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“Officina Teatrale” #3: i giovani drammaturghi si mettono in gioco al Teatro Belli di Roma. Recensito incontra gli autori

Tre giovani drammaturghi: Annick Emdin, Natalia Guerrieri e Gianni Spezzano. Tre testi: “Il regno prima di tutto”, “La ferita” e “La donna di mezzo”. Insieme agli allievi del primo anno dell’Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico", seguiti dal M° Rodolfo Di Giammarco e dal M° Massimiliano Farau, hanno partecipato a Officina Teatrale, al Teatro Belli dal 5 al 7 giugno. È la cronaca di un momento particolare, il dolore, la malinconia e la gioia inaspettata di scoprire un fratello e una sorella. La disperazione che supera il ragionamento, la memoria di una vita imperfetta, la famiglia come specchio deformante di noi stessi.

Officina Teatrale è un «cantiere di scrittura e collaudo». I temi proposti dal bando di quest’anno – Il Coming out e un figlio/figlia che scopre di avere un fratello/sorella al di fuori della propria famiglia – entrano nel vivo dei rapporti e delle dinamiche familiari, non sempre semplici da gestire. Da cosa siete partiti per affrontarli e quali sono state le difficoltà iniziali?

Annick Emdin: Ho ragionato molto su i due temi che ci sono stati offerti e ho deciso di affrontare il secondo, la scoperta di un fratello, perché sapevo che le potenzialità drammatiche sarebbero state maggiori. L’inclusione di uno sconosciuto all’interno della famiglia scompone gli equilibri e ribalta completamente gli assetti. Il passo successivo è stato ragionare sull’epoca e il luogo in cui ambientare la mia storia. Oltre alla passione e all’interesse personale per il Medioevo, la lettura della Trilogia dei Lungavista di Robin Hobb mi ha ispirata e convinta. Collocare la scoperta di un figlio illegittimo all’interno di una famiglia reale, in un passaggio complicato come la successione al trono mi ha permesso di analizzare i differenti stati d’animo che albergano nei personaggi, non solo obbligati a partecipare alla rivelazione ma a guardare con maggiore responsabilità alle conseguenze. A quel punto non solo il destino della singola famiglia sarebbe cambiato ma l’ordine di un intero popolo.

Natalia Guerrieri: Ho svolto anch’io il secondo tema, l'improvvisa scoperta di avere un fratello o una sorella. Mi sono messa nei panni di un figlio adolescente che scopre, improvvisamente, di non essere più l’unico e ho immaginato la sua reazione impulsiva, piena di rabbia. È quindi importante tenere presente che il mio personaggio è un adolescente; in lui rabbia, frustrazione, scoppi di violenza e impulsi di affetto e amore verso il genitore si susseguono con l'incoerenza e la rapidità che caratterizzano un individuo in quel preciso momento della vita. Ho cercato di rendere padre e figlio molto umani, più possibilmente veri e non stereotipati; per questo ho lavorato soprattutto sulle loro contraddizioni. Ho pensato che l’abitacolo di una macchina fosse il luogo perfetto dove far riaffiorare il passato, gli sbagli e la vergogna, perché è claustrofobico e privo di vie di fuga. In più, è la riproduzione in miniatura di una casa, dell'ambiente domestico e richiama quindi l'idea della famiglia. Il titolo “La ferita” si può intendere in diversi modi: come aggettivo è riferito alla figlia tenuta nascosta, come sostantivo invece è sia la ferita che fa soffrire il padre, tormentandolo con il senso di colpa, sia quella che improvvisamente apre uno squarcio nella vita del figlio.

Gianni Spezzano: Quando mi propongono un tema metto in atto sempre la stessa strategia: mi muovo per paradossi. Inizio a immaginare situazioni estreme, al limite del surreale. Poi inizio ad asciugare e a portare la storia a terra, se posso usare questa espressione, finché non mi sembra verosimile. La difficoltà è quella di far quadrare il conto, dare una chiusura che porti con sé un avvenimento principale che possa anche sviluppare ulteriori dinamiche in prospettiva, evitando bruschi colpi di scena o escamotage.

Il tuo lavoro è stato diviso in due fasi: la prima di lettura a voce alta di quanto scritto e la seconda, “pratica”, di messa in scena. In queste, siete stati guidati da due personalità critico/creative, Rodolfo di Giammarco e Massimiliano Farau. In che misura hanno determinato lo svolgersi della scrittura drammaturgica? Sono intervenuti separatamente nel tuo lavoro, oppure hanno avuto modo di confrontarsi con voi insieme nelle due fasi?

A. E.: Rodolfo di Giammarco e Massimiliano Farau non sono entrati nel merito del testo. Sono stata lasciata completamente libera durante l’atto creativo. Durante le lezioni del Master in Drammaturgia e Sceneggiatura all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico Rodolfo di Giammarco mi ha insegnato ad andare dritta al cuore dell’idea, a evitare inutili fronzoli, a distanziarmi da quegli elementi graziosi e di maniera poco funzionali alla storia. Un teatro viscerale e carnale, in cui si affrontino i temi con coraggio, le tensioni vitali e le passioni più profonde dell’essere umano. A non aver paura di indugiare in lunghe pause e silenzi, a condurre una ricerca strenua, a lasciare emergere sempre quello che sento. Con Massimiliano Farau l’incontro è stato più breve ma intenso, ho avuto la possibilità di spiegarmi, di confrontarmi sul testo e immaginare diverse strade per l’interpretazione che avrei voluto. Abbiamo sviscerato a fondo le personalità dei miei tre protagonisti, scavando quanto era necessario per consentire agli attori di comprendere ed entrare nei ruoli da me immaginati. La risposta conclusiva saranno gli spettatori a darla.

N.G.: Durante il Master in Drammaturgia e Sceneggiatura presso l'Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, ho avuto modo di seguire le lezioni del professor Rodolfo Di Giammarco e di svolgere diversi esercizi di scrittura assegnati, ascoltando poi in classe i commenti e i suggerimenti da lui ricevuti. Con il M° Massimiliano Farau ho lavorato invece nello specifico al mio microdramma "La ferita", presentato al Teatro Belli in occasione della rassegna Officine Teatrali. Alla lettura del testo, è seguita una sorta di "intervista" durante la quale Farau mi ha posto delle domande specifiche che miravano a comprendere nel profondo non solo il mio modo di pensare ma la mia intera visione del mondo.

G.S.: Con Rodolfo di Giammarco c’è stato un lungo confronto rivolto alla scrittura durante le sue Lezioni all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica mentre con Massimiliano Farau è stata compiuta una specie di lettera a tavolino. Abbiamo analizzato la scena, confrontandoci sulle dinamiche generali che percorrono il testo per poi soffermarci sugli archi narrativi di ogni singolo personaggio. Farau ha improntato il lavoro in maniera molto meticolosa, soffermandosi anche su piccoli passaggi drammaturgici, su singole frasi e anche, talvolta, su determinate parole. È stato un confronto davvero interessante, soprattutto per il rispetto che ha dimostrato da regista per il testo scritto che spesso invece viene tagliato secondo i gusti di chi lo mette in scena.

Il vostro apporto, in quanto drammaturgo si è risolto soltanto nel proporre un copione compiuto o anche in qualche suggerimento, ulteriore, in fase di montaggio dello spettacolo?

A.E.: Ho scritto il copione e ho lasciato agli attori e al regista il compito di portarlo scena, di farlo vivere. Sarà una sorpresa anche per me vederlo per la prima volta sul palcoscenico. Essere drammaturghi significa essere ideatori, essere coloro in grado di mettere in moto il mondo, il teatro, segnare la partenza di quello che è un gigantesco processo di frammentazione, che tassello dopo tassello vede la realizzazione dello spettacolo. Un lavoro di aggregazione che parte da qui, dal copione, e poi prosegue la sua strada.

N.G.: Ho seguito le primissime prove dei due interpreti del mio corto, Luigi Fedele e Gianfilippo Azzoni, in modo che potessimo confrontarci in partenza. Mi hanno posto delle domande relative ai personaggi e mi hanno mostrato le loro proposte di interpretazione. Alle prove, Massimiliano Farau ha fatto notare che la scelta di due interpreti con due dialetti diversi, quello romano e quello milanese, avrebbe sottolineato la distanza tra le due vite del padre protagonista del corto: quella passata, macchiata da quello che lui definisce "un errore" e quella presente.

G.S.: Non ho assistito alla fase di montaggio di questo lavoro nello specifico. In generale trovo sempre proficuo il confronto, con il regista, con gli attori e il cast tecnico. Ovviamente il regista ha l'ultima parola e bisogna accettare di dover fare un passo indietro, per amore della riuscita del lavoro e, in questo caso, per fare tesoro degli insegnamenti.

Qual è la percezione della professione del drammaturgo e come vi siete adattati alla scrittura teatrale?

A.E.: Credo che dietro al bisogno di scrivere ci sia la volontà di raccontare qualcosa che parta piccola, da un singolo particolare e poi abbia la forza di raggiungere l’universale, diventando una rappresentazione stessa dell’umanità. Penso sempre a Romeo e Giulietta di William Shakespeare, a come quella storia d’amore non appartenga più ai protagonisti ma a noi, spettatori, lettori. I loro sentimenti hanno animato le nostre passioni. È compito del drammaturgo cogliere quell’agitazione, quel moto che si insidia in ognuno, la paura, la consapevolezza del pericolo, la vecchiaia per citarne solo alcune con sensibilità ma anche grande capacità di analisi e ironia. A teatro tutto è diverso, ciò che scrivi deve essere recitabile, deve saper prendere forma sul palcoscenico, non tutto ciò che funziona in un romanzo funziona in un copione. Ci sono alcuni limiti, come il tempo, lo spazio, l’interazione tra gli attori, che poi possono essere sovvertiti grazie all’ausilio di artifici, ma con cui bisogna comunque confrontarsi.

N.G.: La drammaturgia ti consente di essere versatile, di metterti alla prova e soprattutto di lavorare con gli altri. È un lavoro collettivo, un luogo di dibattito, di confronto, di contaminazione di idee, la tua visione deve essere forte ma non deve impedirti di cambiare idea, se la proposta di chi lavora con te apre nuove possibilità. La scrittura crea un mondo, con regole e coerenza interna. Il lavoro però non finisce con la scrittura, questa è il principio di una lunga evoluzione che procede per accumulazione. Mi piace poter pensare che il mio lavoro sia una parte di qualcosa di più grande, una componente necessaria ma non sufficiente e che quello che ho scritto, nelle mani dell'attore, del regista, del tecnico e infine sotto gli occhi del lettore o del critico possa continuare a trasformarsi. Per questo ringrazio anche te, Francesca, che con la tua intervista hai fatto parte di questa catena di collaborazioni.

Francesca Fazioli 08/06/2017

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