In sessant’anni di carriera ha interpretato i più grandi ruoli femminili della storia del teatro classico e contemporaneo, prestato il volto a personaggi indimenticabili in decine di sceneggiati televisivi e radiofonici firmati Rai, ispirato i più grandi registi italiani dell’ultimo scorcio del secolo scorso, da Missiroli a Castri, da Cobelli a Ronconi. È l’attrice Francesca Benedetti, classe 1935, artista infaticabile di ammirevole talento, vincitrice del premio De Sica nel 2014 per la sua appassionata dedizione al teatro dagli anni Sessanta ad oggi. Dal 20 aprile è tornata in scena al Teatro Argentina di Roma con “Calderón” (regia di Federico Tiezzi), unico dramma teatrale pubblicato in vita da Pasolini nel 1973 (scritto nel 1966) e straordinaria riscrittura del classico “La vida es sueño” (1635) del tragediografo spagnolo Calderón de la Barca. Tiezzi l’ha voluta nel ruolo di Doña Lupe, personaggio chiave della tragedia che riassume in sé tutte le peggiori prerogative del potere “borghese” nella Spagna franchista degli anni del regime. Una partecipazione straordinaria in una produzione attesissima che il Teatro di Roma ha voluto produrre in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana per onorare la memoria del grande intellettuale italiano scomparso quarant’anni fa. Ecco che cosa ci ha raccontato dello spettacolo all’indomani del debutto.
Lei ha lavorato con tutti i più grandi registi del teatro del passato. Come è nata la collaborazione con un maestro della scena contemporanea come Federico Tiezzi?
"In sessant’anni di attività ho avuto una carriera molto folta che mi ha permesso di entrare in contatto con maestri del calibro di Missiroli, Cobelli, Castri, Strehler, Ronconi. Federico appartiene alla generazione della postavanguardia, ha fondato la compagnia fiorentina dei “Magazzini” insieme a Sandro Lombardi, con cui è impegnato in questa nuova impresa. Il ruolo di Doña Lupe e quello di Lombardi (Don Basilio) sono quelli su cui si regge tutta la storia: rappresentano la borghesia intesa come totem negativo della cultura e della fantasia di Pasolini, la stessa cui addebitava tutti i mali del mondo e oramai estinta da quando l’era borghese è stata destituita dall’attribuzione luciferina di potere forte ed esclusivo. Al tempo di Pasolini, la borghesia era incarnata dall’egemonia della DC, dai colpevoli delle stragi, e Pasolini era un nemico di questa classe."
Che cosa la entusiasma del personaggio di Doña Lupe? Perché ha accettato di interpretarlo?
"Nella fantasia delle ragazze protagoniste, le tre Rosaure si risvegliano in abiti e ambienti in cui non si riconoscono, sono schiacciate dall’autorità mostruosa e vampiresca dei genitori Don Basilio e Doña Lupe. Certo, sono abituata ad altri ruoli, ma questa partecipazione mi ha permesso di mettere in scena le negatività in fondo latenti in tutti noi, anche se amplificate teatralmente. Del resto, nella mia carriera ho fatto di tutto: dopo il Diploma presso l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, ho cominciato la mia carriera facendo la commedia musicale con Carlo Dapporto, ho interpretato una miriade di personaggi femminili per tutti i più grandi registi (l’ultimo dei quali con Strehler nel “Temporale” di Strindberg) e tanti ruoli sono stati addirittura scritti per me, come “Macbetto” di Giovanni Testori; insieme a Emilio Isgrò ho portato in scena un’“Orestea” per celebrare la rifondazione della vecchia città di Gibellina, distrutta dal terremoto. Ormai, però, non ho più le forze di un tempo e preferisco trasmettere alle nuove generazioni quello che i grandi maestri come Orazio Costa mi hanno insegnato. Bisogna dare spazio ai giovani, soprattutto quando sono meritevoli come in questo spettacolo."
“Calderón” è la messa in scena dell’impossibilità umana di svincolarsi da quello che negli anni Settanta veniva chiamato il “sistema”. Per liberarsi delle convenzioni che la imprigionano, Rosaura si rifugia nel sogno. Lei crede che oggi quest’opera possieda ancora quella carica di denuncia sociale, che possa parlare alla società di oggi?
"Assolutamente no. Proprio perché l’elemento della borghesia non coincide più con i valori della modernità. Pasolini considerava il mondo operaio come una classe in grado di riscattare la società, ma nel finale fu costretto ad ammettere che non si trattava che di un sogno. Resta in ogni caso un testo con la levatura di un classico, forse il suo tentativo più ardito di una scrittura diversa, ma che alla fine è tornato inevitabilmente a rispecchiare i canoni teatrali. Pasolini voleva essere diverso da tutti, ma non ci riuscì fino in fondo: perché il teatro vince sempre."
Sono trascorsi 40 anni dalla morte di Pasolini. Che cosa ne pensa della miriade di rievocazioni teatrali, cinematografiche, televisive, letterarie che sembrano quasi aver intrappolato l’autore nella propria immagine fisica?
"Penso che siano eccessive. Pasolini è stato sviscerato anche troppo, peraltro senza toccare minimamente il senso di mistero che lo ha sempre circondato. La sua è stata una vita scandalosa, ma tesa alla ricerca della verità, del nucleo centrale della vita. Come Rosaura, è sempre stato uno straniero, ma anche un santo, un apostata, un Cristo complicatissimo da decifrare. E stupisce come tanta complessità si scontri con l’animo semplice, gracile, quasi pascoliano, delle sue poesie. Aveva dentro di sé fragilità difficili da comprendere fino in fondo: l’espressività di Eliot o di Montale era pura, mentre Pasolini era contaminato dalla realtà continuamente. Era una figura grandiosa proprio perché profetica: uno dei pochi a buttarsi anima e corpo nella mischia, a capire tante cose in anticipo, l’omologazione prima di tutto. Perché oggi siamo in un periodo storico di piena omologazione."
Nella prossima stagione proseguirà il suo percorso su Pasolini in collaborazione col Teatro di Roma con lo spettacolo “L’indecenza e la forma” ispirato a Salò/Sade e scritto da Giuseppe Manfridi. Può anticipare qualcosa dello spettacolo?
"Per certi versi, è un testo repellente, che si addentra con una ferocia quasi insostenibile nel mondo infernale del sesso, dell’autodistruzione, del sadismo. Rappresenta la frontalità con l’orrore che Pasolini ha sempre cercato nella sua opera e che ha finito per metterlo al centro della vita culturale internazionale con la sua tragica morte. Avremmo dovuto rappresentare lo spettacolo quest’anno, ma data la varietà di opere pasoliniane inserite in cartellone, abbiamo deciso di rimandarlo al prossimo."
Dall’alto della sua esperienza, può regalarci un ricordo della sua formazione giovanile all'Accademia Nazionale D'Arte Drammatica?
"Durante i miei studi in Accademia, ho avuto la fortuna di incontrare un grandissimo maestro come Orazio Costa, uno dei massimi esponenti della pedagogia teatrale del Novecento. Grazie al “metodo mimico”, che insegnava a trasferire negli arti le sensazioni dell’attore, ho acquisito conoscenze che altrimenti non avrei mai sperimentato. Mi lamentavo perché i ruoli che mi venivano solitamente affidati erano quelli un po’ avvilenti dell’albero di ciliegio o del ramoscello, ma poi ho capito che erano questi i reali saperi per i quali passava tutta la sua scienza mentale, corporea, di astrazione e insieme di concretezza assolute. Era un metodo stupefacente, su cui si formò un’intera generazione di attori italiani del dopoguerra. Di solito, i registi sono più interessati alla resa generale dello spettacolo che all’esplicazione artistica degli attori. È un rapporto pratico, di mutuo soccorso. Orazio Costa, invece, resta una figura splendida e indimenticabile nella mia personale graduatoria."
Valentina Crosetto 21/04/2016
Per approfondimenti sullo spettacolo: https://www.recensito.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=14732:il-sogno-profetico-dell-utopia-borghese-nel-calderon-di-pasolini&Itemid=121