistica del regista Flavio Cortellazzi; tuttavia, molto spesso le produzioni di Teatro Magro sono il risultato di un lavoro collettivo, a più menti e più autori, perché insieme ci sentiamo maggiormente vicini all’idea di un collettivo artistico che non a quella di una tipica compagnia capocomicale. La nostra attività si muove tra spettacoli e performance che nella composizione del gruppo di lavoro aderiscono a una visione democratica e una funzione sociale della messa in scena, e per questo facciamo laboratori con allievi di qualsiasi età e livello di formazione, dilettanti e professionisti; lavoriamo anche con persone diversamente abili o in condizioni di disagio psichico e sociale. Oltre agli spettacoli e ai laboratori facciamo anche altro: formazione per aziende e performance aziendali. Queste ultime stanno prendendo piede anche in Italia come forma evoluta di comunicazione dei brand, ecc., e diciamo che possiamo considerarci un po’ dei pionieri di questa pratica. Diversamente da altre compagnie che fanno lo stesso, dove il committente ha un forte potere decisionale, però, cerchiamo sempre di curare anche l’aspetto “artistico” della creazione performativa, motivo per il quale talvolta ci siamo anche trovati nella condizione di dover rifiutare delle commissioni, proprio per il nostro modo di lavorare. Ciò avviene quando ci viene imposta un’idea che non sentiamo nostra: preferiamo lavorare come su una tabula rasa, insomma. In generale, se proprio dovessimo usare poche parole per descriverci, possiamo dire che quello che ci caratterizza, all’esterno, è uno stile “magro”, un’essenzialità della messa in scena. Essenzialità che per noi significa chiarezza."
Dalla letteratura alla musica, “Opera Omnia 2 – Disco” in cosa differisce dal primo progetto, “Opera Omnia – C. Goldoni”?
"“Opera Omnia” è un progetto che evoca nel nome l’enciclopedia, nasce con lo scopo di divulgare dei saperi e di rendere l’opera performativa un veicolo di trasmissione. Naturalmente, però, in quanto performance, spettacolo, il punto di vista e il taglio non vogliono essere “enciclopedici” o “didascalici”, ma ironici. E per “ironia”, chiaramente, non si intende il comico, ma lo stravolgimento, uno slittamento della maniera abituale di intendere l’oggetto d’indagine, storico o letterario che sia. Con “Opera Omnia 1 – C. Goldoni”, ad esempio, abbiamo voluto omaggiare la scrittura di Goldoni lanciandoci in una vera e propria sfida: rappresentare l’essenza di dieci opere goldoniane, come tanti “Bignami” teatrali. Per farlo abbiamo dovuto usare un linguaggio della scena chiaramente diverso, ma ne abbiamo conservato comunque lo spirito, e cioè, affidare l’interpretazione dei testi ad attori dilettanti, provenienti da compagnie dialettali locali, consci che, prima di tutto, la drammaturgia di Goldoni era stata composta pensando al popolo e molte volte da questo persino rappresentata. Opera Omnia 2 – Disco parte da un soggetto completamente diverso: il rapporto dei giovani con la disco music, attraversando il fenomeno in senso cronologico, dagli anni Settanta al presente. E il motivo di questa scelta risiede nel fatto che, è vero, la musica unisce i popoli, e il luogo sociale dove le ultime generazioni esprimono in condizioni di libera autorappresentazione il proprio rapporto con la musica è la discoteca. Nel lavoro che è stato creato non c’è quindi rappresentazione in senso mimetico del reale, non c’è trasposizione letteraria o studio su un’opera, né su un corpus di opere, di un autore; i testi sono per lo più frutto di riflessioni personali dei giovani allievi dei nostri laboratori, poi messe a punto dal regista in una forma che potesse esprimerle. Il filo rosso tra i due spettacoli è dato dall’intenzione: in entrambi i lavori lo scopo è stato avvicinare le persone a una materia sconosciuta o talmente nota da aver smarrito la reale percezione delle cose nel corso del tempo. In tutti e due i casi, quindi, l’obbiettivo è condurre in modo originale, e non didascalico, alla conoscenza."
Risulta una forte attenzione nei confronti del pubblico, ma è il “pubblico del teatro”?
"Se per “pubblico del teatro” intendiamo una cerchia ristretta di persone... no, assolutamente. Anzi! L’ampia familiarità con il tema dei giovani e la disco music e della storia di questo fenomeno culturale, nonché il fatto stesso che si parli della società di massa, quindi di una categoria vastissima di persone, rendono lo spettacolo aperto a qualsiasi tipo di pubblico, esperto e non esperto di teatro, e non solo giovane."
Perché scegliere la disco music da assurgere a simbolo dell’edonismo contemporaneo?
"La disco music è soltanto uno dei sintomi della ricerca sfrenata di piacere che caratterizza il mondo in cui viviamo. La questione, ovviamente, non riguarda la disco music in sé, sebbene la maggiore eccitazione degli animi derivi proprio dai beat musicali, dal mood sonoro (che arriva a stimolare fisicamente la pelle, perché è qualcosa che sentiamo con tutto il corpo, non solo attraverso l’udito), ma tutto il contesto, l’universo di comportamenti, che man mano si è costruito intorno: dalla necessità di creare degli spazi idonei (e in questo un antenato fisicamente vicino a noi è rappresentato da Palazzo Te a Mantova, con cui, infatti, nelle parole di una dei performer viene a istituirsi un parallelismo) al desiderio di trasgressione, di “sballarsi” (termine orribile, ma ormai diffusissimo). Disco music, alcool, e in molti casi anche le droghe, sono aspetti di un unico fenomeno legato alla ricerca di piacere."
Come si svilupperà questo “spettacolo-playlist”?
"Parlando di disco music, chiaramente, essa è la base dello spettacolo. La musica assume un ruolo determinante, una funzione “drammaturgica”, perché crea la struttura stessa dello spettacolo richiamando le funzioni di tempo e spazio. La disco music non è mero accompagnamento, o almeno, non solo: cita il contesto, quello della discoteca, come se quest’ultima fosse effettivamente l’ambientazione in cui si muovono questi non-personaggi contemporanei, più simili a dei “tipi” umani che a dei personaggi; sono prima di tutto degli “attanti”, e rappresentano in parte un segmento sociale, non un individuo in particolare, e in parte se stessi. La musica scandisce anche il tempo (non soltanto il ritmo della performance) fino a identificarsi completamente con esso, perché le tracce musicali che sono state scelte appartengono alle varie decadi (Settanta, Ottanta, Novanta, anni Dieci del Duemila), in qualche modo “sono” le varie decadi, e queste sono affrontate in senso cronologico nel corso dello spettacolo. Infine, c’è un forte legame tra la musica e un contesto più ampio: la scelta della playlist è avvenuta sulla base anche del modo in cui quei brani (alcuni oggi quasi rimossi dalla memoria di chi c’era, figuriamoci dei giovani che non hanno vissuto quei tempi) hanno rappresentato lo spirito dell’epoca: un tempo della durata di una stagione, come succede ancora per tutte le hit parade, ma in alcuni casi di un’adolescenza o di una vita.
Federica Nastasia 18/03/2016