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Elisa Rocca racconta il suo teatro, alchimia di una creazione condivisa

IMG 6116 minLa compagnia dei Masnadieri porta in scena, dal 19 al 31 marzo 2019, nell’intima cornice dello Spazio 18b, La fortezza, spettacolo teatrale ispirato al romanzo di Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari. In occasione del suo debutto, abbiamo incontrato Elisa Rocca: regista di grande coraggio e respiro internazionale, porta in Italia la sua visione del teatro come luogo di condivisione e crescita umana.

Il prossimo anno Il deserto dei Tartari compirà ottant’anni. Perché metterne in scena un adattamento dopo tanti anni dalla pubblicazione?
Il progetto nasce dal desiderio mio e di Massimo Beato di lavorare insieme ad uno spettacolo. Lui aveva in mente di rielaborare Il Deserto dei Tartari e così ne abbiamo discusso. A Massimo piace utilizzare del materiale che sia copioso e permetta quindi di muoversi all’interno del testo, adattandolo e plasmandolo secondo le proprie necessità. Il nostro spettacolo rappresenta una traccia precisa, che abbiamo individuato all’interno del romanzo.

Cosa l’ha colpita maggiormente dell’opera di Buzzati?
Mi sono immediatamente identificata con Drogo. Leggendo il romanzo ci poniamo una domanda: cosa deve fare un individuo della sua vita? È la stessa questione che affronta uno dei miei maestri, parlando di Sartre, che è un altro punto di riferimento fondamentale nel mio percorso. Tadashi Suzuki parla della “battaglia degli sconfitti”, cioè di tutte quelle persone che nella vita cercano qualcosa non rivolgendosi all’esterno di se stesse, ma cercando di affermarsi in un ruolo diverso rispetto a quello in cui le ha incanalate la società.

Anche Drogo è uno sconfitto?
Gli sconfitti vogliono diventare qualcosa di più rispetto a quello che sono. Ammettono di essere liberi e se ne assumono la responsabilità, pur sapendo che ciò comporta spesso la sconfitta, cioè perdere la sfida con se stessi. Drogo, invece, ha difficoltà ad accettare questa condizione, pur incarnandone pienamente lo spirito. Quando Massimo mi ha proposto una rilettura del romanzo, ho pensato che fosse interessante metterne in luce l’attualità.

Rispetto all’adattamento drammaturgico del testo, ha collaborato alla stesura con Massimo, che è anche uno degli interpreti?
Il testo l’ha scritto lui, ma abbiamo concordato insieme la linea con cui attraversarlo, perché ci serviva per il lavoro che avevamo in mente di fare insieme. Io mi sono concentrata sulla scrittura visuale. Il mio obiettivo, di fronte ad un testo drammaturgico, è quello di renderlo leggibile, utilizzando una grammatica visiva che sia comprensibile per il pubblico.

Come si relaziona con il testo nel suo rapporto tra forma scritta e visuale?
La relazione tra regia e drammaturgia per me è dialettica, vanno nella stessa direzione. Io, Massimo e Jacopo Bezzi ci siamo conosciuti in Accademia e per parecchio tempo abbiamo fatto regia in tre. Ognuno ha un suo settore specifico: Jacopo è un genio della spazializzazione, a me piace molto lavorare sull’attore, mentre a Massimo interessa lo studio sui testi. Insomma, operiamo in una condizione di confronto costante.

In questo senso, lo Spazio 18b rappresenta bene l’idea di collaborazione?
Sì, lo spazio che ci siamo ricavati rappresenta un luogo in cui ci proteggiamo a vicenda, ma dove al tempo stesso ci permettiamo anche di crescere. Manteniamo la nostra indipendenza, lavorando in sinergia. È fondamentale, perché per far fiorire il mondo interiore sulla scena, bisogna operare in un contesto non competitivo, basato sulla fiducia. Se c’è giudizio, o pregiudizio, non può nascere nulla di buono.

È un modello democratico di creazione artistica
Non può esserci un ambito che conta di più, come avviene in un’organizzazione gerarchica. Lo stesso vale nel rapporto tra attore e regista, che devono scoprire insieme cosa sia giusto fare per raccontare la loro storia. Io lavoro con l’attore in modo tale da stimolare la sua fantasia e poterla integrare alla mia visione d’insieme. Diversamente, si impedisce alle persone di assumersi la responsabilità del processo creativo. Quando invece dimostri loro che sono responsabili quanto te del prodotto che va in scena, allora le stimoli davvero a concentrarsi su centro, energia, pulizia e chiarezza.

Parlando di metodo, lei ha condotto i suoi studi in due direzioni, approfondendo l’improvvisazione e il lavoro dell’attore sul corpo. Ha utilizzato questi strumenti nella realizzazione dello spettacolo?
Solitamente, parto sempre dal corpo e dall’immaginario, ma in questo caso abbiamo cominciato facendo delle letture a tavolino, soprattutto per dare a Massimo l’opportunità di spiegare agli altri le scelte compiute nel testo. Volevamo dare agli attori la chiave per entrare nel mondo che avevamo creato. Se si lavora su un brano già noto, quest’introduzione non è necessaria, ma quando si realizza qualcosa di nuovo è un passaggio che non si può saltare. In generale, cerco di stimolare la creatività dell’attore chiedendogli di tradurre sulla scena il tema che ho scelto all’interno del testo.

Gli studi condotti all’estero l’hanno portata in questa direzione?
La mia vita è cambiata dopo l’incontro con la SITI Company di New York. Lì si lavora alla preparazione dello spettacolo secondo un duplice approccio. Ci si concentra tantissimo sul training fisico basato sugli studi di Suzuki e sul linguaggio teatrale, affrontato secondo la ricerca semiotica di Anne Bogart, che lavora con i viewpoints. È un metodo sconosciuto in Italia, sebbene in Europa e nel resto del mondo sia ormai affermato da anni. I viewpoints rappresentano uno strumento per osservare il percorso creativo attraverso differenti lenti. In altre parole, permettono di amplificare la percezione del proprio lavoro e di dargli una direzione.

Queste scoperte sono state fondamentali per la sua formazione?
Sì, assolutamente. Dopo essere stata a New York, sono partita per il Giappone, per incontrare Tadashi. Mi ha spiegato che questo tipo di training fisico non è strettamente giapponese, anche se assorbe elementi dal kabuki. È un esercizio che serve all’attore per lavorare su tre elementi essenziali per realizzare un’opera di qualità. Alla base vi è la disciplina del controllo, che agisce sul respiro, sull’energia e sul proprio centro. Questi sono i tre cardini del linguaggio universale. Ogni uomo è in grado di leggerli ed interpretarli, poiché ci servono in quanto animali per riconoscerci.

È in questo senso che intende la relazione tra linguaggio culturale universale e specifico?
Sì, esatto. Con il linguaggio base si può affrontare qualsiasi discorso, ma solo rapportandosi alla propria cultura. Se si scimmiotta un’altra cultura, la comunicazione fallisce. Bisogna essere profondamente innestato nelle proprie radici. Gli attori devono padroneggiare questi tre elementi, traducendoli in un linguaggio verbale e visuale al tempo stesso, nel quale il pubblico possa riconoscersi.

Lo spettatore quindi è al centro della rappresentazione?
È un lavoro totalmente al servizio dello spettatore. Si condivide insieme a lui la lezione offerta dallo spettacolo, in uno spazio teatrale fondato sul rispetto. Dagli insegnamenti della SITI e di Suzuki ho ricevuto delle lezioni di grande umiltà. Lo spettatore dedica una parte del suo tempo per venire a teatro e io cerco di elevare la nostra relazione attraverso il contenuto che propongo. È in quest’ottica che ci stiamo impegnando: vogliamo comunicare qualcosa.

È un’idea di teatro comprensibile da tutti, non solo dagli addetti ai lavori
Coloro che amano il teatro sono prima di tutto spettatori professionisti. Io ho iniziato ad andare a teatro a dieci anni, grazie ai miei genitori che mi hanno portata a vedere moltissimi spettacoli interessanti, tra cui alcuni eventi che non si sarebbero riprodotti. Negli anni, più o meno volontariamente, sono così diventata una spettatrice, o forse sarebbe meglio dire una lettrice, professionista. Leggo e voglio determinate cose quando leggo, la stessa cosa avviene quando guardo. Questa rieducazione del pubblico ad essere critico è un aspetto fondamentale: ha ragione ad abbandonarsi, ma non deve accettare uno spettacolo di bassa qualità, che troppe volte gli viene offerto.

Date le sue dimensioni, lo Spazio 18b è una realtà privilegiata
Come dice Anne Bogart, le piccole grandi rivoluzioni possono partire anche da una piccola stanza. Di fatto, Tadashi Suzuki ha cominciato in un teatro minuscolo, muovendo poi in un villaggio sperduto del Giappone, a Toga-Mura, dove tuttora vive e lavora. Nella frenesia della vita, gli attori non riescono ad essere realmente connessi con se stessi. Quello che invece lui invita a fare è lasciarsi alle spalle le preoccupazioni legate alla vita quotidiana. La gestione del tempo è scandita nella comunità del teatro, in cui tutti cooperano alla risoluzione degli aspetti legati al sostentamento. Questo li occupa in minima parte, per il resto si dedicano al lavoro. Provano per mesi spettacoli che poi vanno in scena sei volte. È un modo per creare un tempo altro.

Anche a teatro, luogo del “qui e ora” per eccellenza, il tempo pare fermarsi. Lo spettacolo in questo senso offre molti spunti per lavorare sull’elemento temporale
Al teatro è intimamente legata una specifica ritualità, dovuta alla necessità di essere presenti all’evento nel suo divenire. In quel momento, si è obbligati a mettere in pausa tutti gli strumenti tecnologici che portano a frammentare il pensiero. E poi si assiste ad una manipolazione di spazio e tempo. Nello spettacolo, è presente il tema della circolarità del tempo per la quale non esiste rimedio. L’uomo è condannato a combattere le stesse battaglie, non si può mai dare per scontato di aver vinto, perché le sfide del passato possono ripresentarsi. I Tartari potrebbero spuntare da un momento all’altro, specialmente se si tratta delle debolezze della nostra mente.

Anche la storia di Drogo sembra procedere secondo un ritmo circolare dettato dalla monotonia
La sua vicenda si svolge lungo un arco di trent’anni. In scena abbiamo accettato la sfida di raccontare il passare del tempo, lasciando dei segnali che dovrebbero aiutare il pubblico a coglierne i passaggi. Nel romanzo c’è il senso del “sempre uguale” ed è su questa ripetizione che cerchiamo di instillare nelle persone l’idea di un tempo che passa eppure sembra non farlo. In realtà gli anni si susseguono, ma si resta incagliati sempre nello stesso punto.

Del libro è stata realizzata una trasposizione cinematografica per la regia di Valerio Zurlini. Il cinema influenza il suo lavoro?
Linguaggio teatrale e cinematografico per certi aspetti si assomigliano. Anche a teatro realizziamo delle inquadrature, ma rispetto al cinema, in cui la scelta del punto di vista è condizionata, a teatro non si può obbligare lo spettatore ad assumere uno sguardo specifico. Possiamo solo guidare la visione dove vorremmo. In ogni caso, lo studio della composizione è un aspetto molto interessante che mi influenza, sia per quanto concerne il cinema che la pittura.

Il protagonista de La fortezza fa un bilancio della propria vita. A pochi giorni dal debutto, qual è la sua valutazione sul lavoro svolto?
Abbiamo lavorato molto e per questo la fatica si sente, ma siamo soddisfatti dei risultati. Questo è quello che conta. Siamo riusciti a creare il giusto clima per collaborare insieme ed è stato fondamentale. Lo spettacolo rappresenta il primo capitolo di una trilogia, che ha come obiettivo quello di mettere in comunicazione linguaggio registico e drammaturgico.

La fortezza è il primo capitolo della Trilogia degli sconfitti: collaborerà anche alla realizzazione degli altri spettacoli?
Sì, è un progetto incentrato sulla lettura di alcune istanze minoritarie di resistenza, ma ci stiamo ancora lavorando. È un work in progress anche rispetto alle modalità e ai testi drammaturgici. Abbiamo gettato il seme, ora ci impegneremo affinché l’idea possa fiorire.

A parte la Trilogia degli sconfitti, c’è uno spettacolo nel cassetto?
Sì, ce n’è uno a cui tengo davvero, però sento di dover crescere e maturare ancora prima di poterlo realizzare. È un progetto per me molto importante e per questo voglio esserne all’altezza. A settembre poi ci saranno le olimpiadi del teatro a Toga-Mura, io spero assolutamente di andare. È uno dei sogni nel cassetto, un’esperienza pazzesca.

19/03/2019 Valeria De Bacco

 

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