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Focus "Involucri - quattro interni da Labiche": intervista all'allievo regista Danilo Capezzani

È un progetto corale quello di ‘Involucri – Quattro interni da Labiche’, curato dal M° Giorgio Barberio Corsetti per l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica ‘Silvio d’Amico’ che andrà in scena dal 23 al 28 gennaio al Teatro dei Dioscuri di Roma. Gli studi degli allievi del II anno di regia hanno condotto  all’adattamento di quattro opere di Eugene Labiche, fra loro c’è Danilo Capezzani, che ci parla di ‘Se ti becco, son dolori’, la pièce su cui ha scelto di lavorare.

Com’è stato lavorare a un progetto che prevede quattro sguardi diversi su quattro opere di un autore tanto prolifico come Eugene Labiche?Capezzani1

La sfida è stata dover lavorare su quattro testi diversi usando lo stesso spazio. Se è vero che all’inizio questo è stato un limite, dopo si è rivelato un aspetto produttivo, perché da un lato ci ha spinti ad adottare sguardi diversi, come registi; dall’altro lato ci ha stimolati a trovare una linea che unificasse i quattro lavori, secondo le indicazioni del M° Barberio Corsetti. Abbiamo ricreato una sorta di inquadratura nera, una scatola magica, universale e neutra, e abbiamo cercato di infilare al suo interno i quattro diversi interni in cui si ambienta ognuna delle pièce teatrali.

In questo spettacolo sei sia regista sia attore, nella parte di Papavert. Come ti sei trovato a gestire questo doppio ruolo?

È stato difficilissimo! Io sono entrato in Accademia come attore, poi ho deciso di passare alla regia, tre mesi fa. Questa è diventata così la mia prima esperienza di regia nell’ambito delle esercitazioni dell’Accademia. Ho voluto non rinunciare a recitare, anche se è stata un’impresa titanica, perché siamo undici attori per una pièce molto complessa. È stata mia volontà fin dall’inizio continuare ad approfondire la recitazione. Sì è rivelata così una sfida per tutti: per gli altri attori e per me, che ho deciso di sottopormi a questa doppia prova.

‘Se ti becco, son dolori’ è stata rappresentata per la prima volta nel 1856. Come hai deciso di approcciare un testo pensato per un’epoca tanto lontana dalla nostra?

La mia linea è essere fedele a quello che altri, prima di me, hanno scritto. Ho cercato di cogliere il senso profondo che Labiche voleva trasmettere e ho provato a renderlo comprensibile anche allo spettatore odierno. Questa pièce ha una dinamica universalissima, come tutte le opere di Labiche, differentemente da quello che si potrebbe pensare, quando ci si limita a calarle nel contesto del vaudeville.

Ritieni dunque che il vaudeville, e la commedia di Labiche in particolare, abbiano ancora qualcosa da raccontare anche al pubblico contemporaneo?

Sì, assolutamente. Il vaudeville è stato etichettato come un genere grottesco, macchiettistico. Invece si trattava di commedie in cui all’azione si intervallava il canto, quel tipo di canzoni popolari da cui il vaudeville prende il suo nome. Le vicissitudini che accadono al direttore d’orchestra, protagonista di questa pièce, sono tutte legate al fatto che lui ama sua moglie ma sente il bisogno di tradirla con un’altra donna: sono situazioni che accadevano nel 1856, quando lo spettacolo ha debuttato, ma che accadono allo stesso modo anche oggi. Io ho cercato di trasporre queste vicende, tenendo conto che siamo nel 2018, ma rispettando il testo originale.

Il M° Giorgio Barberio Corsetti parla di come l’associazione degli avvenimenti nella scrittura di Labiche sia ‘inaspettata e rapida’. Come ritieni che la sua guida abbia influenzato il tuo lavoro di regia?

Io credo che la definizione che il M° Barberio Corsetti ha dato della scrittura di Labiche sia giustissima ed è da questa che sono partito. Quello che si tende a fare, mettendo in scena questi testi di vaudeville, è dare un effetto finale di grande velocità, per la pura volontà di creare un ritmo fine a se stesso. È un approccio registico sbagliato, perché invece i personaggi vengono costretti dalla rapidità delle circostanze a muoversi senza perdere un solo secondo. La comicità finale non è quindi data dal ritmo concitato dalle battute ma dalla consapevolezza degli attori di dover cogliere l’attimo: se non sfruttano quel secondo vitale nei quarantacinque minuti che vivono sul palco, saranno perduti.

Nella commedia originale erano previsti anche intervalli cantati. Come hai gestito la presenza della musica all’interno della messa in scena?

In realtà in ‘Se ti becco, son dolori’ più che cantare, ci sono molte parti strumentali, perché il protagonista, Faribol, è un direttore d’orchestra. Faribol dovrà svolgere il suo lavoro a casa di Papavert, il personaggio da me interpretato, che ha organizzato un ballo per presentare sua nipote in società. I quattro orchestranti che dovrebbero essere diretti da Faribol sono così parte integrante della pièce: è il caso del flautista, un personaggio comico molto particolare, afflitto da mal di denti e gastrite, impossibilitato a suonare il suo flauto e incapace nelle relazioni umane. Ci sarà quindi questa orchestra dal vivo che fingerà di essere l’orchestra scritturata da Faribol.

Dopo il vaudeville, quali altri generi vorresti esplorare? Hai già in mente idee per i tuoi prossimi lavori?

È una domanda complessa. Posso solo dire che dopo il vaudeville ho intenzione di spostarmi più o meno cento anni dopo la messa in scena di ‘Se ti becco, son dolori’, tuffandomi in pieno Novecento. Il resto sarà una sorpresa.

Ilaria Vigorito

21/01/2018

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