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Se "Le Serve" di Genet fosse una puntata di Black Mirror: intervista a Michele Eburnea, in scena al Teatro Studio Uno di Roma

È da tempo che Claire e Solange lavorano per la Signora. Si prendono cura di lei, delle sue cose, della sua casa. La amano, perché lei è generosa con loro. La odiano, perché è tutto ciò che loro non saranno mai. Artifici onirici e suggestioni paranoidi alimentano un loop che ha le sembianze di un rito sacrale: la Signora è il loro Dio. E Dio deve morire.

Ispirato a un caso di cronaca che sconvolse la Francia del 1933, “Le Serve” è considerato il capolavoro di Jean Genet, un testo che Sartre definì «uno straordinario esempio di continuo ribaltamento fra essere e apparire, fra immaginario e realtà».

Con Michele Eburnea, Sara Mafodda e Mersila Sokoli, adattato e diretto da Michele Eburnea e Caterina Dazzi - vincitori del Premio Nazionale delle Arti 2018 per la regia – “Le Serve” sarà in scena al Teatro Studio Uno di Roma dal 17 al 20 gennaio. In attesa della prima abbiamo incontrato il regista.

Michele, partiamo da lontano: perché Jean Genet?

"Genet è un autore monomaniacale i cui testi si prestano ad essere usati per andare oltre, per essere superati. Sono un medium per raggiungere qualcos’altro".

Ad esempio?

"Qualcosa che ha poco a che fare con la forma e molto con l’ontologia, con lo squarcio che si crea tra ciò che c’è e non si mostra e ciò che non c’è ma si mostra lo stesso".

Perché Le Serve?

"Ci piaceva l’idea di rispettare gli intenti di Genet senza sottostare alle sue regole. Nella struttura dei suoi testi due personaggi rimandano a un terzo, che è assente. Basti pensare a “Les Nègres” o ad alcuni suoi cortometraggi. E’ molto disturbante. Nella nostra versione la Signora è assente, viene evocata dalle battute, dagli oggetti, dalle pareti che trasudano la sua presenza, ma non c’è. Le serve l’hanno fagocitata. La vediamo solo quando si manifesta attraverso i corpi delle ragazze".

Parliamo dell’adattamento: nelle sue indicazioni Genet chiede di evitare “un modulo realistico”.

"Esatto. Certe battute suggeriscono un’atmosfera che abbiamo voluto calcare. L’azione si consuma in un non-luogo che cambia a seconda dell’uso degli oggetti, può essere la camera della Signora o la mansarda in cui vivono le serve. Abbiamo insistito sulla deformazione dei corpi e sul registro fornito dal testo, che è volutamente artefatto. Nell’introduzione Genet ricorda al regista che si tratta “di una favola”, l’intento è inorridire il pubblico".

Più che la ferocia dell’atto Genet indaga l’ambivalenza del rapporto serve-padrona, l’ambiguità di un legame che si afferma per contraddizione. Com’è inscenato questo meccanismo?

"Come amano e odiano la Signora, si amano e odiano tra loro. E’ un riflesso. Durante il gioco delle parti non interpretano mai se stesse. Credo sia un modo per sanare il proprio lezzo. Di fatto abbiamo esasperato un meccanismo che nel testo c’è già: le serve simulano l’omicidio e puntualmente si fermano prima di compierlo. Lo fanno apposta, perché se la Signora non esistesse, non esisterebbero neanche loro".

E come lo avete esasperato?

"Negandolo: la Signora non c’è. Sta allo spettatore decidere se l’abbiano già uccisa o se non ci sia mai stata, ma perde d’importanza. Lei deve comunque esserci, è la conditio sine qua non esistano loro".

LE SERVE foto di Federica Di Benedetto 5

Genet sacralizza il gesto, gli assegna un valore liturgico; le sorelle Papin ritualizzano il gioco delle parti fino a confondere finzione e realtà. Che rilevanza ha la ripetizione in questo adattamento?

"Moltissima. Sulla scena abbiamo voluto solo gli oggetti essenziali: un appendiabiti, un comodino, una lampada e un baule. La ripetizione, che si fa cerimonia, dà rilevanza al gesto e agli oggetti attribuendogli un potere. E’ attraverso la ripetizione, il loop, che le serve evocano la Signora".

Jodorowsky lo definirebbe “rituale psicomagico”.

"Esattamente. Il punto è: sono oggetti della Signora o sono le serve a fingere che lo siano? Ha realmente importanza?"

Da sempre il Teatro attinge dalla cronaca, un esempio tra tutti il “Roberto Zucco” di Koltès, recentemente inscenato da Licia Lanera. C’è un fatto di cronaca che, meglio di altri, saprebbe raccontare la società contemporanea in Italia, per te?

"Certo, basti pensare a “My Generation”. Di recente ho riflettuto sul caso di Sfera Ebbasta; la politica si è intromessa, ha spostato l’attenzione in modo drastico e trasformato una tragedia in un tribunale morale dell’assurdo. Si sentenzia sulle qualità artistiche di Sfera, che ora è indagato per “istigazione all’uso di droghe”. Com’è successo? Secondo questa logica andrebbero arrestati tutti, da Tarantino ai Rolling Stones, passando per Vasco Rossi. Sfera è esponente di un genere che è specchio di una generazione figlia del crac finanziario, piaccia o non piaccia rappresenta la nostra epoca, chiediamoci il perché".

«L’enfer c’est les autres», sosteneva Sartre, grande amico di Genet. Conosciamo le sorelle Papin come efferate omicide ma poco si sa del loro passato di abusi: quanto sono vittime e quanto carnefici?

"Di recente ho visto l’ultimo episodio interattivo di Black Mirror, a proposito del libero arbitrio: lo spettatore sceglie per il personaggio, il quale a un certo punto realizzerà di non essere lui a scegliere ma di essere scelto dalle cose. Il confine tra vittima e carnefice è sottile, una cosa non esclude l’altra. Nel testo sono le cose a costringere le serve a diventare carnefici, gli oggetti le tradiscono. Per citare di nuovo Sartre «Il male è un niente che produce se stesso sulle rovine del bene»: è contenuto nello stesso cerchio".

Federica Cucci 15/01/2019