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Itinerari teatrali: conversazione con Alessandro Machìa

Laureatosi in Filosofia all’Università Sapienza di Roma con una tesi sull’ontologia drammatica di Pareyson, Alessandro Machìa incontra giovanissimo il teatro. La sua, una continua ed autentica ricerca del e sull’uomo, coadiuvata dallo studio della drammaturgia di Jon Fosse che lo ha instradato alla via “negativa” del lavoro registico; ad un lavoro di sottrazione che potesse mettere al centro il rapporto imprescindibile tra parola e silenzio. Le sue prime – e successive – esperienze registiche, d’altronde, vantano importanti collaborazioni: da Mario Missiroli a Gianni Quaranta; da Giorgio Albertazzi a Paolo Graziosi. Questi, tasselli fondamentali per l’edificazione di una vera e propria metafisica drammaturgica.
All’alba della prima edizione di “Appia nel mito – Echi di voci e suoni dal passato per ricordare il presente”, che vede la collaborazione e la co-direzione di Fabrizio Federici, ripercorriamo assieme la sua carriera. Uno sguardo al passato, al presente e al futuro.

Figlio di una formazione umanistica (ricordiamo, difatti, una laurea sull’ontologia tragica di Pareyson) qual è stato il suo incontro con il teatro? In questo, il suo background filosofico ha determinato un instradamento?
"I rapporti tra filosofia e teatro sono indiscutibilmente complessi; ma allo stesso tempo di prossimità assoluta. La filosofia è stata importante nel mio lavoro di organizzatore e regista teatrale; mi ha insegnato ad andare in profondità alle questioni. La lettura del testo, la sua ermeneutica, l’analisi sono nel lavoro con gli attori fondamentali ed in questo la filosofia mi ha aiutato molto. In fin dei conti, credo che il teatro sia un mezzo attraverso il quale conoscere il reale; conoscere se stessi. Ad oggi ritengo che il teatro sia l’unico mezzo esistente e deflagrante per la conoscenza del reale. Il teatro non è che relazione con l’altro; qui la parola ci viene consegnata dall’altro e noi non facciamo che restituirla".

Particolare è la sua dedizione per la drammaturgia di Jon Fosse. Quanto il suo studio è stato determinante nella costruzione di un autentico pensiero drammaturgico?
"Fosse rappresenta una ferita aperta e sanguinante in teatro per me. È in assoluto l’autore vivente più importante: è un autore difficile e poco frequentato proprio perché non naturalista. La sua è una drammaturgia del silenzio; dell’attesa; della morte. Al centro vi è la ricerca del senso. Fosse non è affatto un postmoderno; è per questo fuori dalle mode. In Italia va per la maggiore un teatro di linguaggio, di apparato; in Fosse, invece, la parola è strettamente radicata alla ricerca di senso. Il suo è un teatro delle grandi questioni ed è questo il teatro che ho scelto e cerco di portare avanti. Come Agamben insegna, la parola non fa che colmare una distanza che ci separa alle origini: questo non è, d’altronde, che il ruolo dell’attore. La proposta Fossiana è di grande interesse infatti per l’attore italiano: a lui si chiede non di fare o di sovra strutturare; ma di esserci. È risaputo che il nostro sia un teatro di parola; ma questo ha senso di esistere se noi non perdiamo l’ancoraggio al silenzio, da dove peraltro ha origine la parola. Ciò che Fosse chiede ai registi è un vero e proprio lavoro di sottrazione".

In questi anni ha collaborato – e continua a collaborare - con presenze di un certo calibro della scena teatrale: da registi come Mario Missiroli e Giulio Quaranta, ad attori come Giorgio Albertazzi, Paolo Graziosi, Paolo Bonacelli. In che modo queste figure sono state terreno fertile per una drammaturgia di stampo Fossiano?
"Sono state esperienze diverse. L’attore d’altronde è un mondo. Il mio primo attore “importante” è stato proprio Paolo Graziosi, per me maestro assoluto e al quale peraltro è dedicato il Festival “Appia nel Mito”. Era un attore straordinario; egli sapeva che il teatro non potesse bastare: era sempre alla ricerca dell’uomo. È lui ad avermi insegnato che il teatro è il luogo della contraddizione; di una dirompente violenza a cui siamo tutti esposti. Non è possibile salvarsi e allo stesso tempo fare teatro. L’attore è uno sciamano della parola: se l’attore comprende l’evanescenza della parola e che nulla resterà di noi e di quanto detto, allora quest’ultima smetterà di essere un’architettura razionale e diventerà parola che crea forme. Albertazzi, ad esempio, nel suo Prospero non faceva che rinnovare la parola di replica in replica, facendo così decadere ogni teoria del e sul teatro. Questo per me è il grande attore: colui che possiede un certo disprezzo verso la parola; che lascia essere la parola nella sua ambiguità. Come somiglianza centrano poco con Fosse; ma sono per questo il rovescio della stessa medaglia".

A giorni avrà inizio la prima edizione di “Appia nel mito”, di cui lei ne è direttore artistico. Com’è nato questo progetto? Cosa rappresenta per lei la scelta di un tema centrale come quello del mito?
"L’idea nasce da una collaborazione già consolidata con Fabrizio Federici, anche lui direttore artistico del Festival per la sezione danza. Abbiamo così unito le nostre competenze per realizzare tutto un grande progetto culturale, che nasce dalla necessità di parole autentiche; dal bisogno di un ritorno al mito. Al di là dei nostri progetti di razionalità; delle magnifiche sorprese progressive, il mito con la sua contraddittorietà agisce profondamente e lo vediamo giorno dopo giorno. Tant’è vero che il claim del Festival è proprio ricordare il presente; prendere i due estremi, immetterli e creare un ossimoro significativo. D’altronde l’anno e mezzo di lockdown cos’è stato se non un ricordo di un eterno presente. Il mito è così quel fil rouge che collega il passato al presente. Noi oggi viviamo di false opposizioni, di talk show in cui la parola è strumentale e dove non vi è più autenticità. Il pensiero è ormai diventato tifo, schieramento: e questo non ci serve più; ci serve la parola autentica del mito; la parola autentica dell’artista che parla ad una collettività. Questo infatti è un festival che vuole unire gli artisti alla cittadinanza; il teatro alla città: un festival che abiti i luoghi e motivo per il quale “Appia nel mito” sarà la prima edizione di un format che vorremmo portare nella concretezza lungo la via Appia fino a Brindisi".

Alla luce di quanto ha appena affermato, che ruolo avrà il Festival sulla collettività?
"Lo scopo non è ricercare il nuovo, perché il nuovo non deve diventare un fine in sé. Lo scopo, senza dubbio, è quello di fare cultura in senso alto del termine e per fare cultura ci vuole una comunità che si riunisca. Lo scopo, pertanto, è quello di instaurare un rapporto onesto con il pubblico. Il pubblico deve capire che cosa gli stai proponendo. Nel nostro caso sono riscritture di classici, di cui credo ci sia ampiamente bisogno e dove il mito agisce sempre sotto traccia. “Appia nel mito” per questo non sarà soltanto spettacolo; ma laboratori aperti a tutti i cittadini; presentazioni di libri e tutto ciò che crei una connessione con il cittadino, con la natura".

Mito e memoria: due parole chiave che fanno da pilastro. In che modo entrambe possano determinare la costruzione del futuro panorama teatrale?
"Senza dubbio entrambe hanno un’importanza capitale; soprattutto perché il mito agisce di per sé, anche se non lo vogliamo. Dal suo canto, la memoria è fondamentale per la costruzione del futuro; è importante avere memoria di ciò che è stato. Parlando da regista, se non abbiamo memoria dei grandi attori; se non coltiviamo l’arte dell’attore e della parola, perderemo il teatro. Dobbiamo conservare, preservare, proteggere l’attore; altrimenti non riusciremmo a costruire il teatro del domani. La memoria, così, è per il teatro qualcosa di decisivo: non possiamo edificare nulla se non ricordiamo, altrimenti saremmo condannati all’eterno ritorno dell’identico. Ma questo, deve essere un ricordo, una memoria esercitati collettivamente: è questa la grandezza del teatro. Veniamo ormai da un’eccedenza di virtualità; ma dobbiamo tornare ai corpi, alla presenza confutabile dell’attore in scena e delle persone che ne partecipano e fanno lo spettacolo". 

Annagrazia Marchionni, Carola Mazzia Piciot 08/06/2022

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