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FILOTTETE: Intervista al regista Raffaele Bartoli

A conclusione del suo percorso di formazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, l’allievo regista Raffaele Bartoli mette in scena, al Teatro Studio Eleonora Duse dall’8 al 15 Febbraio, una tra le tragedie di Sofocle più controverse, ma al contempo intrise d’umanità: ‘Filottete’.

Uno degli aspetti più interessanti del tuo progetto sta nell’aver tradotto personalmente il testo, come mai questa scelta?

Penso che con un autore così importante la cosa migliore che si possa fare sia “ascoltarlo” e per questo mi sono occupato della traduzione del testo. Credo che non si faccia poi una gran fatica a costruire uno spettacolo che è già stato fatto, che è già stato messo in scena più di duemila anni fa. In un certo senso, noi stiamo cercando semplicemente di rimettere in scena quella stessa azione. Tutto il lavoro parte da questa intenzione, cioè dal tentativo di comprendere quel preciso linguaggio scenico e coinvolgere tutte le parti in causa, dagli attori fino al pubblico.

Pensi che questo approccio possa aver influito sulla messa in scena, magari evidenziando degli aspetti dell’opera piuttosto che altri?

La traduzione mi ha permesso principalmente di conoscerne la struttura e anche di scoprire alcune aspetti interessanti. Ad esempio, alcune parti dell’opera che pensavo non rilevanti, una volta messe in scena mi davano la sensazione che qualcosa mancasse e più andavo avanti, più scoprivo che tutta quella struttura che a noi sembra innaturale nel testo, era in realtà funzionale alla resa.

Qual è l’intenzione poetica del Filottete, secondo te?

Filottete toglie la tragedia dalla tragedia, inganna il pubblico. Ci si aspetterebbe una tipica struttura tragica, ma l’attenzione al testo permette di scoprire un risvolto che è più ascrivibile al genere della commedia. Ho però cercato di raccontare al meglio quella lotta interiore tra il nostro senso di giustizia e la mera logica della convenienza, tra quello che ci sembra istintivamente giusto e quello che poi è razionalmente condiviso e conveniente.

Qual è stata la difficoltà più grande nella quale ti sei imbattuto nel confrontarti con un’opera che, convenzionalmente, si può definire classica?

Trattare Sofocle significa già mettersi in difficoltà, mettere in difficoltà l’attore e il regista stesso. Risulta davvero difficile dover reggere il livello altissimo di tutto quello che costituisce un’opera, appunto, classica. Bisogna mettersi in ascolto di un disegno che non è fatto di due o tre linee, ma di un intreccio molto articolato, fitto, quindi provare a restituirne almeno una minima parte. La responsabilità più grande però è stata quella di non sprecare tutte le qualità che il gruppo di lavoro ha messo a disposizione durante il lungo periodo di studio e prove.

Hai parlato di regia ‘evanescente’, di discrezione nel rapportarti agli attori. Come definiresti, quindi, il tuo ruolo?

Gli attori ti aiutano se li metti in condizioni di farlo. All’inizio di ogni lavoro tutti hanno voglia di fare un bello spettacolo e il regista ha il dovere di mantenere vivo quell’interesse. Il mio primo intento è stato quello di provare a raccontare come era ordito l’intreccio e fare in modo che nel gruppo ci fosse continuo scambio, un flusso di comunicazione tale che potesse far sentire tutti parte attiva del progetto.

 Quindi è importante che ci sia una mediazione tra te, gli attori ed il pubblico?

Per me è importante l’immediatezza. All’imposizione preferisco l’incontro: tra l’opera e gli attori e, attraverso di essi, tra l’opera e il pubblico. Il senso del mio lavoro è stato proprio quello di essere il tramite per il quale questi incontri potevano aver luogo.

 

Ilaria Costabile
3/02/2018

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