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Intervista a Fulvio Cauteruccio: "Roccu u Stortu", un grido contro l’ingiustizia della guerra

Roccu u Stortu nasce dall’incontro tra volgare e storico. Un testo, quello scritto da Francesco Suriano, che commemora il dramma della prima guerra mondiale e, soprattutto, chi l’ha combattuta: il popolo. L’impeccabile interpretazione di Fulvio Cauteruccio si intensifica nel corso dello spettacolo, divenendo sempre più viscerale e concitata. Infatti, oltre a sostenere lo spettacolo da solo, riesce a rendere benissimo l’evolversi della vicenda. Sul palco la figura di Roccu va quasi a coincidere con l’attore stesso. A lui si deve anche la regia, che calibra ad hoc le scene più importanti, con una carrellata di cambiamenti emozionali: dall’ingenuità, all’incertezza, fino alla paura. Mentre il dolore, sia fisico che mentale, viene enfatizzato dalla mimica e dalla componente non verbale. In questo caso il dialetto calabrese, per molti incomprensibile, diventa, invece, l’elemento che cattura e costringe lo spettatore a seguire fino alla fine. La componente popolare si ritrova anche nell’accompagnamento della band Il Parto delle Nuvole Pesanti, che mescola la musica di folclore al cantautorato. Uno spettacolo interamente made in Calabria, ma che unisce un intero paese, grazie ad una storia e una realtà comune: quella contadina.

Dopo la visione della versione televisiva dell'opera (andata in onda sulla Rai a inizi anni 2000) abbiamo raggiunto Fulvio Cauteruccio per una breve intervista.

In Roccu u stortu a cosa è legata la scelta di un dialetto, lingua di comicità, di tradizione e tragica, come, in questo caso, il calabrese? Quali sono state le valutazioni riguardanti alla possibile ricezione da parte del pubblico?

"La scelta del dialetto è un’idea condivisa da molte compagnie teatrali e se ci pensi, il teatro, in Italia si fonda principalmente sulle tradizioni regionali (guarda De Filippo o Pirandello). C’è pochissimo teatro importante scritto in un italiano standard. L’Italiano è una lingua che non esiste: una lingua notarile. Non era la prima volta che effettuavamo questa scelta: lo facemmo con la traduzione in calabrese di “Finale di partita” di Beckett: “U jocu sta finisciennnu”. Il dialetto è una lingua dell’anima e credo faccia parte un po’ di tutta la creatività sommersa del meridione. Per la ricezione, posso dirti che lo spettacolo, con più di trecento repliche, è andato meglio nel Nord Italia, principalmente a Milano, piuttosto che al sud. La gente aveva difficoltà solo all’inizio, poi iniziava a capire. Sta anche all’attore, attraverso il corpo, il dovere di rendersi comprensibile".

A proposito dell’aspetto corporale, prominente all’interno della messinscena dello spettacolo, quanto è stato difficile reggere, da attore, quel tipo di interpretazione che richiedeva uno sforzo fisico importante?

"Direi che ha richiesto uno sforzo importantissimo. Come diceva Vittorio Gassman, l’attore è l’atleta del cuore, per cui quando sei lì l’agonismo ti porta a dimenticare anche degli stimoli fisiologici. Fa parte del mestiere. L’aspetto fisico contraddistingue molto i miei spettacoli e in “Roccu u Stortu” quella fisicità rendeva più comprensibile la storia. Il gesto precede sempre la parola, soprattutto nella cultura italiana. In questo spettacolo era necessaria l’energia per affrontare una guerra reale, come è stata la prima guerra mondiale, e che enfatizzasse il lavoro dell’attore anche sul pubblico. Oggi, fisicamente, non riuscirei più a rifare quel tipo di spettacolo con quel tipo di regia, anche se mi ritrovo con una maggiore esperienza professionale che mi consentirebbe di affrontare il tema con una maggiore maturità".

Nello spettacolo in video questo tipo di sofferenza si è notata molto attraverso l’uso ossessivo dei primi piani e lo sguardo diretto in camera.

"Una differenza importante con la messinscena a teatro, e che mancava lì, era la presenza del sudore e del suo odore emanato verso il pubblico. Così come nella scena in cui l’acqua piena di fango mi bagnava il volto e il corpo e finiva sulla trincea fatta di tela, che finiva poi per puzzare di acqua stagnante. Anche questo fa parte della corporeità che per me rimane importantissima".

Una corporeità che viene a mancare, purtroppo, nella situazione attuale, in cui molti teatri sono obbligati a sostenere l’espressione e la fruizione teatrale attraverso i video e lo streaming. Qual è la tua idea a riguardo?

"Sono d’accordo con il teatro in streaming, ma di produzione vecchia: spettacoli del passato che, tuttavia, in video, perdono sempre e comunque di qualità. Non sono d’accordo con i miei colleghi con questa bulimia del voler apparire in video recitando le poesie e i testi teatrali e dire “il teatro va avanti”. Il teatro non può andare avanti. Perde il proprio messaggio se non è vivo, vive con gli attori e con il pubblico: è un atto politico e sociale. In video posso stoppare quando voglio e mi distraggo, mentre in platea sono obbligato a seguire fino in fondo. Il teatro ha bisogno di essere luogo di aggregazione e per i prossimi mesi sarà una delle ultime cose a riaprire insieme a ristoranti, alberghi e bar. Oltre a questo, è inutile andare in scena sulle piattaforme digitali se poi non ti pagano. Questo sarà il grande problema delle compagnie e degli attori. Poi in streaming funzionerebbero solo le compagnie e gli attori più noti. È un vero disastro questo momento per il teatro".

Micaela Aouizerate e Giuseppe Cambria

Per il video intergrale dello spettacolo Roccu u Stortu, seguite questo link

https://www.youtube.com/watch?v=B5Utcd2XSLY

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