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"Io ti ho creato sognando": Matteo Tarasco narra delle donne d'Iliade, Odissea ed Eneide

Definendo all'inverso quello che posso aver intuito si propone di rappresentare il tuo spettacolo cito uno pseudo Ippocrate in una lettera a Dionigi "Sul riso e sulla follia": "Una donna ha sempre bisogno di qualcuno che la moderi, giacché ha in sé per natura una certa intemperanza che, se non viene corretta giorno dopo giorno, si mette come gli alberi a buttare una vegetazione matta. Cosa accade alla tua drammaturgia, è la natura dell'uomo e dell'eroe ad essere moderata, diciamo pure indagata e plasmata, da una donna?
“Sì, direi che è esattamente questo. Uno dei nostri personaggi che è Didone specifica: Enea io ti sapevo prima di incontrarti, io ti ho creato sognando. Una storia di donne che amano spingendosi all'estremo limite del dolore, sino a perdere la vita per il sentimento. Nonostante si differenzino per natura sociale, alcune siano creature divine e altre terrene, sono donne che affondano la radice della loro storia in un sito a noi facilmente riconoscibile: quante cronache estremamente odierne ci raccontano di donne che amano all'estremo fisico della sofferenza, talvolta soccombendole”.TARASCO4

Facendo riferimento al dolore penso alla tua personale Iliade che ha un soggetto centrale nelle lacrime di Achille. Nelle Heroides di Ovidio, che tra l'altro citi nelle tue fonti, compare una lettera che la schiava Briseide scrive ad Achille, in un passo si può leggere: "tutte le cancellature che vedrai, sono state le lacrime a farle; ma, nondimeno, anche le lacrime hanno il peso della parola."
Conoscendo l'immenso potere comunicativo del pianto, in che modo le parole dell'uomo e i fatti che ne conseguono si fondono alle lacrime femminili? Si distinguono quelle di un uomo da quelle di donna?
“Sono due qualità ben definite per gli antichi. La lacrima per l'eroe è una sorta di integratore, diremmo oggi, un rinvigorente che restituisce forza e soltanto chi veramente è un uomo può permettersi il pianto. Noi che viviamo un'epoca postromantica guardiamo alla lacrima come una debolezza, e a questa sono inclini gli essere più fragili: il pianto antico femminile è una purificazione, una catarsis. I personaggi dell'Iliade che patiscono l'assenza di Achille, nel caso specifico Briseide, lo incontrano nel pianto che è proprio il riconoscimento e lo svelamento di una natura umana. Non tralascerei neanche il lavoro che insieme agli attori si realizza in funzione delle lacrime dello spettatore, vedere uscire occhi lucidi dallo spazio in cui si compie la scena è per noi una ricompensa. Il nostro è un percorso che porta a frugare dentro alle parole il sentimento che, certo, si conosce per essere stati umani: il motivo per cui si fa teatro è quello di reggere lo specchio alla natura, cerchiamo modestamente di reggere uno specchio distorto per far sì che il pubblico si conceda alla comprensione di se stesso”.

"Inseguendo l'ombra il tempo invecchia in fretta" è un frammento attribuito al filosofo presocratico Crizia. Quando la ragione insegue un'ombra si perde dietro vanità inconsistenti, illusioni che logorano il proprio tempo e permettono un vagare distratto tra presente passato e futuro, senza tregua. Il tuo progetto, che riguarda l'ultimo degli spettacoli in programma, sull'Eneide Virgiliana, è sottotitolato "ciascuno patisce la propria ombra". Tenendo in conto che Virgilio probabilmente non intenedeva esaltare l'inimicizia tra le potenze di Roma e Cartagine ma dedicarsi all'amore tra due personaggi mitici - come sono Didone e Enea – un amore ostacolato dal fato, che è volontà superiore agli uomini e agli dei, sembra che per le tue donne il destino rappresenti una condanna da scontare.
“È una condanna da scontare: sostenevano gli antichi che gli dèi inviavano sulla terra il destino di cose che non volevano, non amavano, perché intendevano essere liberi dal male. Si patisce la propria ombra, che può essere considerata un destino da subire tristemente senza che lo si conosca in anticipo, ma vi è inoltre da considerare che, per i latini l'ombra è quello che, poi, a fine Ottocento, è diventato l'inconscio: l'ombra è la condanna ad essere se stessi”.

Benedetto Croce sosteneva che Virgilio fece male a far incontrare un povero, piccolo borghese, inadatto alle grandi passioni com'è Enea, con una creatura palpitante come Didone, pregna di maestosità, di pietismo, di sensualità, adatta alla più complessa tra le drammaturgie. Eppure l'Oxford English Dictionary riporta il sostantivo "dido", comunemente usato intorno alla fine del Trecento a significare "a dysoures tale", un usurato racconto da repertorio di cantastorie. Qual è la via per Didone?
“Neanche questa volta riesco ad essere d'accordo con Croce, sono sempre stato fin dalle scuole un anticrociano; credo che Enea non sia affatto un borghese; dico che è un grande eroe che nella storia di Troia viene identificato come tale e per la quale il suo apporto è determinante. È necessario pensare a Didone come una Cleopatra, quella shakespeariana, ad esempio: una donna piena di passione e carnalità che la infiammano e bruciano. È Didone a dire "ma come potevo vedere una fiammella se ardevo tra le braccia del sole", è una donna che non teme l'incendio di amore e la frenesia che esso infonde, non è scevra da responsabilità, ma sceglie di giungere fino in fondo al proprio sentimento e restargli fedele.
Forse è un dato sociale quello di attribuire il suo nome al repertorio dei cantastorie, proprio perché è materia di narrazione. Nelll'Inghilterra elisabettiana spesso gli attori raccontavano storie della guerra di Troia, coinvolgendo Didone e innalzandola, non screditandola a usurato repertorio. Parlando di Virgilio, di cui probabilmente era maggiore la fruizione rispetto a Omero per comprensibilità linguistica, quella di Didone rappresenta una delle storie più eclatanti”.

TARASCO2L'etimologia tradizionale mette in relazione il nome di Penelope con l'anatra (penelópe, es), esemplare di fedeltà coniugale sul quale leggende postomeriche hanno ritagliato l'origine del personaggio. A mio parere, credo che questa strida con una parte delle regole basilari della composizione dei nomi: il greco pēné (trama) e la radice -èlop/-òlop (rompere) definirebbero la sposa di Ulisse come "colei che rompe la trama" e dunque colei che, resistendo costantemente alle molestie dei Proci, tramite l'espediente di tessere e disfare una tela, mantiene una situazione stabile e invariabile che non distoglie dall'Odissea dell'eroe.
La scelta di escluderla dal tuo testo drammaturgico è forse riscontrabile nell'interpretazione etimologica?
“Abbiamo appositamente scelto di escludere la figura di Penelope perché è la storia di Nessuno che ritorna, gioco nel doppio significato specialmente nel sottotitolo. Non raccontiamo il ritorno a casa, Penelope non esiste, la narrazione viene affidata alle donne che hanno intercettato Ulisse durante il suo viaggio. Penelope non è assolutamente funzionale, è funzionale il percorso: non importa dove sia Itaca, l'importante è che esista una Itaca per la quale compiere un cammino”.

Una visione calviniana (n.d.r. Il 21 Ottobre 1981 per "Repubblica", recensendo il primo volume della Fondazione Valla del poema omerico, Italo Calvino scrive "Non è forse l'Odissea il mito d'ogni viaggio? Forse per Ulisse-Omero la distinzione menzogna-verità non esisteva, egli raccontava la stessa esperienza ora nel linguaggio del vissuto, ora nel linguaggio del mito, così come ancora per noi ogni nostro viaggio, piccolo o grande, è sempre Odissea.")
“Sì, assolutamente. Nulla è più calviniano e in questi termini penso all'idea della titolatura: non si titolerebbe Odissea se concernesse l'azione del ritornare; a dettare il tema è ciò che l'eroe vive, la sua maledizione ed espiazione non furono i Proci ma il viaggio. Penelope non determina il destino quindi, lo completa e lo suggella: Enea è eroe in viaggio, nel medesimo istante in cui torna può cominciare ad essere nuovamente un uomo. Si è eroi nel momento della perdizione, successivamente all'essersi ritrovati non vi è sorta di eroismo. Il percorso dell'uomo - e dell'artista, in una specifica fase della vita può trovarsi ad incappare disperatamente alla ricerca di uno spazio, di un'affermazione; è quando la ricerca restituisce un riconoscimento che l'uomo s'accheta come un'acqua stagnante e, alle volte, si ripete”.

Francesca Pierri 19/05/2016