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Late Show: la vita è un film. Il corto di Lorenzo Tardella a Dominio Pubblico

A ognuno di noi è successo almeno una volta di immaginare il trailer della propria vita, di selezionare inconsciamente momenti, attimi, istanti e imprimerli nella mente per mantenerli intatti nel futuro. O, al contrario, scoprirsi a ricordare cose che sembravano perse per sempre. Lorenzo Tardella, giovane regista di Narni, nel suo "Late Show" rende il sogno realtà e, in nemmeno dieci minuti, riesce a raccontare gioie e tristezze della vita umana, in un limbo, quello della sala cinematografica, che si fa luogo di transizione tra la vita e la morte. Un uomo anziano prende posto in un cinema deserto, le luci si spengono e improvvisamente sullo schermo appare il SUO film. L’uomo rivede i momenti salienti della sua vita, finché la proiezione non ha fine e si riaccendono le luci.
Vincitore del Wag Film Festival di Arezzo e presentato nei vari festival internazionali e nazionali, "Late Show" (prodotto da Cloverthree Film) è stato proiettato al Teatro India di Roma in occasione del festival “Dominio Pubblico – la città degli Under 25”.03tardella.jpg

Nel tuo corto il protagonista assiste alla proiezione del film della sua vita in un cinema vuoto. La vera protagonista potrebbe però considerarsi la sala cinematografica stessa: c’è una riflessione o una critica sul sempre più evidente svuotarsi delle sale cinematografiche negli ultimi anni?
“Il punto è assolutamente questo: più che l’anziano, la vera protagonista è la sala. In qualche modo ho voluto portare la vita dentro un luogo che sta morendo. Io ho un sentimento un po’ romantico nei confronti della sala cinematografica anche in modo anacronistico, perché in fondo non l’ho vissuta nel suo momento di massimo splendore, però posso dire di non essere d’accordo con la direzione che si sta prendendo. Il mio è stato un tentativo di andare contro corrente. Inoltre, nonostante io sia abbastanza cinico, ho sviluppato un’idea molto presente nel cinema, la leggenda che quando si muore si rivede tutta la vita e ho pensato che sarebbe bello se io potessi rivederla proprio all’interno di un cinema, esattamente come un film vero e proprio. Chiaramente sarebbe una selezione di momenti felici perché noi tendiamo a ricordarci solo delle cose belle; anche nel corto c’è un percorso di vita abbastanza lineare e poco turbolento, diciamo classico, che poi è quello che uno vorrebbe vedere alla fine della propria vita”.

Parlando di cinema nel cinema, in Late Show hai utilizzato inquadrature che rendono lo stacco tra quello che è dentro lo schermo e quello che è invece fuori molto netto.
“Sì, è stata una scelta naturale e la più realistica. Ho immaginato che quello che il protagonista vede sullo schermo sia un po’ la scatola nera del suo cervello quindi è stato immediato pensare a un’inquadratura soggettiva. È stata una scelta assolutamente di verosimiglianza: la vita la vediamo così ed è così che deve essere rappresentata. Volevo che ci fosse un contrasto nella narrazione tra la sala e il film proiettato, infatti tutto ciò che è nel cinema è perfettamente statico mentre ciò che è dentro lo schermo è dinamico perché è quello che lui vede attraverso i suoi occhi. Non abbiamo prediletto un linguaggio così realisticamente sporco come è probabilmente quello di una soggettiva nuda e cruda, però si tratta sempre del movimento contro la staticità”.

02tardella.jpgAnche la musica, o la sua assenza, evidenzia e distingue i vari livelli di narrazione fino ad arrivare al contrasto finale dei titoli di coda. Cosa c’è dietro a questa scelta?
“Mentre la sala è nel silenzio più totale, la musica del film proiettato sullo schermo è spudoratamente una colonna sonora perché quello è a tutti gli effetti un film: il protagonista non rivive la sua vita al completo ma c’è una selezione di scene e un montaggio ad hoc che quindi necessita di una colonna sonora specifica. Era nell’idea originale far capire che lui era soltanto una delle tante persone che passavano in quella sala, ognuna a vedere il suo film. Inizialmente avevamo avuto anche l’idea di mettere delle finte locandine di persone che erano entrate prima di lui, come una programmazione vera e propria. Quella è la musica del film nel film ed è commerciale, mentre l’unica vera musica del corto è quella finale che è una musica pop, spiritosa e si accompagna perfettamente alla grafica dei titoli di coda e del titolo al neon, molto anni ’80”.

La scelta del cinema, come luogo fisico in cui girare, è stata casuale o avevi pensato proprio a quella sala cinematografica specifica?
“La location è il Cinema Mexico di Milano e mentirei se dicessi di essere partito diretto con quella sala perché non essendo io di Milano ho dovuto girare diversi cinema prima di approdare a questo. Mi ha fatto però molto piacere poter girare lì perché quello è un cinema storico soprattutto della scena underground milanese, una dei pochissimi monosala rimasti che resiste contro l’invasione dei multisala e la chiusura dei cinema. Il proprietario è un’istituzione e il Mexico è diventato il cinema del Rocky Horror Picture Show che viene proiettato ogni venerdì sera da trent’anni, insieme a molti spettacoli a tema. Invece la biglietteria, il bar, è quella del Teatro Parenti sempre di Milano”.

Ultima domanda, più che altro una curiosità: perché il Tamarindo?
“Il tamarindo è un’idea del mio co-sceneggiatore Ernesto Giuntini. Cercavamo un gancio, qualcosa che legasse un momento di vita specifico di questa persona, presente nel film proiettato, con il suo ingresso iniziale nel il cinema e abbiamo cominciato a ragionare sull’epoca storica in cui il protagonista è vissuto. Tra le varie bevande che abbiamo elencato questa ci è sembrata la più adatta e infatti l’attore la conosceva benissimo, mentre io non so nemmeno che sapore abbia”.

Giorgia Sdei 02/06/2018

 

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