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Le voci del Milite Ignoto. Dialogo con Mario Perrotta

"Milite ignoto" racconta di unione nazionale durante il primo conflitto mondiale che fu anche l'ultimo a coinvolgere direttamente ogni soggetto. Fu, cioè, combattuto da individui che impiegarono il sangue del loro corpo e che non sono stati annoverati tra gli ingranaggi di una macchina storica di bombe e proiettili sterminatori. In questo unirsi politico e affettivo vi è però una nota di discordia, la percezione dell'altro apre la consapevolezza alla presenza di realtà differenti e alla difficoltà relazionale tra esse.
“Il progetto compone un dittico insieme con "Prima Guerra" per ragionare sul senso del combattimento, un'occasione per portare a termine un percorso che facevo da tempo sui dialetti italiani nella convinzione che siano la vera grammatica delle nostre emozioni. Il pensiero emozionale e il vissuto si esprimono in queste "parole locali" e in un teatro, come il mio, che veicola le emozioni – parola aborrita da alcuni grandi esponenti – utilizzando la materia prima del dialetto. Da tempo mi interrogavo sulla possibilità di confondere ogni dialetto per costituire una nuova lingua. Fosse appartenuto a un altro tipo di spettacolo poteva apparire un esercizio di stile ma in questo caso diventa un esercizio strutturale, era fondante rispetto a ciò che accadeva in trincea: s'incontravano poveri cristi dalle campagne d'italia a scoprire la presenza di altri italiani. Ecco perché viene considerato il primo momento di unità linguistica, perché si tentò uno sforzo d'italiano per non morire”.

Non trovi paradossale che il termine "dialetto" sia etimologicamente accomunato al "dialogo", alla funzione stessa del parlare e del comprendersi? Esattamente come la "dialettica" che oggi indica il saper parlare adeguatamente. Parlandone in questi toni il dialetto parrebbe un codice comunicativo e non si penserebbe più all'incomprensione che invece si creò nelle trincee italiane e che uccise più uomini di quanti ne fece sopravvivere.
“Sono legati dalla particella greca dia "fra", essa accomuna il lògos del dialogo e il lektos del dialetto che condividono il significato ma hanno una discendenza dissimile. Entrambi riportano a un codice linguistico specifico e all'interazione tra due o più persone. L'italiano rimaneva una lingua dei documenti ufficiali, anche la piccola borghesia si esprimeva in dialetto nel suo territorio. Trovandosi al fronte il dramma della guerra si fonde al dramma della lingua, come le due etimologie. Un'occasione per il mio esperimento che sembra uno dei punti vincenti dello spettacolo, non per l'esercizio acrobatico di spingermi a dire una frase che contenga in essa più dialetti, ma per essere riuscito a fare accettare al pubblico la drammaticità della parola”.

Dici di aver trovato una giustificazione alla babele di lingue creatasi in trincea, nell'arretratezza culturale di un'alta percentuale della popolazione che per metà era ancora analfabeta. Oggi, quando non contiamo più la massa degli analfabeti totali di allora, assistiamo invece a un diffusissimo "analfabetismo funzionale". Una scarsa padronanza dell'italiano, appreso parzialmente a scuola e non ampliato nell'età adulta perché inutilizzato nella socializzazione o in contesti culturali, è come se rendesse ancora fragili e inefficienti gli individui.
“Due elementi devono essere messi in rilevanza: gli italiani da sempre hanno avuto una scarsissima attitudine alla lettura. Oggi la situazione è deteriorata a causa della rete e dei mezzi di comunicazione di cui siamo stati dotati: sicuramente costituiscono uno strumento tecnico straordinario ma con l'uso e l'abuso che ne è stato fatto si sono trasformati in sistemi aberranti. I centoquaranta caratteri hanno impoverito la lingua, chi approccia ora a questo metodo espressivo, i cosiddetti nativi digitali, potrebbe non conoscere quante possibiiltà gli fornisce il suo vocabolario.
Byung-Chul Han, un filosofo e docente sudcoreano, sostiene che viviamo in uno sciame comunicativo fatto di "emoticon" che surrogano le emozioni; io mi trovo preoccupato fortemente per coloro che non sono stati dotati di un'intelligenza linguistica prima di approcciare a questo tipo di espressione e fin dalla nascita hanno associato al significato un simbolo e non un significante fatto di parole, di segni. La forma del "ti amo" può essere un cuore ma la sua manifestazione pertiene al corpo, a due occhi che si guardano, a due bocche una davanti all'altra e ai relativi corpi che vibrano. Il teatro, in questo, è sensualità, erotismo e corpi gli uni di fronte agli altri, lontano dal mero coinvolgimento intellettuale”.

Quanto ai corpi che vibrano, in "Milite ignoto" il tuo è mobile solo per metà...
“Ti racconto un aneddoto: a Bolzano, durante una replica, venne da me una donna a giudicare il lavoro del mio corpo, aveva un accento straniero e non ho badato granché al posto dal quale potesse provenire. Era presa a scavalcare ad ogni costo la voce di altre persone con le quali parlavo in camerino per ripetermi quale notevole lavoro avessi fatto davanti ai suoi occhi. A cena con chi mi ospitava la trovai di fianco a me, fu un mio amico a dirmi che era una delle storiche danzatrici di Pina Bausch. Mi fece notare che anticipavo col corpo ciò che poi dicevo con le parole e lo facevo per istinto, lo facevo per esigenza comunicativa. Ciò che tra l'altro lo conferma è che nel ripasso di alcuni spettacoli mi accorgo che non riesco a memorizzare il dialogo senza muovere il corpo, non appena metto in funzione l'espressione fisica rammento nella sua totalità il copione”.

Un secolo fa, il 2 Ottobre del 1916, Giuseppe Ungaretti è a Locvizza e dedica ad Ettore Serra, un ufficiale conosciuto al fronte, la lirica "Commiato" scrivendo:
Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l'umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso
Sembra che la poesia stabilisca una diretta connessione con la sfera affettiva: la parola, nello specifico, occupa il verso centrale della strofa circondata dall'abisso e dal silenzio. In questo senso non è un vocabolo ma uno strumento di penetrazione di un abisso personale. È lo stesso tipo di valore che ha la parola in "Milite Ignoto"?
“Assolutamente sì. Riservo la stessa attenzione alla parola quando, per esempio, guido un laboratorio teatrale, quando mi relaziono con attori professionisti e non. Chiedo, dopo aver letto il testo, di fissare un passaggio emotivo della lettura che non voglio conoscere e di cominciare a lavorare su ciò che l'immagine provoca nel corpo. Come traduco, ad esempio, l'abisso in azione fisica? Può capitare che l'attore lo faccia rimanendo in silenzio per venti giorni ma intanto egli sta costruendo una partitura fisica sulla quale si appoggerà successivamente ogni parola.
Quando parlare è vivere e non una speculazione filosofica, come Ungaretti scrive in "Commiato", nascono nello stesso centro che riconosciamo come centro emotivo. L'atto fisico del dire trae origine nel diaframma che insiste a spingere l'aria dallo stesso punto in cui nascono le emozioni: lavorando sul corpo allora si lavora allo stesso centro che presiede tutte le azioni. Quando lo spettacolo raggiunge il grado massimo di partecipazione, il pubblico inizia a respirare tutto assieme. Si sente un respiro unico che accelera e decelera a seconda della mia intensità e relaziona eroticamente la mia persona con le vostre”.

Francesca Pierri 13/07/2016