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Intervista a Giuseppe Cederna: attore, scrittore e viaggiatore che racconta la Grande Guerra nelle scritture di poeti e combattenti

“Sarajevo, domenica 28 giugno 1914. Sono le dieci del mattino di una splendida domenica d’estate. Fra quarantacinque minuti due colpi di pistola sconvolgeranno quel mondo...”. Da una narrazione quasi cronachistica dell’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austro-ungarico, storicamente legato alla miccia che fece esplodere un’Europa ormai esposta da tempo alle fiamme, prende l’avvio “L’ultima estate dell’Europa”, una scrittura a quattro mani, quelle di Giuseppe Cederna e Augusto Golin, di cui è lo stesso Cederna a parlarci, dalla sua molteplice prospettiva di autore, attore, narratore, e anche viaggiatore.

Il titolo dello spettacolo riprende un libro di David Fromkin, che affronta la Grande Guerra e i motivi che l’hanno scatenata. Guerra di cui nel 2015, per l’Italia, è ricorso il centenario.
“Sì, ne abbiamo preso solo il titolo, per il resto, lo spettacolo è stato montato attraverso delle storie sulla Grande Guerra. Non sono mai stato un appassionato di guerra. Si può dire che prima non ne sapessi nulla e come materia da trattare fosse assolutamente lontana da quello che volevo fare; in realtà, poi, quando è arrivato Augusto Golin, l’altro autore dello spettacolo, e mi ha portato i libri, le storie erano talmente straordinarie... e io così ignorante, nel senso che non ne conoscevo nessuna, al punto tale che alcune mi hanno colpito moltissimo”.

Augusto Golin è anche uno studioso? Dove ha reperito quei materiali?ultimaestate4
“È un appassionato. Aveva lavorato per tanti anni al Festival di Trento su una montagna, facevano parte del suo interesse personale, aveva forse fatto anche qualche reading; io non volevo fare né una lettura, né teatro di narrazione, né assolutamente volevo fare qualcosa “comandato dagli anni”, dalla celebrazione dagli anni, è una cosa che mi dà molto fastidio, poi però se sono qui a parlartene significa che ci sono cascato anch’io. Nel bene o nel male, perché sembra che la memoria sia sempre qualcosa che funzioni a comando. Questa cosa qui l’ho pagata, nel senso che c’è stata tutta un’orgia di spettacoli all’inizio, belli o brutti che fossero. Per me questo è uno spettacolo sull’uomo, sull’Italia, e su un momento storico che fonda ancora gran parte della memoria italiana e della nostra cultura. Abbiamo cercato di fare uno spettacolo più personale”.

Volevo portarti proprio lì, infatti: in che misura questo spettacolo riguarda anche te stesso?
“Riguarda me stesso come uomo, come viaggiatore, come amante della poesia, come attore e narratore, queste sono un po’ tutte le cose che io ritengo di essere. Un po’ uno scrittore. E quindi, ho scritto, per esempio, la prima scena che mi sembrava che potessi raccontare e interpretare, e cioè quella su “che cosa succede a Sarajevo”. In quell’ora tremenda in cui a Sarajevo, un corteo di macchine, quindi come se fossero astronavi – perché a quei tempi le macchine non c’erano – attraversa una città orientale, nella periferia dell’impero; perché se tu vedi dov’era l’Austria e l’Ungheria su una cartina, Sarajevo è il punto più a destra, a est – e a sud. Durante quell’ora di attraversamento sembra una specie di film, che io racconto, minuto per minuto, o ogni 5-6 minuti, come se fosse l’assassinio del presidente Kennedy. Ci sono nascosti tra la folla curiosa, lì, dei giovanissimi kamikaze. “Kamikaze” perché sono pronti a morire, e sono giovanissimi studenti serbo-bosniaci – alcuni vengono da Belgrado, alcuni sono di Sarajevo – che stanno per compiere un attentato".

Sembra che tu stia parlando del presente.
“Questa scena è stata scritta due anni fa, e quando la facevo due anni fa, era una scena strana, di tensione, di suspense, azione, ma sembrava, appunto, “storia”. E’ diventata molto attuale, perché questi ragazzi avevano tra i 17 e i 19 anni e sono morti tutti in maniera abbastanza tragica, o quasi tutti, avevano il cianuro. E io mi sento un “viaggiatore”, perché ho la possibilità, e lo faccio, solamente con il mio corpo, interpretando quindici personaggi, raccontando, di “far vedere” una città, che cos’era una città quella mattina, di far sentire l’odore dell’Oriente in una città, Sarajevo, di cento anni fa, e di portare fisicamente il pubblico dentro quel luogo, dove in qualche modo è successa una cosa drammatica che ha scatenato quello che già sappiamo e a cui l’Europa era pronta”.

A proposito di Europa, lo spettacolo riprende il titolo di questo libro di Fromkin che “L’ultima estate dell’Europa”, un’espressione comunque molto forte. In che senso “ultima” estate dell’Europa?
“Perché dopo quella domenica di giugno, il 28 giugno, in un mese tutta l’Europa è in fiamme e in tre anni si massacrano decine di milioni di persone. Secondo alcuni storici la guerra non è mai finita perché poi si è continuato con la Seconda e in Europa ce ne sono tante altre, secondo anche Paolo Rumiz, come se l’Europa covasse la guerra sotto la cenere (speriamo di no). È un titolo anche provocatorio e avvincente.
Il secondo nucleo personale dello spettacolo è Ungaretti. Perché dopo aver raccontato Sarajevo, arriviamo sulle montagne italiane e vediamo cosa succede: racconto pochissimi collegamenti e sono subito personaggio. Divento Ungaretti, Gadda. Divento un povero nessuno che muore come altre centinaia di migliaia di nessuno sulle montagne, dopo aver spedito tre lettere a casa. E racconto chi era Ungaretti, perché ha voluto arruolarsi come volontario sul fronte dell’Isonzo – il più terribile e mortifero della guerra – e che cosa succede a Ungaretti in “Una notte di luna”. Questa per me è la scena più poetica e commovente: un uomo, che è anche un poeta, in una battaglia si trova sulla riva di un fiume e sulla riva di questo fiume fa un gesto potentissimo, umano e miracoloso, un gesto strano da fare in guerra. Si spoglia e si immerge nell’acqua per lavarsi dalla morte, dal sangue, e quest’acqua è più forte della guerra. Quest’acqua lo fa in qualche modo rinascere. Ci immaginiamo che probabilmente da questa immersione sia nata “I miei fiumi”, probabilmente una delle più belle poesie del Novecento, strappando un angolo da questa scatola di cartucce e scarabocchiando qualche parola. Ungaretti nell’Isonzo vede tutta l’acqua della sua vita: vede il Serchio dei suoi avi toscani che l’hanno portato in Africa (perché lui è nato in Africa, i suoi genitori erano italiani, contadini poveri ed emigrati – pensa – in Africa, per cercare lavoro); vede il Nilo, dove lui è nato; la Senna, dov’è diventato un uomo e un poeta. E poi c’è l’Isonzo. Questo per me è il momento più toccante”.

ultimaestate3Secondo te ci sono ancora dei validi riferimenti, dei modelli attuali, di poeti “combattenti”, ma nel senso di avere il potere di “combattere” attraverso la poesia? Ha ancora senso nel panorama attuale?
“Se c’è una speranza, un senso, in questo spettacolo è che la poesia di Ungaretti sentita oggi faccia piangere ancora oggi. Trasmette una storia di rinascita e non di morte, ed è ancora viva nonostante la scomparsa di Ungaretti. Io sono convinto che i poeti ci parlino di cose immortali, e continuano a essere importanti. Se c’è una speranza è che quando io leggo questa poesia o la recito in una scuola, tu devi sentire il silenzio che si crea, perché la poesia è un linguaggio che non ha tempo e che raggiunge come una freccia il cuore delle persone oggi. E per tornare allo spettacolo, quando io sono lì, senza scarpe, come se mi immergessi anche io, io sento che il mio lavoro ha un senso in quel momento, perché sono un trasmettitore”.

Quindi, laddove magari la poesia da sola non riesca ad arrivare dritta al cuore, il teatro può aiutarla.
“Certo, il teatro in questo caso è un veicolo di poesia, ma – soprattutto – il veicolo della vita di qualcuno che non c’è più ma che attraverso la mia voce e il mio corpo è lì, vivo. Quindi è anche per me un doppio miracolo... dico miracolo per far capire che a volte non è solo quello che esiste adesso e che vediamo, ma la letteratura e il teatro riescono a far rivivere cose che “non ci sono, ma che invece ci sono”.
L’altro personaggio che conclude lo spettacolo è Gadda: un giovane interventista che assiste alla drammatica resa di Caporetto, dove capisce – e lo racconta con parole di fuoco, meravigliose – quale orrore, che sberleffo all’umanità è la guerra; lui, che era un’interventista convinto, ci racconta la delusione, l’umiliazione, dell’essere umano di fronte alla guerra".

Per tradurre tutto questo, le parole, la poesia, quali codici sono stati utilizzati? Su quali aspetti della messa in scena è stata calcata la mano?
“La scena è molto semplice: è una trincea da cui io salgo e scendo. È uno spettacolo molto fisico. Io sono completamente sudato alla fine. Io nasco proprio come attore fisico, negli anni Settanta. Ero un clown e un mimo. Finalmente con questo spettacolo riesco a tornare alla fisicità del corpo che si muove. Gli oggetti che sono in scena sono sacchi, pezzi di legno bruciato. I sacchi diventano soldati, un fiume, l’impero, tombe, attentatori. Gli oggetti sono pochissimi e diventano tante cose. La regia di Ruggero Cara in questo senso è stata fondamentale: usare il teatro per trasformare tutto quello che c’è, dargli tanti significati. È una cosa che mi piace molto di questo tipo di teatro. Diciamo che è uno spettacolo in cui c’è un personaggio che è un relitto umano, un sopravvissuto, che emerge da questa trincea di sacchi e piano piano, con la musica (importantissima, eseguita dal vivo, di Alberto Capelli e Mauro Manzoni). Grazie alla musica questo relitto umano ricorda e mette insieme questi frammenti di orrore. Orrore, però, in cui ci sono alcuni preziosi miracoli dell’umanità. Alla fine si esce con una grande forza vitale da questo spettacolo, con passione, ma anche forza, per la vita. Per essere contro la guerra”.

Renata Savo 21/05/2016

Per approfondimenti sullo spettacolo: https://www.recensito.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=14947:cent-anni-d-autunno-l-ultima-estate-dell-europa-al-teatro-india&Itemid=121