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Incontro con la critica: Gabriele Rizza, il decano del teatro

A volte è solo uscendo di scena che si può capire quale ruolo si è svolto”. (Stanislaw Jerzy Lec)

Chimenti interpella Rizza. Ogni città, ogni mestiere, ogni professione ha il suo decano. Per anagrafe, per continuità, esperienza. Una figura che c'era, una memoria storica, una figura che c'è, alla quale puoi chiedere consiglio e illuminazione, una figura che ci sarà, salda nel suo scrigno, certezza dei foyer. Gabriele Rizza ha un passato da performer, da chansonnier (cantante è riduttivo), da direttore artistico (nel 2010 curò la programmazione del festival di Radicondoli traghettandolo dopo la scomparsa di Nico Garrone), un presente dove si destreggia tra teatro, cinema e Berlino.
Se lo guardi di profilo è l'iconografia perfetta della celebre illustrazione freudiana (“What's on a man mind”) con una donna nuda distesa con la schiena all'indietro sciolta nella stempiatura. Di teatro ne ha visto, ne ha masticato, morso, addentato, Rizza2mangiato, vergato in fiumi di parole. Rizza è il decano per autorevolezza imprescindibile della Firenze votata alla cultura, le conferenze stampa non hanno senso senza il suo approdo. Anche a lui le nostre tre domande-riflessioni dalle cui risposte poter capire meglio le strade, i percorsi, gli aneddoti di un mestiere bellissimo quanto vilipeso, maltrattato e, spesso, tradito. E siccome Rizza è e resta un artista anarchico ha accorpato i tre punti interrogativi in un bel fluire, tutto da leggere e godersi, immaginandosi le scene, le parole, quell'archeologia teatrale dalla quale non possiamo prescindere.
Cominciamo proprio da Gabriele Rizza, per anzianità, nel sottoporgli le nostre tre brevi, e aperte, domande (le stesse sono state fatte ad altri critici teatrali), più che altro un modo per conoscere e scoprire (non marzullianamente) il passato e il presente delle penne che, ancora curiose nonostante tanti anni e infinite ore scomodi con il culo sulle poltrone in platea, occhiaie e appunti carpiti nel buio assoluto, rendono, comunicano il teatro nostrano, senza spiegarlo ma cercando di illuminare i chiaroscuri, di far luce tra le pieghe dei discorsi che stanno alla base del teatro, dentro le sue viscere, distillando la polvere di stelle, la fatica del palco, smembrando parole, cercando rimandi e fili conduttori. Certamente, non un lavoro semplice.
Ecco i nostri quesiti dialettici: I tuoi cinque spettacoli del cuore. I tre personaggi teatrali (registi, attori, operatori) che, direttamente o indirettamente, ti hanno spinto a continuare a scrivere di teatro. I tuoi attori/attrici davanti ai quali ti sei detto: “Ah, finalmente”.

“Per chi ha la mia età, come dire, per quel poco che vale, per chi ha fatto il '68 (l’anagrafe però non mente: gli anni erano allora 20, tondi tondi) un palinsesto teatrale che ne giustifichi la formazione “critica” e la spinta “professionale”, gode di precise coordinate spazio temporali. L’architrave, o se volete la curva di riferimento, prende forma e contenuti a metà dei ’70. Si fortifica e ramifica negli anni a venire (irrobustiti, personalmente, da copiose frequentazioni transalpine), scollina e declina, nella sua esplosiva, farneticante elaborazione, sulla metà degli ’80. Si arena? Si sfalda? Si esaurisce? Si sgretola? No di certo. Ma inesorabilmente (inevitabilmente) chi ebbe la ventura di attraversarlo, e di assistervi, da quel decennio ricavò “impressioni” che si sarebbero rivelate in qualche modo uniche e irripetibili. Diciamo incomparabili epperò continuamente raffrontabili. Insomma, su quello che poi avremmo visto da “critici”, pesava un originario vizio di forma, un peccatuccio originale che, la verginità perduta, avrebbe fatto da paraocchi, generando una presunzione appunto da “critico” navigato. Non scevra di ombre e ingiustificati pregiudizi.
rizza3Ora, non per sfilarsi, ma scindere, isolare in/da questo mosaico alcune tessere, singoli episodi, nomi, titoli esemplari e protagonisti capitali, è davvero impossibile. Che la memoria si affastella mentre improvvisi flash si affacciano in proscenio: Leo e Perla che fanno Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir (e giù a trincare), Carmelo che recita Dante affacciato alla Torre degli Asinelli di Bologna, Tino Carraro che veste Lear, il Puntila di Tino Buazzelli, il Malato immaginario di Romolo Valli, la Winnie di Gabriella Bartolomei. Più che singoli spettacoli allora, ma la memoria al volo ne aggancia di classici (l’Amleto di Bergman e l’Amleto di Ljubimov, il Principe di Homburg di Peter Stein, i Personaggi di Vasiliev) e d’avanguardia, soprattutto d’oltreoceano (Living, Squat, Mabou Mines, Richard Foreman, La Mama) valgono alcuni autori, del cui viaggio, dato l’abbrivio in quegli anni di festa, abbiamo avuto la fortuna di essere in parte testimoni. In casa Giorgio Strehler (L’opera da tre soldi, La tempesta), Luca Ronconi (in principio fu Utopia più di Orlando, poi il Laboratorio pratese e sublime l’arrivo in via Merulana), Massimo Castri dai tempi di Ibsen (Rosmersholm), Carlo Cecchi dai tempi di Pinter (Il compleanno), Romeo Castellucci alias Raffaello Sanzio dai tempi di Santa Sofia.
In trasferta Peter Brook alle Bouffes du Nord (La tempesta in primis), Ariane Mnouchkine alla Cartoucherie (Tartufo su tutti), Pina Bausch in giro per l’Europa, Bob Wilson “incontrato” alla Biennale ’77 (Einstein on the Beach), Tadeusz Kantor “scoperto” sui banchi della Classe morta, Bartabas rivelatosi a cavallo sotto lo chapiteau del suo Zingaro. Infine, se ci è consentita una digressione coreografica, non possiamo dimenticare la favolosa, impareggiabile fluidità compositiva di Juri Kylian”.

Se la gente vuole vedere solo le cose che può capire, non dovrebbe andare a teatro; dovrebbe andare in bagno”. (Bertolt Brecht)

Tommaso Chimenti 04/10/2016

Nelle due foto (partendo dall'alto): Gabriele Rizza con Federico Tiezzi e Francesco Colella; Gabriele Rizza con la sua band Per certi versi

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