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Marius Bizău: il coraggio di un uomo, il talento di un attore, il mestiere della vita

“L’attore crea con la sua carne e il suo sangue tutte quelle cose che le altre arti, in qualche modo, tentano di descrivere” (Lee Strasberg).

Marius Bizău è un attore poliedrico che con la sua umanità, la sua carne, la sua mente e il suo cuore, crea, plasma, descrive e dà vita a personaggi, situazioni, storie.
Un vero e proprio atleta dell’anima, un artigiano dell’arte, che leviga la materia con il suo bagaglio personale, si taglia le mani, rischia e si mette in gioco, come ha fatto qualche giorno fa con lo spettacolo Drumul, in cui ha portato in scena la sua vita, se stesso, le sue esperienze, la sua personalità e la sua persona.
Un testo autobiografico scritto e diretto da Lorenzo Di Matteo, dove racconta la sua avventura di ragazzo venuto dalla Romania che, con determinazione, talento e coraggio, è riuscito a diventare uno degli attori più richiesti e affermati del momento. Negli ultimi anni ha preso parte a importanti progetti televisivi come Squadra Antimafia, Pietro Mennea la freccia del sud, Non uccidere, Romanzo Famigliare, I medici 2, ha recitato in film, anche internazionali, e ha calcato diversi palcoscenici teatrali, tra cui il prestigioso National Theatre di Londra.
Una carriera in ascesa, dunque, tra schermo e palcoscenico, nonostante il suo passato non semplice, di cui parla in questa intervista sulle pagine di Recensito.
Marius non si risparmia e con generosità intellettuale e umana, partendo dalla genesi di Drumul, si lascia andare ad un flusso di parole, racconta aneddoti della sua vita, si sofferma su dettagli della sua cultura, riflette sull’attualità, sul suo essersi sentito spesso uno straniero, un diverso, un escluso, sul ruolo salvifico del teatro e della recitazione, e soprattutto specifica il suo obiettivo di interprete: quello di essere uno strumento per rivelare al pubblico la verità, di una storia, di un personaggio, di una situazione.
Un regista di se stesso, un’artista dotato di una particolare sensibilità, ironia, e vasta cultura in grado di arricchire positivamente chiunque vi si accosti.
Un viaggio tra ricordi, dolori, insegnamenti, riflessioni, incontri, sogni e progetti, per conoscere più da vicino un uomo e un attore, che ha attraversato tempi e luoghi diversi, di cui sentiremo molto parlare.

Come è nata l’idea di Drumul? Quando hai pensato di portare in scena la tua storia?
“Ho incontrato Lorenzo Di Matteo dieci anni fa, mentre giravamo un cortometraggio di Alberto Caviglia. Io ero ancora in Accademia, lui stava studiando come attore. Subito abbiamo legato e siamo entrati in simpatia. Finito il corto, però, ci siamo persi di vista per un po' di anni, finché ci siamo rincontrati in un pub, a parlare. Eravamo entrambi senza lavoro e avevamo voglia di fare qualcosa insieme a teatro. Non sapevamo esattamente cosa e nel frattempo ci aggiornavamo sulle nostre vite. Parlando, tirai fuori un po' di storie -che poi sono nel testo- e lui mi disse che avremmo dovuto trarne uno spettacolo. Drumul è nato, dunque, da un momento buio delle nostre vite di formazione. Abbiamo cercato di capire la formula giusta per portare in scena questi racconti. Lorenzo ha iniziato ad ascoltare le registrazioni e le testimonianze mie e di mia madre, e piano piano il testo ha iniziato a prendere forma. Si è preso i suoi tempi per scrivere, ci siamo confrontati, abbiamo cambiato alcune cose. All’inizio il testo era molto bello in lettura, poi si è ragionato come renderlo in azione. Pensandolo da attore, abbiamo quindi limato qui e lì, e dopo abbiamo iniziato timidamente le prove. Dico timidamente, perché non mi andava di farlo, per me era imbarazzante, era strano, faticoso. In alcuni punti mi bloccavo, mi commuovevo, non riuscivo ad andare avanti. In seguito, provando, ho capito che il testo era molto più forte delle mie paure e ho deciso di sacrificare quella parte di me a favore della storia e del pubblico. Così abbiamo lavorato fino ad arrivare alla messa in scena.”

Come ti senti prima di andare in scena e ripercorrere tutta la tua vita?bizau 2
“La prima volta che sono andato in scena a Roma, in particolare in queste repliche di qualche giorno fa, ho provato un’emozione molto forte. C’era “ la vita” nel pubblico, con gli amici, i parenti. Era molto toccante come situazione. Poi mi trovavo in una quinta cieca, quindi non avevo vie di fuga, ero costretto a rimanere nascosto nella quinta per il tempo della seduta del pubblico e sentivo la voce delle persone. Non nego che prima di entrare ho provato una sorta di montagne russe di emozioni. Piangevo e poi mi fermavo, era una lotta continua tra il bene e il male. Male nel senso che temevo che a nessuno interessasse questa storia. Sono arrivato a pensare ciò fino all’ultimo, fino a dieci minuti dall’andata in scena. Tuttavia, questo, in qualche modo, aiuta a mettere il testo come obiettivo, che è quello che un attore dovrebbe fare sempre per ogni spettacolo. Non è il testo che si deve abbassare a te, sei tu che devi innalzarti verso il testo, perché è più importante di te. Tu sei un veicolo e solo così esce fuori il testo, la verità, quindi il personaggio, altrimenti vedi solo un attore che si gongola. Ho capito, dunque, che era necessario che mettessi l’attore Marius da parte, affinché il testo uscisse fuori veicolato da anni di studi e di tecnica. Mi sono annullato di modo che il personaggio potesse emergere, poiché, per quanto il personaggio sia una parte di me, il testo è raccontato in maniera oggettiva, e questa oggettività è la cosa che di più ho ricercato in assoluto, insieme all’ironia. Non volevo assolutamente che fossi io a dire al pubblico cosa provare. Questi sono i fatti, siete voi che dovete giudicare, anche ridere magari. Io vado in scena raccontando la mia storia, ma è vero anche che sono io trentacinquenne di ora, attore, narratore di quella storia che a volte diventa mia in prima persona, altre volte diventa la storia di qualcun altro, in altri momenti diventa teatro puro. Soprattutto nella prima partee dove c’è la narrazione pura, è sempre il narratore che prende quei colori, quelle sfumature e le lascia andare via. Un po' come i giochi di immagini che si possono creare fumando una sigaretta.”

Nello spettacolo affermi di essere una terza identità che ha parte della cultura rumena e italiana. Cosa porti dentro di te di quella rumena e cosa di quella italiana?
“Nel processo di integrazione, nel primo momento, nel distacco con la mia terra c’è stato un rifiuto con l’approccio alla nuova casa. Non vedevo l’ora di tornare in Romania, vedevo l’Italia come un luogo di passaggio, non ero ancora entrato nell’ottica del per sempre. Dopo, invece, con il passare del tempo, quando ritornavo in Romania non vedevo l’ora di tornare in Italia. Mi spostavo sempre di più verso l’Italia. Poi per le varie vicissitudini successe , quando ero molto giovane e ancora in via di sviluppo dal punto di vista caratteriale, ho provato anche il rifiuto della Romania. Ho cercato in tutti i modi di essere più italiano possibile, di assimilare più cose possibili della cultura italiana affinché non venissi individuato come lo straniero. Probabilmente anche per questo c’è stato a livello inconscio un lavoro sul suono per avere, ad esempio, le doppie precise. Preferivo rimanere muto, anziché dire una cosa di cui non ero sicuro. I primi anni sono stato completamente in silenzio e stavo comodo nel mio mutismo. Era il mio rifugio, però mi rendevo conto che non era una cosa del tutto sana, perché non parlando non riuscivo a instaurare relazioni. Piano piano mi sono aperto. Tutti gli impulsi che venivano da fuori li leggevo e li trasformavo . Ero una specie di spia. Quando ero più piccolo se mi chiedevano di dove fossi, non dicevo sono rumeno, ma dicevo vengo dalla Romania, perché anche a livello di linguaggio era un modo per ammorbidire certe idee, certe immagini. Invece, andando avanti negli anni, con il teatro, l’arte, la lettura di testi, ho capito che non è importante quello che il mondo ti può dare, ma è fondamentale ciò che tu puoi dare al mondo, cosa metti del tuo lì fuori. Ho compreso che è necessario che ognuno abbia ben presente le proprie origini e che approfondisca il più possibile le proprie radici, perché sono quelle che offri al mondo. La vera bellezza sta proprio nella diversità, siamo tutti diversi.

Quando ho raggiunto tale consapevolezza, ho fatto un viaggio a ritroso nel mio paese, attraverso la letteratura, la lettura, la visione di film. Mi è venuta fame di riappropriarmi delle mie cose, sono andato più spesso a visitare il mio paese, ho iniziato a leggere più testi in rumeno, i romanzi russi tradotti in rumeno, che mi aiutano a capire meglio la cultura russa che è lì vicino. Ho capito, inoltre, l’importanza della lingua. Nella mia lingua ci sono delle parole che per me significano quella cosa e nessuna altra, se le ripeto in italiano mi danno un’idea, ma non forte come la parola rumena. E’ un legame diverso, particolare. Ora sono perfettamente a metà. Non sono italiano, sono rumeno, però non sono neanche rumeno. Sono rumeno perché sono nato e vissuto lì fino a 15 anni, però poi dai 15 ai 35 anni sono cresciuto da italiano, e conosco molto di più la cultura italiana rispetto a quella rumena. Dunque, non sono italiano e non sono nemmeno rumeno. Sono un’ identità “ in mezzo”, che a volte mi destabilizza un po’. Questa cosa l’ho provata i giorni scorsi, quando mi sono confrontato allo stesso tempo, per la prima volta in vita mia, con entrambe le culture insieme. Andava a finire che parlavo con un italiano in italiano, con un rumeno in rumeno, poi con un italiano in rumeno e con un rumeno in italiano. In qualche modo ero sdoppiato, ero in un limbo che mi piaceva anche: capire e farsi capire in due lingue, sognare in due lingue. Poi è entrata anche la terza lingua, l’inglese. A volte mi ritrovo a parlare da solo in inglese, mentre altre volte, quando sono in Romania, mi capita di capire anche il serbo e l’ungherese. La cosa destabilizzante che ho sperimentato in questi giorni di repliche di Drumul è che a volte mi fermo e davvero sembro un vampiro che ha attraversato dei secoli, per cui mi trovo a pensare ai tempi della rivoluzione. Prima, durante e dopo la rivoluzione c’è stato uno strappo netto con tutto un passato di un certo tipo.”

Drumul è anche un percorso storico, con la Storia della dittatura di Ceausescu. Cosa ti hanno lasciato quegli anni?
“Porto delle cose che a livello conscio ho rimosso, ma che sono rimaste a livello subconscio. Quando mi vado a confrontare con mia sorella, lei ricorda molte più cose di me. Ad esempio una sera ho sentito due suoni forti fuori e in un secondo ero pronto per scappare. Nel periodo di lontananza con mia madre e del divorzio con mio padre c’erano dei comandi che venivano capiti ed eseguiti come dei soldatini. Quando cresci con queste impostazioni te le porti dietro. Mi porto però anche dei ricordi meravigliosi dai nonni in Moldavia, o a Timisoara con i miei amici. È come se avessi vissuto mondi diversi in epoche diverse. Infatti, una delle in paure è quella dimenticare. Se rimuovo quelle cose, non esisto più. Quelle sono le mie radici e sono importanti, mi rendono la persona che sono oggi. Sono situazioni molto lontane e non si possono più rivivere, non ci saranno più. Mi considero fortunato, ho avuto modo di vedere cose che oggi mi permettono di avere una visione più ampia. “

Dallo spettacolo emerge la figura di tua madre. Cosa rappresenta per te?
“Devo tutto a mia madre, è stata fondamentale, grazie al suo coraggio, alla sua lungimiranza. Al tempo dell’asilo, nell’87 circa, lei ha avuto la saggezza di risparmiare dei soldi e pagarmi dei corsi di inglese, pensando che un giorno potesse servirmi. Quel giorno è arrivato e io due anni fa sono stato in scena al National Theatre di Londra. Ha avuto una forte lungimiranza intellettuale, nonostante la sua formazione. È cresciuta in campagna, in una situazione familiare non semplice. Non proviene da una famiglia di studiosi, ma da una famiglia di contadini artisti: mio nonno suonava la batteria nel suo gruppo folcloristico, suo zio costruiva giostre, un altro era musicista, un altro cantante, mia zia Marina non ha mai fatto scuola d’arte, ma fa ritratti meravigliosi. La cosa che c’è di più nel dna, oltre all’arte, è questa ironia strana, nera in qualche modo, cioè ridere completamente della morte, prendersi gioco del proprio stato umano, come il clown che non ha la capacità di vedere in che stato si trova, però ci sta al 100%. Nella mia famiglia c’è un mix di sangue: dalla parte di mia madre c’è la Russia e la Romania, dalla parte di mio padre c’è anche la Turchia. Mia madre ha avuto sempre perspicacia sulle cose, per esempio ha saputo investire nei canali televisivi internazionali. Una volta caduta la dittatura, sono arrivate aziende che proponevano la TV satellitare e anche in quel caso ha avuto la prontezza di investire. Ha preso la TV satellitare perché c’erano canali in diverse lingue, per indirizzarci anche verso la sua idea di venire un giorno in Italia. Questi strumenti mi hanno aiutato tanto ad entrare nella dimensione della lingua italiana, ho perfezionato l’inglese, ho iniziato a capire qualcosa del tedesco, dell’ungherese.
Lei è stata coraggiosa, dotata di quel coraggio un po’ incosciente, un po’ come quando prima di buttarti dallo scoglio in acqua pensi alle mille possibilità che possono accaderti e subito prendi e ti butti. Tanto poi, mentre stai in aria, in un modo o un altro, una soluzione si trova sempre. Così ho fatto anche io quando ho deciso di andare in Accademia: non sapevo i testi, niente di niente, però l’istinto mi diceva che dovevo farlo. Tra me e lei davvero ci sono stati dei litigi incredibili, difficili, in tutti i modi ha cercato di dissuadermi dall’idea di fare l’attore. Sono arrivato a dormire sulla panchina del parco per dare un messaggio forte. Ho agito come lei da giovane in qualche modo. Casualmente quella presa di posizione con l’Accademia per andare avanti come tutti gli altri è stata una decisione forte che più o meno coincide con la sua età di quando diede la lettera a Elena Ceausescu. “

Dunque sei stato il primo allievo straniero ad entrare in Accademia…
“L’Accademia aveva dato agli stranieri possibilità di entrare, però poi non garantiva un percorso con una programmazione chiara. Dopo il primo anno, chiesi allora di poter continuare con tutti gli altri, poiché era una cosa discriminante che non mi stava bene . Così feci di nuovo gli esami come fossi un nuovo allievo italiano, nonostante avessi documenti rumeni. Loro accettarono, passai gli esami e continuai. Da quel momento hanno intrapreso un’ apertura verso gli stranieri e con grande gioia, dopo di me, si sono diplomati francesi, albanesi, croati, serbi. Ora ci sono anche allievi di colore, come in Inghilterra, perché ci sono generazioni di stranieri nati qui. “

A proposito, le cose per gli stranieri secondo te stanno migliorando?
“Non stanno migliorando, e anche per questo è nata l’esigenza di raccontare la storia di Drumul, per far capire alle persone che in realtà la ricchezza sta nella diversità. La gente non studia, non legge, nessuno approfondisce più , ci si ferma al titolo e si prende quello per verità, si parla per notizie di Facebook . Non tutti fortunatamente sono così, ma è necessario che gli artisti abbiano la consapevolezza della responsabilità che hanno verso i loro interlocutori. È una cosa seria, è importante. La responsabilità di ciò che lasci indietro appartiene a tutti. A livello umano tutti dobbiamo lasciare qualcosa, l’artista a maggior ragione perché parla più persone insieme, e Drumul assume allora anche dei colori sociali. Non è stato creato per quel motivo lì, però se prende questa piega, io non posso non prendermi la responsabilità di ciò e non accettarlo come uno dei tanti obiettivi del testo. Quindi se questo spettacolo lascia qualcosa a qualcuno di positivo, ben venga. Il mio intento è far si che il pubblico, dopo averlo visto, possa riflettere su che storia che abbia dietro quel diverso che incontra per strada, che possa farsi delle domande, andare in profondità. Se uno va a contrastare questa problematica con l’aggressività non si ottiene nulla, invece l’ ironia ti fa pensare.”

Il teatro è stato dunque uno strumento di salvezza e integrazione..
“La recitazione mi ha completamente salvato. Mi ha integrato nel mondo. Ho cominciato a fare teatro, per puro caso, grazie a un insegnate di francese appassionato alla materia. La recitazione mi ha tirato fuori dal mutismo, perché facendo un personaggio e vedendo la risposta positiva del pubblico verso quel personaggio, di accoglienza, in qualche modo mi sentivo autorizzato ad esistere attraverso il personaggio, mentre fuori dal palco ero una specie di ombra che vagava e cercava di capire dove trovare il suo posto. Nel teatro mi sentivo vivo. La recitazione mi ha dato ossigeno ed è paradossale che dal mutismo sia passato a interpretare monologhi di un’ora e mezza. Due pianeti opposti.”

Pensi che il teatro possa essere un mezzo di integrazione anche per altri stranieri oggi?
“Si, perché quando si fa teatro o sport si è tutti uguali, si fatica tutti allo stesso modo correndo in pista, siamo tutti nella stessa stanza e siamo tutti sulla stessa barca, ognuno porta il suo per il personaggio. C’è lo studio dell’attore sul personaggio e del personaggio su te stesso, e quando devi studiare te stesso, devi portare delle cose tue, altrimenti non puoi andare in scena o comunque non sei libero, sei pieno di sovrastrutture che si vedono. Penso che il teatro sia uno dei tanti mezzi di integrazione, come lo sport. Per me ha avuto inoltre una funzione terapeutica, anche se il teatro non è terapeutico, la terapia è un’altra cosa. Però può avere una funzione terapeutica perché la comunicazione del teatro, benché verbale, è molto più profonda. Se fatto con onestà e generosità, il teatro mette tutti sullo stesso piano. Al di là del ruolo, ti senti parte di un gruppo, tutti lavorano sul personaggio, sul testo.”

Se non avessi fatto l’attore, cosa avresti fatto?                                                                                                                                                                                                                                                                                                     “Se non avessi fatto l’attore, forse avrei fatto l’operatore turistico. Probabilmente adesso sarei stato in qualche ufficio a lavorare, anche se in realtà non ho mai sentito pienamente mio questo stile di vita con orari, vincoli. L’ho anche fatto per un po’, così come ho fatto tanti altri mestieri per alcuni periodi. Ho svolto attività diverse perché mi piace sperimentare più cose. Ad esempio ad un certo punto decisi di fare uno stage di un mese in Umbria, ad agosto, nei boschi, con un clown per imparare la sua arte, poiché al di là della tecnica è la vita che c’entra con l’attore. Oltre il metodo, devi portare la tua vita e le tue esperienze.”

Hai interpretato quasi sempre ruoli negativi, da cattivo. Ce n' è uno al quale sei più legato?
“Si, Mariuz di Romanzo Familiare, il personaggio che più si è avvicinato per qualche ragione a me. È nato nell’est Europa e costretto a venire in Italia perché adottato, per via di Chernobyl, all’età di sette anni da una famiglia italiana . È cresciuto in Italia e per ragioni di lavoro si è dovuto trasferire in Inghilterra a studiare finanza. L’incontro con questo progetto è stato quasi mistico. Quando la regista Francesca Archibugi ha sentito anche l’analogia del nome, ha capito che ero come lei si era immaginata questo personaggio, che era anche l’unico mancante. C’è stato uno studio approfondito, che poi è una cosa che mi piace molto del mio lavoro. Quando studio, sto a casa con la lavagna, come in una specie di ufficio dell’ fbi, perché ho tutti i riporti, le foto. In quel caso lessi dei testi bellissimi su Chernobyl di Svetlana Aleksievic: “Preghiere per Chernobyl” e “Ragazzi di zinco”. Il personaggio di Mariuz rispecchia quello che sono stato qui in Italia: uno straniero. Nonostante adottato in quella famiglia, per il rapporto strano e di conflitto con il padre adottivo, risultava sempre uno straniero. Fino alla fine, quando in realtà si scopre che gli altri lo avevano già accettato come sangue loro. È stato un ruolo interessante, che aveva aspetti conflittuali con se stesso, con la moglie, i figli. Un personaggio complesso e mi piaceva anche per questo motivo. È stato il ruolo televisivo che ha dato modo di esprimermi di più rispetto agli altri. Anche in Squadra Antimafia mi ero impegnato ad arricchire il personaggio, perché è un modo per mettere in pratica la mia arte. L’attore è come se trattasse una materia, come se facesse una scultura con il legno, perché devi vedere, pensare, e plasmare te stesso. Alcune cose ce le hai dentro e le devi tirare fuori, altre non ce le hai e le devi trovare. Per i personaggi negativi, magari fisicamente ho un aspetto particolare, che aiuta come maschera, però per agganciarmi a delle cose più negative, quel tipo di rabbia, di energia, la devi anche sperimentare per capire, o la devi aver sperimentata. Io ad esempio mi ricordo i controlli nei posti di blocco, mi ricordo le facce, gli occhi, le energie di quelle persone e di quelle che si dovevano interfacciare con loro, come stavano prima, quello che si doveva pensare o non pensare.”

C’è un ruolo che invece sogni di interpretare?
“Forse l’Amleto perché è molto complesso, particolare, è un testo stupendo. All’interno dell’Amleto c’è tutto quanto: pensieri, azioni, sentimenti universali. Mi piacerebbe interpretarlo, così come Macbeth, o testi di Neil Simon, Mamet . Mi piacerebbe prendere parte anche a un film come “The Greatest showman”, dove è presente il canto. Vorrei sperimentare inoltre il teatro fisico, mi incuriosisce e l’ho fatto. Il mio primo approccio con il movimento fisico è avvenuto in Accademia. Fisicamente ero diverso, ero palestrato, avevo 20 anni e non facevo altro che allenarmi e chiudermi, come molti che si chiudono in questa cosa in maniera così esagerata perché hanno paura di confrontarsi con il mondo, si creano una corazza così forte per avere il coraggio di affrontare la società.
Non c’è, quindi, un personaggio in particolare che mi piacerebbe interpretare. Vorrei partecipare a dei progetti, dei film, che mi possano permettere di portare ancora più cose mie, affinché io possa arricchire il più possibile il personaggio e prendere più cose dal personaggio per arricchire me, con un messaggio forte dietro. Mi piacciono molto i lavori che poi ti fanno pensare.”

Quale  maestro  ti ha dato di più ?
“Mi è sempre piaciuto molto l’insegnamento di Francesco Manetti. Mi ha lasciato questo rispetto sacro verso la sala dove lavori, verso il testo, quello che fai, verso te stesso. Mi ha colpito anche il suo insegnamento molto severo, molto giapponese, molto samurai. L’ attenzione per il per la sala, in cui siamo tutti uguali, perché tutti fatichiamo per un obiettivo comune. Il rispetto dell’altro, degli sforzi dell’altro, di ciò che l’altro ha, del proprio passato, insomma di quello che l’altro è. Vedo l’attore come due cose: da una parte è un atleta, con quella disciplina ferrea che ti dice di fare sacrifici, di prenderti cura del tuo corpo, che poi ti servirà perché è il tuo strumento e la tua voce, e della tua pulizia fisica e d’animo; dall’altra parte è un maestro di bottega che si sporca le mani, si taglia, bestemmia, gioisce, però in prima persona, non delega.”

bizauHai lavorato molto all’estero, ad esempio a Londra. Li le cose sono diverse?
“Londra sta sicuramente più avanti. L’Inghilterra anche ha delle cose tradizionaliste, però sono più aperti a livello di mentalità, perché hanno una storia un po' più grande per quello che riguarda l’amalgamarsi di culture. È fulcro di fusione di culture. L’Italia invece no, l’unità non è avvenuta da troppo tempo. Oggi ancora si percepiscono al suo interno sacche di diversità. Penso sia il naturale corso delle cose, della vita, e il naturale corso non è mai pacifico o fluido. E’ fatto anche di contrasti, conflitti, di prese di posizione.”

Ti senti più a tuo agio sul palcoscenico o davanti la macchina da presa?
“Mi sento meglio davanti la macchina da presa. Però mi sento bene anche a teatro, solo che il teatro l’ho fatto un po’ di meno e le cose che ho fatto sono sempre state molto piccole, quindi non ho mai avuto realmente tante occasioni per potermi confrontare con il palcoscenico. Le esperienze avute in teatro sono state molto interessanti. Oltre questa di Drumul, feci uno spettacolo in una azienda, “La Moda dei suicidi”, un testo inedito sui suicidi della France Telecom con la regia di Linda Di Pietro. Interpretavo il ruolo del tagliatore di teste, e la cosa bella era che ti poneva nella posizione difficile della scelta. E entrambe le scelte erano lecite. Ciò che mi interessa di più dei personaggi negativi, degli antagonisti, è la loro umanità. Non mi importa come fanno le cose, non li giudico, non è quello il mio compito. Io devo disegnarli e scolpirli con le mie capacità, poi sei tu spettatore che giudichi.
Comunque, ho sempre avuto un po’ l’attrazione per la macchina da presa, per quello che riesce a prendere e a portare lì fuori. Semplicemente osservando attori nei film e vedendo film ho cercato di capire meglio questa arte, e mi dicevo: ecco perché faccio questo mestiere , perché un giorno potrebbe capitare anche a me di fare un film così!! E’ stata anche quella la spinta.”

Quali sono quindi i tuoi film preferiti in qualche modo ?
“Ce ne sono tanti, su due piedi mi ricordo un film crudo, ma molto comico, “Quel pomeriggio da cani” con Al Pacino e John Cazale. Un altro è “Le quattro piume” con Heath Ledger, dove il personaggio ti fa capire quella cosa fondamentale che alla fine tutti moriamo, che puoi essere anche il principe più ricco di tutto il pianeta, ma quando ti trovi in Africa, nel colonialismo, ti riduci ad essere un animale. È un film di una potenza incredibile.”

Prossimi progetti?
“Sto finendo di girare il nuovo film di Ivano De Matteo con Marco Giallini, Vinicio Marchioni, e con una attrice rumena bravissima, Cristina Flutur,che ha vinto Cannes con “Oltre le colline” di Mungiu. Interpreto un personaggio rumeno e parlo in rumeno. È un ruolo che mi piace molto, farà vedere un aspetto che è parte di me. Non è la caricatura del rumeno, ma è proprio un rumeno, anche se la situazione è la stessa, traffico armi. È un personaggio che fa capire cose più profonde, ossia di quanta non curanza ci sia da parte degli italiani per gli stranieri. E’ un argomento trattato in maniera diversa dal solito, per questo ho accettato la parte, poiché sto cercando di andare verso ruoli più profondi rispetto alla caricatura dello straniero.
Ci sono poi altre date di Drumul e c’è Londra che mi chiama. Sono stato preso da una agenzia e devo andare per capire quale sarà l’obiettivo. Chi l’avrebbe mai detto che dalla Romania, dalle difficoltà in Accademia, sarei arrivato al National Theatre con duro lavoro e determinazione? Probabilmente mi auguro di fare cose anche in teatro con Alessandro Businaro, regista dotato di una sensibilità incredibile. “

Ti vedi anche regista in futuro ?
“L’attore è regista di se stesso, il soffio vitale esiste in te, hai un pensiero, e questo tu devi portarlo. Devi offrire una proposta, soprattutto al cinema dove non ci sono prove. Comunque per ora no, mi voglio ancora divertire nel mio mestiere di attore.”

Maresa Palmacci 30-11-2018

Ph: Francesca Errichiello