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Intervista al Maestro Valentino Villa per “IL SOGNO” di Strindberg in scena dal prossimo 24 marzo al teatro Eleonora Duse di Roma

Come nasce l’idea di questo spettacolo?

Questo è un lavoro che faccio con i ragazzi allievi del III anno del corso di recitazione dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico. Solitamente il terzo anno è un anno in cui gli attori incontrano i registi su progetti che poi vanno in scena, proprio come quello che dal prossimo 24 marzo sarà al teatro Eleonora Duse di Roma. La scelta del testo è mia ed è in realtà la prima volta che mi trovo ad affrontare questo autore, ma stimolato da diverse altre esperienze con gli allievi attori del terzo anno, mi sembrava interessante lavorare su Il Sogno di Strindberg.

Tempo e Spazio, per Kant erano forme a priori della sensibilità, cosa sono invece per l’autore svedese? E che significato anno all’interno dello spettacolo?

Tempo e spazio sono, da sempre, due elementi fondativi del teatro, su cui ci si deve confrontare e misurare continuamente qualsiasi sia l’oggetto portato in scena. D’altro canto però questi due elementi sono la specificità di questo spettacolo che definiscono la cornice che Strindberg chiama “sogno”; le riflessioni sul tempo e sullo spazio sono infatti qualcosa in più che meri strumenti in mano a registi. L’autore vuole farci riflettere sulla nostra percezione del tempo e dello spazio che è in fondo costantemente mutevole nella nostra realtà di tutti i giorni, per quanto ci possa far piacere pensare che il tempo sia qualcosa di definito così come lo è lo spazio. Il sogno dà esattamente questa sensazione di continuo e costante mutamento dell’ordine temporale.
Strindberg rispetto allo spazio fa continuamente modifica delle ambientazioni in cui gli autori recitano. C’è una sequenza di queste ambientazioni tutte completamente diverse fino poi a ritornare, come in un cerchio, a quelle iniziali. Quando si deve mettere in scena uno spettacolo di questo tipo la prima che scelta che fai è decidere se seguire il costante cambiamento di spazio o pensare, come in realtà abbiamo pensato noi, che lo spazio sia in realtà il luogo della mente. Lo spazio strindberghiano “che porterò in scena” con questo spettacolo può essere cambiato non essendo uno spazio fisico: può essere cambiato nel suo uso e nella percezione che i personaggi hanno dello spazio stesso. Il tempo invece prevede, soprattutto nella percezione del quotidiano, una linearità che viene contraddetta anche dal testo originale; in un’esperienza che noi facciamo, talvolta nella realtà, ma più frequentemente nel sogno.
Non è mai veramente chiaro se una cosa è in un ordine cronologico con quella precedente, magari ci sono stati salti temporali in avanti o in indietro e il risultato poi di tutto questo è principalmente un salto fuori da gli elementi più strettamente narrativi e da una linearità del tempo. La narrazione è meno importante della percezione, che è invece un po’ perturbante nella visione d’insieme della vicenda oppure di quello che vediamo accadere sul palcoscenico.

Vi sono state delle scelte peculiari, ad esempio per l’ambientazione, per la scenografia del suo spettacolo?

Proprio per non inseguire tutti quei cambiamenti di spazio che Strindberg pone noi abbiamo pensato di individuare un luogo unico che avesse alcune caratteristiche come ad esempio quella di essere un luogo di passaggio, tutti possiamo così capire che i luoghi di passaggio hanno a che fare con i nostri sogni. L’idea è stata quella di mettere in scena l’esterno di un motel, qualcosa appunto che fosse simile a un albergo, un luogo che appunto per definizione appartiene a tutti quelli che ci passano, ma che di fatto non appartiene a nessuno. Questa per me è una metafora del sogno. Abbiamo in realtà tentato di rendere riconoscibile il motel come uno di quelli di una piccola provincia di uno sperduto paesino di uno Stato americano di certi film che a volte a tutti ci capita di vedere. 

Come si è avvicinato all’autore Strindberg?

Questo è un testo che io, in realtà, non ho mia affrontato come regista, ma tantissimi anni fa quando ancora facevo principalmente l’attore fui nel cast de Il Sogno di Ronconi. Senz’altro poi mi ha colpito la nota biografica dell’autore svedese ma l’avvicinamento al testo non poteva non essere condizionato dall’esperienza che avevo fatto quando ero più piccolo. Lo spettacolo di Ronconi rimane molto diverso però da quel che io ho deciso di fare. Mano a mano che sono arrivato al testo ho dovuto fare una specie di cernita tra un rapporto più personale e più emotivo con quello che rimaneva un po’ nella mia testa e quello che avevo vissuto. Dopo di che, in realtà, mi sono dedicato in maniera sostanziale al testo. Ho cercato di mettere le mani, da una parte sulla traduzione, pur non dominando la lingua, ma cercando di rivedere la traduzione quella che usualmente abbiamo come riferimento in Italia, prediligendo un adattamento del testo fatto da Caryl Churchill. A lei va il merito di aver riportato il linguaggio di Strindberg un po’ di più al contemporaneo, togliendo anche tutti i riferimenti più legati alla spiritualità, che sono molto presenti nel sogno. Quindi poi, superato il passaggio in cui ho pensato alla traduzione, è stato anche l’incontro con gli attori allievi a far nascere il progetto.

Per la realizzazione dello spettacolo si è quindi ispirato a dei modelli del passato? Nella genesi di uno spettacolo qual è l’elemento più importante e qual è stato questa volta?

Uno spettacolo è sempre l’incontro tra me come sono in questo momento, quello su cui mi interessa ragionare e le circostanze, che come in questo caso, consistevano nel dare delle sfide agli attori in modo da continuare a permettere loro di porsi nuove domande rispetto alla professione di attori.

Matteo Petri  20/03/2019