“Ludopatia” ci fa sorridere entrambi. Da bambini abbiamo giocato divertendoci, era una malattia solo nelle raccomandazioni delle mamme apprensive. Nicola è un impropriamente definito “ludopatico”.
“Sarebbe corretto chiamarla “dipendenza da gioco d'azzardo”. Rifacendosi a un'etimologia ibrida, la ludopatia ha in sé greco e latino dove il prefisso -ludo indica la relazione col gioco e il suffisso greco -patia richiama ciò che per la medicina è una malattia o un'affezione. Perciò quello che la formula italiana definisce “dipendenza da gioco d'azzardo” deriva in realtà dall'espressione inglese “pathological gambling”, il ché farebbe del Nicola che ho portato sul palco un “gambler”, un uomo adulto che a Bari esce per andare “a sciuqué”, a giocare”.
A giocare d'azzardo.
“Un giocatore d'azzardo come sono tutti coloro che troviamo seduti di fronte a una “gaming machine”. Macchine per altro fallimentari, dove la vincita non rappresenta mai un guadagno ma una sorta di premio consolatorio. In un articolo di Dario De Toffoli (link a fondo pagina) è specificato in percentuale il bilancio tra capitale residuo e capitale giocato, posto che si decida di giocare 100 euro non rimarrebbero, in dieci tentativi, gli spicci per un caffè”.
Magari per via di un'attrazione verso le luci a intermittenza colorata che intonano e stonano la realtà, che sul tuo palco sono attrici tanto quanto voi cinque, ma come si può iniziare a giocare d'azzardo?
“Con gli spicci d'avanzo del caffè? Che orrendamente significherebbe per caso. Il caso inizia tutti i vizi, pochi scelgono deliberatamente di essere assorbiti da una dipendenza dato che non ci si crede mai abbastanza deboli da poterci diventare. Lo spettacolo nasce da una domanda, nasce dal chiedersi cosa sia il gioco. Per questo motivo di Nicola dovevo far vedere l'infanzia, i giochi con i compagni per giocare a giocare. Ho scritto che “ai bambini non piace giocare soli e neanche ai grandi” perché si dipende anche dalla solitudine, quando si gioca d'azzardo si è soli per se stessi. Se oggi vedessimo un bambino giocare quotidianamente solo, grideremmo subito alla “sociopatia”!”.
Non è un teatro della parola il tuo, però. La lingua è subordinata al corpo, come nelle filastrocche della scuola che spesso sono parole melodiche farneticanti e il gioco è rappresentato dai contatti delle mani. Nicola perde il contatto con la realtà e gioca d'azzardo perché non ha più nessuna mano che lo tocchi (o da toccare) o per avidità?
“È un uomo che ha tutto quanto è concesso di chiedere a un uomo. Un'infanzia, un'adolescenza, un lavoro, una donna e un matrimonio che possono dirsi solo che felici. La vita di un uomo che ho conosciuto era così, nata al presente e diventata imperfetto dopo essersi seduto la prima volta alla slot del bar all'angolo tra via Maurizio Lettieri e via Giardini”.
Qui a Roma, invece, a Piazza dei Sanniti c'è il Cinema Palazzo: il teatro dove debutta “A sciuquè”, dove non ci sono quinte a nascondere i sentimenti e le macchinazioni, dove uno striscione sulle mura urla in verde e giallo “sì alla cultura, no al casinò”. Qual è la storia del cinema Palazzo e come si è accordata alla tua?
“Lo scorso anno siamo stati selezionati per il bando Molodoj che proponeva la possibilità di residenze cicliche a gruppi artistici e teatrali proprio in questo spazio. Non credo alle casualità ma questa si presta molto agli obiettivi dello spettacolo, il Cinema Palazzo è stato trasformato prima in sala da biliardo, divenendo poi sede del Bingo. Le intenzioni di una società privata erano quelle di ristrutturazione e allestimento di un casinò, ma cinque anni fa coloro che l'hanno occupato hanno vinto una grandiosa battaglia e proprio nei giorni scorsi si è festeggiato l'anniversario dell'autogestione. Il teatro ha perduto la sua conformazione ma, nonostante questo, lo spazio scenico si adatta alle mie intenzioni: cinque individui in scena che si cambiano d'abito sul palco, i vestiti che indosseranno sono la loro personale scenografia, sono ricordi che prendono vita se indossati ma che presenziano ogni istante del tracciato di Nicola, sono la sua realtà. E di realtà si sente subito il rumore dalle prime parole”.
Le parole del tuo dialetto, il vostro dialetto.
“Il dialetto di noi cinque, sì. Il Sud è dove correvamo bambini, dove abbiamo vinto e perso giochi e persone. Dove l'acqua dei panni stesi al sole resiste per poco a terra, non come i piedi scalzi che non ci bruciavamo mai”.
Francesca Pierri 18/04/2016
Per leggere l'articolo di Dario De Toffoli: cfr. http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/15/slot-machine-ce-differenza-tra-quelle-da-bar-e-quelle-nei-casino/2641312/
Foto: Holger Lazzaro